Mali estremi
richiedono estremi rimedi. La Seconda guerra mondiale è in atto.
Hitler avanza. Diffonde la paura per le sue scelleratezze soprattutto in Europa. L'Inghilterra e le truppe alleate tremano. A
chi affidarsi in tempi così disperati? Chi vorrebbe sobbarcarsi il
peso di scelte decisive, questioni di vita e di morte? La proverbiale
patata bollente spetta a Winston Churchill: primo ministro,
essenzialmente, perché non c'era altra scelta. All'opinione
pubblica non piacevano i suoi modi radicali. I suoi discorsi
infervorati che parlavano della guerra come necessaria, mai banalmente
di pace. Darkest Hour, ritratto pubblico e privato del
politico inglese, racconta un uomo e un Paese indecisi sul da farsi.
Circondati da forti venti di guerra, da opinioni divergenti. Cosa
voleva il mondo da loro? Cosa il popolo? Dirige con mano elegante, al
solito, un impeccabile Joe Wright. Whiskey a colazione, la cenere dei
sigari dappertutto, le scelte importanti prese sulla tazza del water.
Qualche gradevolissimo tocco di umorismo british ma, in definitiva, troppa pesantezza. Da colui che mi ha reso digeribile Jane Austen,
moderna la letteratura russa, memorabile e spregevole la piccola
Saoirse Ronan, mi aspettavo classe immancabile, sì, e quella punta di
interesse che manca. Non amo il film bellico e Wright, che
in un meraviglioso piano sequenza aveva colto invece l'essenza della
battaglia di Dunkerque meglio e prima di Cristopher Nolan, non fa
eccezione. La guerra è mostrata non in campo ma nelle retrovie. Con
il linguaggio tutt'altro che semplice degli addetti ai lavori.
All'azione, Darkest Hour preferisce così i fiumi di parole di
un oratore bravissimo. Rigoroso e teatrale, il film finisce per annoiare spesso. Soltanto il Churchill uomo – vulnerabile,
bizzoso, capace di tenerezza giusto con la moglie Kristin Scott
Thomas e la stenografa Lily James – prende, diverte, con quella sua
figura tozza e un parlare indescrivibile, biascicato, che si perderà
sfortunatamente in fase di doppiaggio. Non possono bastare neanche i
virtuosismi di un Gary Oldman da Oscar – più grande del film in
sé, qui si dà a un one man show che fa quasi dimenticare gli sbadigli –
per illuminarla a giorno però, quest'ora più buia. (6)
Figlia
di due intellettuali, Mary cresce curiosa e malinconica, leggendo
poesie al cimitero e intrattenendo i fratelli con storie di spettri.
Appassionata di scienza e occulto, orgogliosa e romantica come Jane
Eyre, cade in contraddizioni a sedici anni: si innamora corrisposta
di Percy, impenitente e carismatico dongiovanni, e abbandona tutto –
la famiglia, l'horror, soprattutto il rispetto per se stessa – per
stargli accanto. Fanno scandalo. Convivono senza essere sposati,
vivono ambigui ménage a cui Mary a volte non riesce a opporsi e,
senza fissa dimora, sono assillati dai creditori. Lui predica e
pratica l'amore libero. Lei lo appoggia in teoria, ma nella pratica
vorrebbe trovare una voce e radici sentimentali più salde. Mary
Shelley,
romanzesco e appassionantissimo, lungo ma leggero come una piuma, è
uno di quei rari film in costume che sono riusciti a non annoiarmi
nel mentre. Complice una Elle Fanning la cui vista rinfranca ogni
volta il cuore e che, per temperamento ed eleganza, ricorda la Kidman
dei tempi felici. Con lei il narcisista Douglas Booth, l'indivisibile
sorella interpretata dalla Bel Powley delle commedie indie e Tom
Sturridge, perfetto Lord Byron dalla sessualità fluida e dagli occhi
bistrati. Incalzante, classico, bene attento alle emozioni e ai passi del processo creativo, il dramma biografico di Haifaa
Al-Mansour passa dal petto alla testa, dalla desolante morte di un
figlio agli avvisi dei creditori, fino ad arrivare a una
pubblicazione inizialmente accolta nell'anonimato. In giorni di
pioggia, ospite presso il castello di Byron, Mary sfidò se stessa e
le aspettative di un marito – e di un mondo – ancora maschilista.
