Lavare
il battuto con acqua e sapone fino a farlo brillare. Svegliare i
bambini e andare a prendere il minore a scuola. Rassettare, cucinare
e la sera, per risparmiare sui consumi, fare un po' di ginnastica
alla luce delle candele. Appendere i panni in terrazza, e da lì
guardare gli aerei passare sempre alla stessa ora. Dove andranno?
Deve domandarselo Cleo, vent'anni e un lavoro a tempo pieno:
domestica in una famiglia alto-borghese in cui ci sono sempre
esigenze, bambini che hanno sempre voglia di giocare. Se il papà
medico è spesso assente con la scusa del lavoro, e va e viene
soltanto per lamentarsi della casa non abbastanza pulita, delle
cacche di cane sul vialetto, del parcheggio troppo stretto, la mamma
è una donna sull'orlo di una crisi nervosa, che poco presta
attenzione alla carrozzeria dell'auto e ai ruoli di potere,
eppure sa mostrarsi insospettabilmente forte nei momenti di
difficoltà. Alle prese con quattro bambini disobbedienti e una casa
presto sprovvista della figura paterna, le due donne condividono
abbandoni e segreti sulla maternità. Cleo, custode onnisciente dei
loro fragili equilibri, resta incinta di un esibizionista che si
sognava Bruce Lee: nello stesso mese perde la verginità e l'amore,
piantata in asso in un cinema. La vediamo macinare chilometri a
perdifiato, nonostante l'ingombro del pancione, in un Messico a
soqquadro in cui si specchiano alla perfezione le gioie e i dolori di
una famiglia che riconosciamo a colpo d'occhio come quella del
premiatissimo Cuarón:
sbaglio, o il piccolo di casa che fantasticava di altre vite già con
il piglio dei narratori è proprio l'alter-ego di Alfonso, fresco di
vittoria a Venezia? La macchina da presa spazia tra panoramiche e
piani sequenza, ricercando dettagli vitali e scorci di impareggiabile
manierismo in una vicenda altrimenti semplicissima. Stilisticamente
straordinario, senza l'esigenza di alzare inutilmente la voce, il
cineasta messicano ci regala sequenze memorabili – l'incendio dei
proprietari terrieri a Capodanno, la ferocia della rivolta dove vita e
morte corrono gomito a gomito, lo spettacolo sublime del mare aperto
e il coraggio di sfidarlo petto in fuori con il rischio di annegare –
e un album di ricordi in cui la settima arte si fa quanto mai
questione privata. Boyhood
è diventa la mia, però, mentre questa è rimasta quella di Alfonso:
troppo distante da me nello spazio, nel tempo, ma ode alla tenacia
delle donne, alla quiete delle case in ordine e alle infanzie da non
rinnegare comunque abbacinante. Contro l'incostanza di maschi
traditori, gli sconvolgimenti dell'esterno – terremoti, rivoluzioni
o bande armate che siano – e le richieste di una Hollywood che di
solito richiede storie sensazionali per sentirsi all'altezza. Gli ha
dato carta bianca Netflix, nonostante la nostalgia della sala buia si
faccia sentire, e la terra natìa gli ha suggerito tutto il resto. Il
segreto di Pulcinella di quei piccoli grandi film che cercano con
successo l'arte e la poesia dappertutto, e così facendo ne regalano
un po' anche alla tua vita. Assieme alla bellezza di una nuova meta,
una seconda Roma, in cui darsi appuntamento con la puntualità dei
ricordi. (8)
Paese
che vai, melodramma che trovi. Di quelli con le panchine all'alba,
dico, le passeggiate seguite da carrellate da maestro e finali
irrimediabilmente dolce-amari. Possono cambiare il contesto (la
Guerra fredda) e il formato (4:3), gli sfondi (la Polonia degli anni
Cinquanta) e le intenzioni (rendere omaggio ai genitori del regista
stesso), e perfino strutture narrative che quell'amore già così
sofferto decidono di dilatarlo e frantumarlo in novanta minuti di
visione. Siamo in territorio comunista, si cercano talenti cari al
regime: lei ha la frangia bionda, una voce da usignolo, un passato
losco; lui la accompagna prima con il pianoforte, infine nel sogno
della fuga. Durante una tappa a Berlino si danno infatti appuntamento
per scappare in Francia: non parlano bene il francese, ma si
