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sabato 27 febbraio 2016

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: The Danish Girl, Mustang, Anomalisa

Attore, Attrice non protagonista, Costumi, Scenografia
Una modella che tarda ad arrivare, un dipinto che ha bisogno delle ultime pennellate, quel marito artista che accetta di posare per lei, giovane pittrice in cerca d'affermazione. Le scarpe con il tacco sono strette, le calze stringono, ma la sensazione della seta addosso risveglia in lui la metà negata. Gerda e Einar assecondano di comune accordo l'emergere del lato femminile di lui: un po' di trucco, un vestito d'alta sartoria, una parruccha rossa... et voilà. Lili si risveglia, a una festa, con il bacio di uno sconosciuto, come nelle favole. E la favola la vive, ma di nascosto. La moglie paziente, nel mentre, piange in silenzio e sopporta. Il mistero di ciò che ha dentro, in testa, si abbatte anche sul corpo. Una dolorosa trasformazione psicofisica e Lili, mondana ed egoista, prende il sopravvento. Come un'amica immaginaria persa crescendo, che torna a sorpresa alla nostra porta e reclama il suoi spazi vitali, assieme ai nostri. C'è chi vorrebbe imprigionare Einar in una camicia di forza, il disturbo mentale è il verdetto; ma c'è chi, come Gerda, fedele fino all'ultimo, sa che Lili, un giorno, potrà diventare una farfalla. Un corpo che non calza a pennello, una straziante storia vera e, allo scorso Festival di Venezia, si era già sicuri che The Danish Girl si sarebbe fatto valere alla notte degli Oscar. Un amore trascendentale, un'altra trasformazione e, alla macchina da presa, il Tom Hooper così caro all'Academy. “E' stato come baciare me stessa”, racconta una Alicia Vikander qui dolce e risoluta, parlando del primo incontro con il marito artista. Nei quadri, infatti, lei lo vede già donna. Tra sé e sé, pensa in anticipo a una trasformazione mai tentata. La mente non metabolizza ancora, eppure la pittura – sfogo, immediatezza – accetta con facilità l'inaccettabile. Eddie Redmayne, ancora una volta con un ruolo ipercaratterizzato e arduo – e non perché la questione sia tabù, ma perché in Stephen Hawking, così come nei meandri di Lili, c'è il serio rischio di non uscire più -, veste per la prima volta abiti femminili e due personaggi. E, ancora una volta, lascia scossi e toccati. Einer, contrito e provato nella mascolinità, e la sua controparte nascosta, al contrario colorata e frivola: tra i due estremi, l'uomo e la donna, uno sconcertante lavoro di introspezione, un Redmayne particolarmente grazioso en travesti e un cambiamento che il maniacale lavoro di mimetismo palesa agli occhi. Da effeminato, con gli svolazzi delle mani e il passo danzante, ci dà poi l'impressionante illusione di cambiare pelle; alla fine, è Lili. Quand'è che un attore è il migliore della sua categoria, mi ha chiesto mio fratello durante la visione? Quando fa la differenza. Quando non permette che il film, senza di lui, abbia ragione d'essere. Se fosse per me, allora, en plein per un giovane interprete che, per il secondo anno consecutivo, ha la sfacciata fortuna di imbattersi nel ruolo di una vita e in una partner tanto comprensiva, tanto grande, quando lo fu la Jones. Hooper, raffinatissimo, porta un Redmayne in stato di grazia, di nuovo, e la splendida Alicia in un quadro di quelli di Gerda. C'è tanta bellezza, dunque, ma non mancano nemmeno il corpo, l'eros, il dolore di lui – che urla, e nessuno lo sente – e quello di lei – vittima dell'amore eterno nei riguardi del solo uomo che non potrà mai avere. Fino alla poetica immagine finale, almeno: una sciarpa che vola, il ricordo di un aquilone, il resoconto al mattino di un bel sogno. E Gerda che ha paura di svegliare bruscamente loro – dove inizia Einar e dove la sua controparte, ormai, non si sa più - e noi spettatori. Sonnambuli senza riposo e, tanta è stata l'emozione, senza più lacrime. (8)