Frankenstein
nacque per ripicca contro l'ozio di un inverno e l'insoddisfazione di una
giovane donna che si atteggiava a femminista ante litteram, per poi
struggersi con vergogna per le proprie pene d'amore. Dalla sindrome
di abbandono che portò con sé dal giorno della nascita. Dai
continui voltafaccia di un amante capriccioso, umorale e già
sposato. Nel ritratto semplice ma intenso di un'eroina da film di Victor Fleming, ci sono tutta la grazia di una Fanning che ormai non sbaglia
la scelta di un ruolo; il fuoco interiore che ne anima
le fughe, i discorsi accesi e le naturali contraddizioni; quell'amore
totalizzante, malsicuro, che genera i peggiori mostri e i migliori
capolavori. (7)
Insegnano psicologia. Insieme da una vita, belli e
affiatati come il primo giorno, si stimolano intellettualmente. Si
piacciono ancora. Non temono, perciò, che un'amante – la
studentessa più promettente del corso di lui, che con la sua
bellezza da bambola attira sguardi a lezione – possa dividerli. A
quella ventiduenne che vorrebbe cambiare il mondo, i coniugi Marston aprono prima la camera
da letto, poi la casa. Si innamorano entrambi di lei, con la scusa di
voler studiare i meccanismi delle confraternite, le relazioni umane,
i misteri della sessualità. William Moulton Marston perfezionerà la
macchina della verità, sperimenterà i piaceri del bondage e della
vita a tre, inventerà – per amore delle sue donne straordinarie –
il personaggio di Wonder Woman. Lontana dall'eroina buonista dello strombazzato film della Jenkins, l'amazzone sfidava il tabù
dell'omosessualità, praticava il sadomasochismo e, come il suo
ideatore, viveva in un mondo di sole donne. Il costume un po'
succinto ispirato al mondo del burlesque, corde e legacci come
metafora del rapporto amoroso: dove a volte bisogna sottomettere e
altre dominare, se in cerca di equilibri. Un Luke Evans non troppo
convincente deve difendersi a spada tratta dalle accuse di immoralità
e dal bigottismo di una Connie Britton che lo torchia. Deve farle
capire, farci capire, che non era solo per il gusto fine a sé stesso
di provocare. Che lui, la candida Bella Heathcote e una straordinaria
Rebecca Hall si amavano davvero: alla pari. E mettono così su
famiglia, crescono figli senza distinguerli fra è mio o è tuo, vivono un
felice ménage à trois – anche se l'intolleranza, le crisi
melodrammatiche sono dietro l'angolo – che può funzionare anche
lontano dagli appartamenti francesi di The Dreamers. Peccato
che Professor Marston & The Wonder Women, sulla falsa riga
di Masters of Sex, vorrebbe parlare di un
erotismo, di una modernità, che vuoi gli stilemi da fiction, vuoi le
briglie tirate da un'impersonale Angela Robinson, non riesce a
mettere in pratica. Peccato che un triangolo di belli e bravi sia
notevolmente sbilanciato, se la presenza della Hall – per fascino e
maturità – offusca quella di compagni non alla sua altezza.
Rispettosa e delicata, troppo, televisiva nella scrittura, la
biografia dell'uomo che ispirò Wonder Woman e le famiglie non
convenzionali interessa ma non solletica certe fantasie. Una vicenda
moderna, da conoscere, che rinuncia al sesso ma che di sesso parla –
quando c'è, girato con molto impaccio, ha Feeling Good in
sottofondo. Marston e le sue orgogliose odalische sarebbero fieri di
sapere che, decenni e decenni dopo, nell'anno in cui la loro
invincibile Diana è arrivata in sala con successo, il cinema stia
parlando finalmente di loro, mostandone serenamente i pensieri
sconvenienti e le passioni all'avanguardia. Meno all'idea che, nel
raccontare loro che di vergogna non ne avevano affatto, intervengano i
toni cauti, le immagini pulite, di un biopic che vorrebbe ma non può. (5,5)
È un commento un po' inutile, questo, perchè ho letto giusto qualche riga. Sono tutti e tre film che vedrò e che aspetto, e su cui evito di farmi influenzare. Che altro dire se non che a Torino il prossimo anno vorrei tanto esserci anch'io!
RispondiEliminaVieni, vieni. Anzi, vai, vai!
EliminaSpero di ritornarci anch'io. :)
Professor Marston & the Wonder Women era quello che mi ispirava di più, ma a quanto pare qualcosa dev'essere andato storto.
RispondiEliminaIl paragone con Masters of Sex da un lato mi stuzzica, visto che all'inizio era un'ottima serie, e dall'altro mi spaventa, visto che poi si è trasformata in una noia notevole...
Di Mary Shelley da altri "torinesi" non ne avevo sentito parlare troppo bene, però c'è Elle e quindi si vede. :)
L'ora più buia la vedo davvero buia. Mi sa anche che mi provocherà ancora più sbadigli che a te. Un peccato per Joe Wright, regista che mi piaceva parecchio, ma che già con l'ultimo Pan mi aveva fatto dubitare parecchio di lui...
Pan lo avevo rimosso, vero. Qui è tornato al rigore di un tempo, per fortuna: anche troppo.
EliminaElle, per me, merita sempre molto. Film gradevolissimo, e lo dice uno che al period drama è allergico (meno, vero, se parla di scrittura).
Professor Marston non annoia, no, però non "si applica"...
<3 <3 <3 Solo cuori, per dirti che ho finalmente letto e apprezzato le recensioni. Condivido tutto (anche se a me Wonder woman è piaciuto di più)
RispondiEliminaGrazie, Eli! <3
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