piacciono e confidano che l'amore basterà. Zula non lo segue, non
subito. Abbiamo protagonisti con cui è difficile simpatizzare,
poiché incapaci di scendere a compromessi; la regia tutta geometrie
interne e bianchi e neri sopraffini di un Pawel Pawlikowski in cerca
di un secondo Oscar dopo Ida;
una freddezza che non si limita soltanto al titolo, no, ma viene
ammorbidita dal jazz in sottofondo e dalle braccia degli amanti. Sono
apolidi, innamorati a tratti come in Like Crazy,
e non hanno che l'uno e l'altra come bussola. Ma lui, attratto dal
mondo del cinema e dai guadi impossibili, è troppo egoista per la
condivisione. Ma lei, adolescente accusata di parricidio e donna
alticcia in pista da ballo, si accorge che fama e notorietà non si
sposano bene se nella lontananza ci si è scoperti altro da quel che
si era. Si daranno appuntamenti saltuari negli anni, nei locali
fumosi delle capitali. Si inseguiranno da un capo all'altro di linee
inviolabili, nonostante non ci sia perdono per i disertori – tanto
dei confini familiari quanto dei sentimenti negati. Vivranno insieme
per un po', ma mancherà loro il brivido del pericolo, quella casa in
cui non sono più i benvenuti. Si trovano così a combattere un'altra
guerra fredda, ma fra di loro. Minacciati dalla routine, dalle
gelosie verso gli uomini e le donne avuti nel frattempo, dalla
perdita d'ispirazione come in A Star is Born.
All'inizio li accompagnava la schiettezza dei canti folkloristici,
poi sono arrivati quelli di propaganda, infine le impalpabili ballate
parigine. Hanno perso la voglia e le parole giuste per cantare
d'amore. E noi perdiamo il conto dei viavai, degli sbalzi d'umore,
del passare del tempo. Provati dall'incessante andirivieni e dalle
brusche dissolvenze in nero, ma coinvolti in un'epopea tragica in cui
la vista è bellissima e l'avventatezza della nostalgia può mettere
seriamente in pericolo. Commossi da una guerra, e da un amore, le cui
sentinelle non abbandonano mai la retroguardia di un passato
romantico alla mercé degli avversari. (7)
Houston,
abbiamo un problema. Questione di aspettative disattese, di momenti
giusti o sbagliati, di film diversi da come ti aspettavi. Quelli che
su carta non promettevano niente di buono, soprattutto a te che poco
apprezzi il patriottismo a stelle e strisce e gli effetti speciali,
ma che a sorpresa ti prendono per la gola. È il caso di First
Man: accolto tiepidamente a
Venezia, bocciato da blogger con cui ho condiviso il grande amore per
La La Land, frainteso
dagli spettatori che in sala si aspettavano avventure o forti
emozioni. Lontano tanto dall'agiografia quanto dal classico
sensazionalismo del cinema di genere – eppure qualcuno lo paragona
a torto ai biopic di Steven Spielberg o Ron Howard –, l'ultima
fatica del prodigioso Chazelle è una ricostruzione inconsueta perché
capace di dividere. Chi se lo sarebbe aspettato, parlandosi di un
eroe americano già canonizzato? Il granitico Neil Armstrong,
interpretato da un Ryan Gosling che sceglie con intelligenza estrema
i propri ruoli – l'espressività non è il forte dell'attore
canadese, ed ecco che gli viene in soccorso un uomo dai sorrisi rari,
di poche parole –, è un fuggitivo. Scappa a ogni occasione dalla
routine, dagli effetti collaterali dei sentimenti, dal dolore
inespresso per la morte della minore delle figlie. Non trova pace su
questa sera e, da bravo codardo, preferisce puntare al cielo. La
moglie Claire Foy pietrificata davanti alla radio – gli occhi
lucidi, le mani da tormentarsi senza pace – intanto onora le regole
di buon vicinato, si prende cura di ciò che resta della famiglia, lo
aspetta. Suo marito, che da giovane aveva il pallino per il musical e
un'aria mite, si è reso il principale protagonista di una corsa allo
spazio che contrappone da un lato gli Stati Uniti, dall'altro la
Russia. I piloti morivano come mosche ancora prima di decollare, e i
contribuenti cominciavano a mormorare preoccupati; bisognava sfidare