Miglior film straniero 
Turchia, giorni nostri. L'ultimo giorno di scuola, come accade ovunque, genera euforia, qualche lacrimuccia, il baccano degli studenti felici e contenti, con tutta un'estate di dolce far niente all'orizzonte. Come accade nella mia città, ad esempio, e in tutte quelle a un passo dal mare, si corre in spiaggia al suono della campanella e ci si schizza l'acqua salata in faccia. La si schiva tra una risata e l'altra e le ragazze, punzecchiate, si aggrappano al collo dei ragazzi: a cavallo, accolgono la bella stagione. Ma per cinque ragazze turche, cinque sorelle, quel gesto di giovanile avventatezza è l'inizio della fine. Sarà, per loro, l'ultima estate da trascorrere insieme. Una vicina chiacchierona, comportamenti sconsiderati e improvvisamente, attorno alla loro casa, sorgono le sbarre di un carcere e fioccano visite di indiscreti pretendenti. Le orfane di Mustang, il film franco turco che avrà il mio sincero sostegno alla notte degli Oscar – e non solo perché ho visto solo questo all'interno della cinquina, per quest'anno -, hanno gli occhi chiari, la pelle abbronzata, i capelli lunghi lunghi. Sono bellissime, in età da marito, stando ai ragionamenti degli adulti, e indomabili. La più piccola delle sorelle, schietta e ribelle, racconta queste piccole donne appese ai cornicioni e sui trespoli della loro gabbia dorata, queste verigini suicide che d'amore talora vivono e taloro  muiono. Qualcuna si sposerà per desiderio, qualcuna per ordine di uno zio normativo o di una simpatica nonna che poco ha voce in capitolo e qualcuna, come la giovane narratrice, imparerà a guidare e, in segreto, a sognare una Istanbul che sembra un pianeta a parte. Uscito lo scorso autunno in Italia, il promettente, potente esordio di Deniz Gamze Erguven ha rari difetti, anzi, due: quell'etichetta di film drammatico, serio e rigoroso, che un po' stretta gli sta, e la pigrizia, che poi sarebbe un difetto giusto mio. Recuperato più per dovere che per voglia, Mustang si è rivelato un film diverso – sarà che il film straniero, comunemente, lo si immagina lungo, indipendente, di nicchia –, bello, toccante. Fresco e colorato, nonostante il tema ti mostri la tragica realtà delle spose bambine e gli strascichi di una antiquata società patriarcale, per gran parte del tempo è una commedia adolescenziale orientaleggiante, con l'estate delle grandi scelte e la sensazione di vivere per sempre. Sgattaiolare di nascosto, avere rapporti sessuali preservando la verginità, abbandonare gli studi per diventare perfette massaie: ci si stringe insieme, si stringono denti e pugni, e crescere – scoprirsi donne, mogli: oggetti – pare l'ennesimo gioco spensierato. Mustang, modernissimo e pieno di ottimismo, ha un cuore che pompa, le mille contraddizioni del suo Paese affascinante e terribile e cinque eroine come poche. Contro le lenzuola da sbandierare, con impressi i segni rossi della prima notte di nozze, e le tradizioni medievali dei loro avi, queste sorelle di un cinema francese che non delude si fanno scudo. Proteggono noi dalla pesantezza in agguato, se una simile storia fosse stata raccontata con altri toni, e praticano squarci alle loro brutte gonne per mostrare le gambe. Senza il velo, a capelli sciolti, nel vento. E trasformano la loro realtà, così, da prigione a baluardo, da dramma a commedia, facendo di Mustang il film di cui più ti penti per l'imperdonabile ritardo del recupero. (7,5)

Miglior film d'animazione
Michael Stone è un eterno passeggero. Vive viaggiando e, per lavoro, dà consigli agli altri. Una notte di pioggia l'ha portato a Cincinnati per il lancio del suo ultimo best-seller e, orgoglioso e cauto, si tiene stretto il suo accento britannico e il suo bagaglio a mano. E' ospite al Fregoli: un hotel stellato che gli offre una spaziosa camera per fumatori all'ultimo piano e, a sorpresa, una conoscenza che farà la differenza. Lì, l'indaffarato Michael incrocia la stralunata Lisa, e potrebbe avere inizio così una di quelle chiacchieratissime, poetiche commedie romantiche che piacciono a me. Hanno dolori e vite intense e una notte insieme prima di separarsi. A parole mie, Anomalisa è una storia d'amore alternativa, molto nelle mie corde: metteteci anche i protagonisti di mezza età, il sesso imbarazzato, gli ambienti circoscritti, i dialoghi a opera di un signore scrittore. In pratica, invece, soprattutto se sceneggiato e diretto dalla mente di Eternal Sunshine of The Spotless Mind, diventa più originale e bizzarro del previsto: ci sono due grandi attori – David Thewlis e Jennifer Jason Leigh: quest'ultima, straordinaria ancora una volta, dopo l'exploit con Tarantino – ma doppiano tozzi omini in stop motion; la romcom, perfino nell'esplicito rapporto sessuale, si fa a cartoni; i personaggi che popolano l'hotel e il mondo, fatta eccezione per i due protagonisti, hanno tratti anonimi e la stessa voce. Le figure di Kaufman, nonostante le prodezze dell'animazione, hanno sul viso quella che ha tutta l'aria di essere una maschera posticcia. Come mai, ci si domanda, e perché Lisa, eppure non bellissima, non brillantissima, è l'impensata variabile nel mondo dello scrittore sempre a zonzo? Lo psicoanalitico Anomalisa ci dà molte chiavi di lettura e, allo stesso tempo, nessuna in particolare. Candidamente, si potrebbe dire che abbiamo bisogno di una sola voce, purché sia quella giusta, per sorridere alla vita. Documentandosi un po', invece, si scoprirebbe tutt'altro: ad esempio, riferimenti criptici nel nome stesso dell'albergo che fa da sfondo. Fregoli, trasformista italiano, ha dato il nome all'omonima sindrome: un raro delirio in cui il malato si sente braccato da una persona che cambia aspetto e, stando a lui, si camuffa per confondergli le idee. Ecco il perché dei volti simili ma diversi, delle voci omologate. Se la prima parte – introspettiva, tenera, logorroica – fa del film un gioiello, la seconda – più visionaria, sbrigativa – lascia confusi, soddisfatti a metà. Ma venti minuti irrisolti possono forse cancellare una splendida ora introduttiva? Un Freud ci andrebbe a nozze, il nostro Pirandello avrebbe tanto da ridire sulle maschere, gli esseri umani e sui misteri insondabili della nostra psiche. Io, pur non apprezzandolo al cento percento, con qualche forte riserva legata alla vaghezza della chiusa, ho trovato che in Anomalisa ci fosse tanta, ma tanta di quella umanità... Pur parlando di disumanizzazione, tra le righe. Pur essendo fatto, a prima vista, di tanti cliché sull'anima gemella e plastilina. (7)

giovedì 25 febbraio 2016

Mr. Ciak: Deadpool, Freeheld, Pride and Prejudice and Zombies, La Quinta Onda

Non sono un fan del cinecomic: anzi, nei riguardi del genere mi fingo snob e indifferente. Non sono amico, nella vita di tutti i giorni, di chi gioca a fare lo spiritoso a tutti i costi: detesto in automatico chi tutti trovano simpatico e, nei film, faccio il tifo per i musoni. Almeno hanno una personalità e un vestiario total black, che non guasta. Cosa ci faccio, dunque, un giovedì sera, al primo spettacolo di questo Deadpool, che forse era vietato ai minori e forse no, forse era un fumettone come tanti e forse no, che forse avrebbe potuto sorprendermi e forse no? L'impressione, a pelle, che il mercenario chiacchierone – lo stesso che, pare, non si sappia bene di quale sponda sia; quello che non vuole unirsi all'allegra brigata degli X-Men e che, rompendo la quarta parete, chiacchiera spesso con i suoi spettatori – fosse più come Kick Ass, outsider indipendente e sarcastico, che un personaggio di Stan Lee, inconsueto giusto all'apparenza. Partono i titoli di coda, che hanno sì del geniale, e pian piano conosciamo il pimpante Wade, la sua sexy ragazza e la malattia che l'ha reso un supereroe. Ma guai a chiamarlo così. Perché Deadpool è "antieroe" che si definisce, semmai, e perché tra i suoi compiti – oltre quello di recuperare l'amata rapita e di combattere il crimine organizzato – c'è quello di trovare il folle scienziato dall'accento british e costringerlo a dargli una faccia nuova. Non ha una nobile missione, interessi politici in ballo, una dolce zia da proteggere: con la bellissima Vanessa c'è stato il sesso, tanto e fantasioso, ma solo dopo l'amore vero. Invasioni di spot televisivi, articoli e clip, ci promettevano a questo punto grasse risate, il politicamente scorretto, la Marvel che non ti aspettavi. Il cinecomic finto-alternativo di Tim Miller, invece, riesce a stento a far sorridere: americanissimo, intraducibile, becero. Ci si limita a: oh, ecco le chiappe di Ryan Reynolds: quanto osa. O ancora: oh, ha fatto un'allusione e un'altra ancora: ammazza, com'è trasgressivo. Dalla sua, la sbarazzina colonna sonora anni '80, i comprimari buffi – il tassista dal cuore spezzato, l'amico barista, la coinquilina cieca – e la furbizia degli affabulatori. Sottraetegli, però, le freddure e i fardelli del pessimo doppiaggio italiano – il cattivo chi è, Joe Bastianich in persona? Di un personaggio eccessivo, sboccato e irresistibile su carta, resta allora una dimenticabile oretta e mezza, in cui perlopiù se la cantano e se la suonano: eppure, altrove, mi fanno ridere il nonsense, le citazioni, il triviale. Qui, invece, le brutture e le parolacce lasciano il tempo che trovano, il divieto ai minori non ha motivo d'essere e tutto l'ambaradan pubblicitario, che ci prometteva il sesso e il sangue, si è rivelato il più ingannevole specchietto per le allodole. Quando il trailer, dunque, ha più idee del film in sé. (5)

Nessuno sa come viveva la detective Laurel  prima della malattia. Un tumore ai polmoni, fulminante. L'abbandono di quel lavoro che la appassionava e l'emergere di una persona accanto a lei che né i colleghi, né i concittadini conoscevano bene. Stacy non è semplicemente la sua coinquilina: si sono conosciute un anno prima, hanno messo su una modesta casetta, hanno comprato un cane. Si sono volute bene e adesso, nel momento più buio, continuano a volersene. Ma ecco, con l'emergere di quella doppia verità – il cancro, l'omosessualità -, i retroscena di un ambiente sessista e le falle del sistema giudiziario americano. Un tema quantomai attuale, questo, in giorni di chiacchiere vuote e pubbliche manifestazioni di ignoranza. Il Family Day contro le Unioni Civili, le scritte sul Pirellone che si oppongono alla nuova normalità. E io che mi auguravo che al Circo Massimo aprissero le gabbie, oppure che con una sommossa, con un tranello, si proiettassero in mezzo alle false famiglie felici le sequenze clou del recente Freeheld. Un film sulla fragilità del corpo, l'indissolubilità del pregiudizio, la purezza del sentimento. Anche se il tema – importantissimo – è più grande, questa volta, di un cinema impegnato ma standard. Unioni Civili? Si è favorevoli, inutile dirlo, perché di mezzo c'è l'amore. Magari, Ennis e Jack non facevano quella finaccia lì. Magari, Adele e Emma non si lasciavano così, su due piedi. Ma alcuni l'amore non lo capiscono, e può starci, ma in ballo non c'è solo il matrimonio, il passeggiare alla luce del sole, le adozioni di cui i più parlano e sparlano. In Freeheld, infatti, ci sono anche le scartoffie, i cavilli tecnici, una legge da aggiornare. Per ricevere la pensione di lei, quando Laurel – dopo ventitrè anni di servizio – morirà. Per non dovere abbandonare una casa costruita insieme, come se la giovane Stacy fosse un'estranea qualsiasi. Per poterne farle visita all'ospedale e dire sì, sono una sua familiare: a tutti gli effetti. Tratto da un'intensa e illuminante storia vera, Freeheld scende in piazza e si batte per l'uguaglianza – nei diritti come nei doveri, nell'amore. Visione che mi ha commosso ma che non ricorderò a lungo. Imprescindibile, ma non per uno spumeggiante Carrell, né per uno Shannon ineditamente magnanimo. Non per una Julianne Moore di grande sensibilità e bravura, né per la partner Ellen Page che, dopo l'outing di qualche anno fa, è vittima del cliché. Ma imprescindibile, appunto, a testimonianza che l'amore, anche se a volte deve un po' imbrogliare, smuovere le acque, vince su tutto e tutti. E che l'unica vergogna, ora e per sempre, sarà ostacolarlo. (6,5)