costantamente il vomito, la claustrofobia, la paura delle vertigini;
i giornalisti incalzavano con domande incapaci di scalfire la tuta
bianca di Armstrong. Cosa dirà calpestando il suolo lunare, cosa
porterà con sé? Dimenticatevi i volteggi manieristici, i brani
memorabili e i colori pastello del musical con Emma Stone: qui hanno
la meglio i primissimi piani, i silenzi sacrali, le sequenze
contemplative, le angosciose soggettive attraverso il vetro di un
oblò. Per oltre due ore, complice una visione lenta e immersiva, è
come essere lì con lui, che parlava troppo di lavoro e poco di
sentimenti. Nel terrore, nello splendore. La terra vista da lontano
è uno spettacolo che all'improvviso reclama a sé la colonna sonora
da brividi di Justin Hurwitz e bastano la musica che finalmente fa
capolino, la visione struggente di braccialetto che scivola a terra
piano, a contrastare la freddezza siderale del mondo di Neil
Armstrong senza mai snaturarne l'indole. Come capitò anche ad
Astolfo, il cavaliere dell'Orlando Furioso in
cerca del senno perduto a cavallo di un ippogrifo, non restava che
puntare in alto per recuperare l'umanità. Prima la consapevolezza,
poi la meraviglia della passeggiata, valgono un mese di quarantena;
una visione ostica ma segnante. L'anno scorso ci ha dato le stelle,
adesso non chiedetegli anche la luna. (7,5)
Credo (e spero) che "Roma" mi piacerà.
RispondiEliminaNon sono del tutto sicura, invece, che "First Man" possa fare al caso mio: in questo momento tendo a subire parecchi cali d'attenzione, perciò temo che i lunghi silenzi finirebbero per spedire effettivamente in orbita il mio cervello, ma verso una destinazione parecchio più incerta e distante della luna! XD
Più avanti, magari...
Anche Roma richiede molta pazienza e altrettanta attenzione, un giorno sì: aspetta che ritornino quelli, ho presente la sensazione di distrazione perenne!
EliminaROMA, come sai, mi è piaciuto davvero molto: un ritratto di umanità, soprattutto al femminile, che è riuscito a fare breccia nel mio cuore nonostante le distanze e le differenze nelle situazioni.
RispondiEliminaFirst Man è riuscito a incuriosirmi, a mostrarmi qualche sfumatura in più spingendomi a conoscere meglio un uomo prima che un eroe statunitense ma, da appassionata del genere, devo ammettere che davvero questo film non aggiunge nulla in più alla categoria. Sì, da Chazelle forse ci si aspettava di più!
Cold War, invece, è il grande escluso nella mia watchlist di quest'anno e non so se riuscirò a recuperarlo a breve ahimè :(
Se cerchi bene, si trovano i sottotitoli...
EliminaDue bianchi e neri, due narrazioni, diverse per tempi ma bellissime. Da una parte la quotidianità, dall'altra l'eccezionalità di un amore complicato. Sì, entrambe visioni intense.
RispondiEliminaFirst Man ha l'unico difetto di essere diretto da Chazelle, non per il risultato umano e claustrofobico, quanto per le aspettative che dalla sua regia ci si aspetta. Biopic classico ma con qualcosa in più.
Altro che "la vie en rose". Quanto ci piace di più in bianco e nero?
EliminaFirst Man, sarà stato il gran leggerne così così, mi ha coinvolto ed emozionato la sera giusta. Soprattutto per quell'arrivo così ostacolato, per quel braccialetto di un papà all'apparenza glaciale.
Non ne ho visto nessuno, ma Roma mi attira moltissimo, sia pure con un po' di timore.
RispondiEliminaTimore, alla fine, ingiustificato. Film d'autore, non per tutti, ma essenziale.
EliminaNon pensavo che First Man ti sarebbe piaciuto così tanto.
RispondiEliminaPer me resta un film davvero banale, prevedibile e deludente, ma sarà una questione di aspettative...
Cold War esteticamente stupendo. Qualche emozione in più, va bene che sono polacchi e il freddo si sente fin dal titolo, potevano però anche mettercela. :)
Su Roma ancora non mi esprimo, giusto per mantenere il mistero.
Tanto scommetto che lo troverò in pole position nel listone...
Eliminanessuno visto ma mi ispirano tutti..dal tuo parere direi che meritano!
RispondiElimina