E' cosa universamente nota che i personaggi e, di conseguenza, i romanzi di Jane Austen, a lungo, almeno, non mi abbiano ispirato ammirazione e simpatia. Anzi. Colpa di una conoscenza preliminare iniziata con Emma, leziosa e attaccabrighe, e di storie d'amore e etichetta più indirizzate a un pubblico femminile. Penso, infatti, che i romanzi non abbiano un sesso, e per capire che c'era altro, al di là dei sospiri e dei matrimoni combinati, mi è servito l'esame di Letteratura Inglese, due Sessioni Estive fa. Me ne sono fatto un'idea meno superficiale e la cara Jane l'ho capita, sì, ma ci siamo limitati a incrociarci sul grande o sul piccolo schermo, all'occorrenza. Prendere il suo Orgoglio e pregiudizio e stravolgerlo completamente, operazione blasfema per i più, a me non sembrava dunque cosa chissà quanto azzardata. E se le belle e affiatate sorelle Bennet, un giorno, incontrassero gli zombie? L'idea è passata prima in testa allo scrittore Seth-Smith Grahame, in libreria, e poi in sala. Pride and Prejudice and Zombies, parodia horror dalla gestazione assai travagliata e destinata, negli anni, a una serie sfortunata di rimandi – all'inizio, infatti, Hollywood voleva la Portman nel cast e O'Russell alla regia -, può, pur facendo il verso a un capolavoro intramontabile, lasciarsi guardare con piacere, attenzione e credibilità? Il film di Burr Steers, a sorpresa, è semiserio e curato nei dettagli – truppo e parrucco, dico, ghigni mostruosi e effetti splatter compresi -, con un'impensata accuratezza filologica, soprattutto nella prima ora. La Elizabeth dell'incantevole e fiera Lily James conosce l'etichetta, le arti marziali, il ballo di coppia. E' bene educata, in età da marito, abbastanza istruita per rispondere a tono al Darcy del poco carismatico Sam Riley e per respingere schiere di redivivi. Ma una fanciulla, in sé, quante risorse può avere, di grazia? Può essere elegante e battagliera, preziosa e selvaggia insieme? Le battute sono spesso identiche – si parla di sentimenti, uguaglianza tra sessi, virus mortali – e, alla dichiarazione d'amore più celebre della letteratura, seguono attizzatoi puntati, un corpo a corpo tra lui e lei. Per una volta, dalla mia, avrei gradito più genuina stupidità: Pride and Prejudice and Zombies non vuole far ridere, si dilunga anche un po' e, con il pilota automatico delle più classiche produzioni britanniche, ha poche botte di fantasia – oltretutto, assicurate dalla presenza di un esilarante e esagerato Matt Smith. Per me, che non amo la versione originale, la fin toppa attinenza al testo ha rovinato la pazza idea che c'era alla base. (Quasi) la solita trasposizione, ma dalla chiave di lettura parzialmente inedita. Poteva essere meglio o peggio, be', dipende dai punti di vista, ma questi inglesi – nel cast, gli immancabili Dance, Booth, Houston e Lena Headey – sono fin troppo a modo, glamour, per darsi al trash che cercavo io. (6)

Il mondo che tutti noi conosciamo cambia nel momento in cui un'astronave di altri pianeti oscura i cieli degli Stati Uniti. Se ne sta lì, ferma, e gli alieni non si mischiano agli uomini. Verranno forse in pace? L'invasione, lenta e graduale, è iniziata nel momento in cui i dispositivi elettronici ci hanno abbandonato: si vive al buio, all'indomani della prima onda. Poi i fiumi e i mari si ribellano, rompendo gli argini ed erodendo le coste, e infine i volatili diffondono una pestilenza che stermina la maggioranza degli adulti. L'ultima ondata arriva e trova Cassie, sedici anni, sola e armata fino ai denti. In una mano il fugile, nell'altra un orso di peluche. Due genitori sepolti, un fratello minore da ritrovare, imparare a sparare a bruciapelo: gli invasori, gli altri, sono uguali a noi. Da una parte, la sua ricerca e l'incontro con un misterioso e premuroso coetaneo che vive nei boschi. Dall'altra, la vita del piccolo Sammy in un campo militare. Se gli adulti non ce l'hanno fatta, i bambini devono infatti imparare in fretta l'arte della guerra. Con lui c'è Zombie, un adolescente ferito che nell'invasione ha perso la famiglia e l'identità, e un cattivo tenente che non guarda in faccia a nessuno. I ragazzini uccidono e vengono uccisi, l'innocenza si perde premendo il grilletto e gli extraterrestri, silenziosi e discreti usurpatori, ci ricordano le nostre, di invasioni massive, quando cercavamo terre promesse, posti al sole e nuovi continenti. Sembrerebbe, su carta, l'erede lampo di Hunger Games: una protagonista tenace, la violenza che non fa eccezioni, una trilogia in corso di pubblicazione. Sembrerebbe, con a bordo una giovane attrice che è un cavallo di razza, che lo sci-fi del bravissimo Rick Yancey, al cinema, abbia trovato la sua dimensione ideale. Con il condizionale però. Perché La quinta onda, trasposizione frettolosa e tiratissima di un romanzo che qualche anno fa mi aveva molto sorpreso, racconta una storia che è la stessa del libro che l'ha ispirato, ma che non è la stessa. Banalizzata e ridotta ai minimi termini, diventa un intrattenimento modesto ed essenziale, che lascia a casa i tratti distintivi dei mondi avventuosi di Yancey – l'ironia, la crudeltà, tre punti di vista sapientemente resi – e poco stupisce, con un lato visivo curato a sufficienza e una sceneggiatura ridotta all'osso: un taglio netto ai dialoghi e alla caratterizzazione dei protagonisti, le navicelle di un District 9 e gli amori impossibili post Twilight. Né brutto né bello, rimarrà quasi sicuramente figlio unico e finirà diritto nel mio personale dimenticatoio: un limbo di film visti e scordati senza remore, di occasioni perse in partenza. Quando la logica del guadagno facile vince sul bisogno di una trasposizione, e ci perdono la potenza, la tensione e un po' anche il cinema. (5,5)

sabato 20 febbraio 2016

Recensione a basso costo: Acciaio, di Silvia Avallone

L'adolescenza è un'età potenziale.

Titolo: Acciaio
Autrice: Silvia Avallone
Editore: Bur – Rizzoli
Numero di pagine: 357
Prezzo: € 5,90
Sinossi: Nei casermoni di via Stalingrado a Piombino avere quattordici anni è difficile. E se tuo padre è un buono a nulla o si spezza la schiena nelle acciaierie che danno pane e disperazione a mezza città, il massimo che puoi desiderare è una serata al pattinodromo, o avere un fratello che comandi il branco, o trovare il tuo nome scritto su una panchina. Lo sanno bene Anna e Francesca, amiche inseparabili che tra quelle case popolari si sono trovate e scelte. Quando il corpo adolescente inizia a cambiare, a esplodere sotto i vestiti, in un posto così non hai alternative: o ti nascondi e resti tagliata fuori, oppure sbatti in faccia agli altri la tua bellezza, la usi con violenza e speri che ti aiuti a essere qualcuno. Loro ci provano, convinte che per sopravvivere basti lottare, ma la vita è feroce e non si piega, scorre immobile senza vie d'uscita. Poi un giorno arriva l'amore, però arriva male, le poche certezze vanno in frantumi e anche l'amicizia invincibile tra Anna e Francesca si incrina, sanguina, comincia a far male. Silvia Avallone racconta un'Italia in cerca d'identità e di voce, apre uno squarcio su un'inedita periferia operaia nel tempo in cui, si dice, la classe operaia non esiste più.
                                                 La recensione
La loro amicizia era diventata una cosa inesplosa, come i petardi difettosi rinvenuti il giorno dopo. Quelli che ti cavano un occhio, se li raccogli dal marciapiedeFrancesca e Anna – tredici anni, quasi quattordici – si schizzano, si rotolano nella sabbia e attirano sguardi indiscreti, sulle spiagge di una Toscana che non riconosci: grigia, radioattiva, industriale. Angosciante. Eccola lì, una spallina del costume che scivola giù. Eccolo, il triangolo del bikini che si sposta e si infila ovunque, lasciando ben poco all'immaginazione. Ci fanno caso a quanto sono diventate belle di botto, a quanto piacciono, loro due, mentre fanno i giochi stupidi di sempre e fanno girare la testa ai ragazzi del quartiere? C'è chi, con il binocolo alla mano e i pantaloni gonfi sul davanti, le guarda e fa pensieri strani: un genitore fin troppo apprensivo, un amico di famiglia ritrovato, un operaio in pausa caffè... Nuotano, e a largo c'è l'Elba. Saranno mai abbastanza forti le loro braccia, per portarle d'un fiato fin lì, a cavallo di un'onda? Non sanno ancora, infatti, che la loro amicizia è destinata a finire presto – una andrà al classico, un'altra al professionale; una vuole bene all'altra come a una sorella, e l'altra la ama come pare sia sconveniente amare una ragazza – e che da via Stalingrado, un labirinto di casermoni a pezzi e motorini truccati, non si scappa mica. La periferia è un destino, la terra all'orizzonte un miraggio sfocato. Insieme alle due, ingenue e fatali, con i poster di Britney Spears alle pareti e gli sguardi estranei fissi addosso, i parenti – padri troppo assenti o troppo presenti, mamme similmente vittime – e gli amici, a un bivio. Quel fratello così invidiato, Alessio, che eppure muore d'amore per l'inarrivabile Elena e campa di strisce di coca, turni faticosissimi, vita spericolata. Quei soliti amici suoi, Cristiano e Mattia, che con le adolescenti del quartiere hanno i flirt e, talora, i figli. E su di loro, nell'Italia delle centomila lire e Berlusconi, le luci tremolanti delle tivù, che trasmettono in sincrono la caduta delle Torri Gemelle, e l'ombra della Lucchini, che a tanti dà la vita – con le occasioni lasciate in eredità alle generazioni future, gli incarichi a tempo (in)determinato – e a qualcuno la morte. Le temperature di fusione sono altissime, infatti, i walkman non sovrastano il rumore assordante e sono lunghi, i turni, per permettersi un tuffo nel blu. Come separi il ferro dal carbonio, uniti insieme in una lega metallica? Come spezzi un'amicizia in due, un cuore, e sperare di tirare avanti? Acciaio, in whishlist dal giorno dell'uscita, a metà strada tra il romanzo d'inchiesta e quello di formazione, è l'esordio nostrano che guardava a Niccolò Ammaniti – la sua periferia, i tocchi pulp, i nuovi miserabili - e a cui, qualche tempo dopo, avrebbe guardato Valentina D'Urbano, amatissima da queste parti.
Sono passati sei anni. Facevo il liceo, mi sembra, e la Avallone era ovunque mi girassi: amici non lettori, perfino, mi parlavano di un vagheggiato amore saffico, nocche livide, colate incandescenti. Acciaio faceva discutere e vendeva, sì, ma non ero curioso neanche un po'. Esploravo altri generi, all'epoca, e le storie suburbane sarebbero arrivate sul mio scaffale soltanto qualche estate fa – prima con i Gemelli e la Fortezza, poi con l'indimenticabile Graziano Biglia e le figure della inventata Ischiano Scalo. Tutti ne parlavano. E allora perché parlarne ancora? Tutto era stato detto. E allora cos'altro aggiungere? L'ho riscoperto solo adesso e l'ho letto lentamente: un esame dai giorni contati, che forse andrò a dare mercoledì o forse no, e climi afosi, tra le pagine. Una vicenda per cui mi viene in mente un aggettivo preciso, torrida, e un rapporto al femminile di amore e odio, gelosie e confidenze, che vagamente mi ha reso queste Francesca e Anna molto simili a Lila e Lenù, che però popolano un'altra città e altre saghe – acclamate, a giusta ragione, come eroine di un capolavoro contemporaneo. Acciao l'hanno amato e l'hanno odiato invece. Forse, lo amano più all'estero, da quel che leggo. Io sono il tipo che preferisce stare in mezzo. In mare aperto. Perché è scritto benissimo o, se benissimo non è scritto, comunque è scritto come piace a me: suggestivo, vigoroso, sferzante. E perché, d'altra parte, raccoglie personaggi - e purtroppo luoghi - comuni, e inevitabilmente non tutti affascinano allo stesso modo. Spettacolo voyeuristico e verisimile che non ha occhi che per loro. Gli si perdonano, perciò, le svolte irrisolte e i drammi mancati: le tragedie colpiscono loro, poco noialtri. Non si urla all'ingiustizia, alla vita che è una gran bastarda, se sembravano inevitabili. Le storie che vi nominavo, che lo abbiano preceduto o seguito poco importa, hanno più anima e più pancia. Come il metallo di cui porta il nome, il romanzo è duro e tagliente. Ma come quell'acciaio lì è anche freddo, al tatto. Ritiri la mano, ma prima getti il sasso. O era l'uniposca rubato? Quello, sui muretti e nei libri, con colori sanguigni, ti racconta di tutti loro e di un'isola che potresti sfiorare con un dito: se non fosse per la pigrizia, se non fosse per la paura... Quando ci mette il sole a cancellare amicizie ed amori a inchiostro dalle panchine?
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Vasco Rossi – Albachiara

mercoledì 17 febbraio 2016

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Room, Il caso Spotlight

Miglior film, Regia, Attrice, Sceneggiatura non originale
Una mamma prigioniera, un figlio che non ha mai visto l'esterno. Dopo la fuga, il miracolo impensato di una seconda infanzia per il piccolo Jack - tra i narratori più dolci in cui mi sia mai imbattuto – e anche per noi lettori. A volte, troppo presi dal resto per accorgerci di quanto sia azzurro il cielo e di quanto grande, ma spaventoso sia invece il mondo. Là fuori, piccoli principi - sui loro pianeti a forma di capanno degli attrezzi - e orchi famelici. Mi era piaciuto raccontarvelo come una fiaba, a parole mie. Un ricordo per un ricordo, scambio equo, e una panoramica personalissima su undici metri che racchiudevano tutto l'amore e tutta la speranza di questa nostra folle umanità. Nella Stanza, c'è però chi ci ritorna. Ho letto il bestseller di Emma Donoghue a dicembre e l'ho incoronato senza doverci pensare su romanzo dell'anno; dalla mia palla di vetro, da petto e stomaco che scalpitavano all'unisono, vi avevo anticipato la sua necessaria presenza alla notte degli Oscar, dopo la calorosa accoglienza a Roma e il premio alla migliore attrice protagonista ai Golden Globes. Lo avevo letto in cerca del meglio – sull'innocente Jack, così minuto eppure così forte, il fardello di un triste inizio e delle mie aspettative astronomiche – e, di lì a poco, avrei visto la trasposizione cinematografica a cura di Lenny Abrahmson, già autore del dissacrante Frank, con simile ansia. Se Revenant era un'americanata senza fantasia e Brooklyn una commedia retrò dallo scarso mordente, in Room cercavo la potenza e l'originalità di cui il cinema indie è naturalmente capace. Il miglior film della competizione, o almeno il mio - amante, al contrario dell'Academy, del cinema di nicchia, più della sostanza che della forma e di emozioni che, nel tempo, non ti tradiranno. Room, rimaneggiato, è altrettanto struggente e trasognato. Una trasposizione rispettosa e calzante di un racconto che si articola in due parti: la vita dentro, sotto chiave, e l'avventuosa conquista del fuori. Ma dove si sta meglio e dov'è più facile volersi bene? Per vivere in questo mondo, ci vogliono gli occhiali scuri, la crema solare, un cappello a forma di orso per ripararsi da una pioggia scrosciante che no, non ci affogherà. Bisogna farsi gli anticorpi, contro l'insensata crudeltà del prossimo. Allo spettatore, invece, per sopportarla – la vicenda infatti sconvolge, ma i toni sono quelli delicatissimi in cui confidavo sin dall'inizio - basta guardare gli occhi blu dello straordinario Jacob Tremblay, grandi e stupiti, mentre contempla un cielo di un colore sconosciuto, ritagliato tra i fili del telefono, i rami secchi, la ruggine del pick up del padre assassino. Ancora in cattività, ma presto libera, una intensa Brie Larson: la notevole somiglianza fisica, la confidenza e l'intimità di un piccolo set, di una piccola stanza, rendono i due attori metà combacianti e parenti di sangue. Lui, ancora più di lei, è un ometto da applausi: inspiegabile la sua mancata candidatura. E Leo, al posto tuo, avrei avuto paura del prodigioso Jacob. Si sorride, inteneriti. Si piangono fiumi di lacrime, ma sono sincere, e scorrono più per le cose belle che per quelle brutte. E nel dramma madre-figlio di Abrahmson, nonostante la rabbia e il disgusto, c'è davvero tanto per cui gioire: l'amore non ha confini, la stanza è un buco arredato alla bell'e meglio, ma il film del regista irlandese sa essere immenso. Ciao Ma', sii forte, e ciao Jack, di mezza spanna già più alto. Sapete che in sala sta per passare una perla tutta schegge e speranze che parla niente meno che di voi? Arriverci Letto, arrivederci Armadio, arrivederci Specchio; a tutti, addio. Anche a te, cuore, che ormai dici di voler restartene lì, per un altro po'. (8,5)

6 Nominations 
Siamo negli anni ottanta e, in una commissariato di Boston, c'è una mamma interrogata, insieme al figlio. Il bambino è stato molestato - e da chi, all'epoca, non ti saresti aspettato mai. Il suo aguzzino indossava l'abito talare. Ma il crimine non poteva essere denunciato: si seppelliva la verità sotto mucchi e mucchi di sabbia, se poteva creare scandali mediatici. Per il sacerdote, il minimo indispensabile della pena: il trasferimento presso un'altra parrocchia. E lì, come riveleranno i coraggiosi giornalisti del Globe, altre vittime innocenti, altri occhi chiusi, altre menzogne. Sono trascorsi quasi vent'anni e siamo precisamente agli inizi del nuovo millennio, quando nella redazione di un quotidiano locale arrivano un nuovo direttore e, dal passato, uno scoop. All'incirca, le statistiche dimostrano che il sei percento dei sacerdoti, almeno una volta, ha abusato di un loro piccolo parrocchiano: un chirichetto, il bambino più timido che frequenta il gruppo del catechismo, un fragile dodicenne che ha confessato al parroco gli ingenui sospetti sulla propria omosessualità... Fatte le debite proporzioni, nel capoluogo del Massachussets dovrebbero essere quasi novanta i preti tacciati di pedofilia. Invece, risultavano dieci scarsi quelli implicati in lunghi casi giudiziari che si erano conclusi o con l'omertà, o con un irrisorio risarcimento danni. E gli altri ottanta a piede libero, ma mai denunciati? Cos'era stato, soprattutto, di quei minori che per vergogna non avevano chiesto prima giustizia? Spotlight, presentato in anteprima a Venezia, premiatissimo e nominato nelle maggiori delle categorie, è un thriller che ruota intorno alle indagini di un manipolo di tenaci reporter statunitensi, invischiati in un caso che sfugge, disgusta, mette a dura prova i nervi. All'inizio, hanno pochi nomi e tanti nemici. L'indagine è circostritta e delicata. Da metà in poi, lo scandalo pedofilia supererà i confini nazionali e, nel mirino, il vicino di casa, il vecchio insegnante di religione, il Vaticano. E la Chiesa che, potente e corrotta associazione a delinquere, intima che si faccia al più presto silenzio. Tom McCarthy, ispirandosi a un'indagine Premio Pulitzer, scrive e dirige un film d'inchiesta che ha, dalla sua, insieme a una storia spinosa e quantomai attuale, un cast d'eccezione. Prevalgono la dimensione corale, la portata della notizia e la ricerca dei sopravvissuti al tocco ignobile di alcuni adulti, piuttosto che le singole storie dei giornalisti in azione. I riflettori saranno puntati, dunque, sui dati nudi e crudi e sui resoconti delle vittime, non su prove attoriali piene di discrezione, tatto e naturalezza – Keaton, Schreiber, Tucci e Crudup non sono meno soprendenti, infatti, del sempre grande Ruffalo e di un'anonima Rachel McAdams. Le vittime, bambini bisognosi e taciturni a cui un cattivo sacerdote, un orco, aveva rubato l'innocenza e, peggio, la Fede nel prossimo. Non ci sono religioni giuste o sbagliate, non c'è un Padreterno che vendica in questa vita – e nell'altra? - i torti subiti: la colpa, conferma il lucido e analitico McCarthy, è degli uomini. E lo fa con uno stile cronachistico, valido e incalzante, ma con il taglio di un documentario. Spotlight, percio, seppure fruibile e schietto, è un film d'inchiesta che ha riflessioni e dita puntate, ma non il guizzo. Incontrovertibile e ingiudicabile. Non la mia idea di miglior film, laddove l'attinenza ai fatti e il forte realismo lasciano da parte il piacere di una storia – vera o falsa che sia – raccontata con personalità, assieme ai non trascurabili benefici della quarta parete, qui assente. Ci perde Dio, sotto accusa. Ci perde l'essere umano, vile. E quando ci guadagna qualitativamente parlando il cinema, se trionfa la verità? (6,5)

sabato 13 febbraio 2016

Commenta e vinci Vita degli elfi, di Muriel Barbery

Amici lettori, buon pomeriggio. Come state?
Avete imparato da un po' la mia risposta. Io sto. 
E sono più assente, in questi giorni, tra la situazione a casa che si sta muovendo – né in meglio né in peggio, ma intanto si muove, e sono inevitabili gli scossoni – e un esame corposo e da me tanto odiato, Storia Moderna, che devo riuscire a preparare entro il 24 febbraio. Il precedente, andato alla grande, l'ho sostenuto il 3 e, da allora, le mie letture e le mie visioni non sono andate avanti, tra una cosa e l'altra. La sera mi addormento presto, e con Sanremo sullo sfondo; leggo di tanto in tanto Acciao, che eppure mi piace... Al massimo altri dieci giorni, però, e tutto tornerà (più o meno) alla normalità. Nell'attesa, l'occasione per chiacchierare un po' e aggiornarsi ma, soprattutto, per farvi un regalo. Alla fine dello scorso mese, infatti, è arrivato in libreria il nuovo, atteso romanzo dell'autrice di L'eleganza del riccio e il caro Giulio dell'Ufficio Stampa non solo me ne ha inviato una copia, ma ben due. Chi tra voi vuole l'altra? Ditemelo in un commento, su, ricordandovi di lasciarmi email, condivisioni e – se siete nuovi iscritti – il vostro nick. 
Il 20 febbraio contatterò il vincitore in privato.
Buon weekend a voi. M.

giovedì 11 febbraio 2016

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: The Hateful Eight, Trumbo, 45 anni

Attrice non protagonista, Colonna sonora, Fotografia
Il tardo ottocento, un Wyoming che porta i segni della Guerra Civile e del cattivo tempo, una neve che non si scioglie. Il sole latita. La tempesta del secolo è dietro l'angolo. Sperano di non trovarcisi nel mezzo i passeggeri di una carrozza che avanza pian pianino e che, nel mentre, chiacchierano per scaldarsi: due cacciatori di taglie, il futuro sceriffo e una sfrontata criminale, tutti insieme appassionatamente, verso la cittadina di Red Oak. Le temperature precipitano, i cavalli si ribellano. Fermarsi per qualche giorno, perciò, in un'accogliente merceria che ospita già un paio di ceffi loschi. Non languirà di certo la conversazione, se hanno tutti idee agli antipodi e se sceneggia un Tarantino mai così verboso e nostalgico. La baita nel cuore della tormenta viene divisa in due – i sudisti da una parte, i nordisti dall'altra -, e al centro c'è il tavolo da pranzo, territorio neutrale. E l'ottavo lungometraggio dell'autore di Pulp Fiction – amatissimo dai più, da me in dosi ragionevoli – si divide in capitoli compositi, punti di vista speculari, un prima e un dopo. Ha un incipit che non delude le attese e una chiusa che, pur non entusiasmando, regala il bagno di sangue e i colpi di scena che ci si aspettava. Al centro, i paragrafi che ho più patito: una lunga e ingiustificata agonia - sarò impopolare, ma onesto – in compagnia di personaggi coerenti e detestabili, come da titolo. Sono numerosissimi, logorroici e il più pulito tra loro ha la rogna: parlano tanto, biascicando, ed ecco emergere il Tarantino più politico, gratuito, soporifero. Si intuiscono le tensioni nel gruppo – si intuiscono, appunto, perché nei loro mari di chiacchiere annaspavo -, ma sembrano superflue le presentazioni di sorta. Ci si augura muoiano tutti e presto, spinti oltre il limite, su uno sfondo che ha l'aria delle scenografie teatrali. Sulle assi del palcoscenico, figure esagerate nei movimenti, nelle espressioni, nella mimica. Fastidiose, se non fosse per l'ottima Jennifer Jason Leigh – il viso tumefatto, i versi sguaiati, il rosso tra i capelli come in Carrie – che, vessata e percossa, ispira pietà e simpatia. Sorprende lei, non un baffuto Kurt Russel, non un Tim Roth che raccoglie la staffetta dell'istrione (e gigione) Waltz e, ultimo ma non ultimo, non uno spietato Samuel L. Jackson che ha però un pregio oggettivo. E' protagonista, insieme a Bruce Dern, della scena che cattura la tua attenzione – dopo una non trascurabile ora e mezza di pensieri vaganti e bla bla bla. Allora, il la per una mattanza con tutti i sacri crismi: i personaggi iniziano a morire, un po' per colpa dell'intolleranza razziale e un po' per colpa del veleno, e The Hateful Eight diventa un pastiche letterario e cinematografico, con le vittime di Dieci piccoli indiani, il gelo di La cosa, gli sceriffi brutti e cattivi – i belli e i buoni, infatti, latitano – di Sergio Leone. Ma le budella, le parolacce e le ciarle, tranquilli, le mette il caro Quentin. Che io guardo puntualmente, attentamente, ma senza gli occhi dell'amore: ho visto e rivisto Kill Bill, ho sofferto in ritardo per la mancata vittoria di un Pulp Fiction, ma quando fa passi falsi – vedi A prova di morte o informati sulla sua insana passione per Lino Banfi -, senza le lenti rosa, posso ammetterlo fuori dai denti. Ed è così che vi dico che The Hateful Eight, altrove acclamato, mi è piaciuto a tratti e poco: se migliora con la comparsa di Channing Tatum, in flashback, c'è di che meditare. Morricone mette in musica ma senza ispirazione,Tarantino cita tanto e quando ci mette del suo non convince. All'inizio, quanto l'ho patito? Alla fine, cosa mi ha lasciato? Per gli otto del deludente Quentin, in definitiva più pretenziosi che odiosi, che un'odiosa sufficienza allora sia. (6)

Migliore attore protagonista - Bryan Cranston 
Notte degli Oscar che vai, biopic che trovi. Mai come quest'anno si dovrebbe adottare il detto, davanti a storie vere che pensavi di non volere conoscere e altre di cui sarebbe stato meglio non sapere nulla. Tra il brillante genitore della Apple e l'ennesima Jennifer Lawrence, Cenerentola armata di mocio rotante e buone intenzioni, si inserisce questo Dalton Trumbo. Ai più giovani, o almeno al sottoscritto, il nome, lì per lì, suggerirà poco. E se vi nominassi, a caso, Spartacus e Vacanze romane? E se vi dicessi che i due film, nei cui titoli di testa figurano i nomi di due autori diversi, furono in realtà scritti dalla stessa persona? Si accende immediatamente la curiosità, le antenne si rizzano e non si vede l'ora di scoprire il perché, se i retroscena del mestiere dello scrittore ti affascinano e il cinema degli anni '50 – gran parata di divi e dive, lustrini, eleganza – continua ad esercitare, a distanza di generazioni, un fascino indiscreto. Più degli ingegneri informatici e delle inventrici da strapazzo, allora, agli amanti della settima arte interesserà conoscere le curiose abitudini, le disavventure e i dolori privati dello sceneggiatore Dalton Trumbo: personaggio dalle vicessitudini infinite e dall'esistenza piena ed appagante, che diventa originalmente l'eroe di una commedia dal gusto retrò, con un regista che ci ha sempre abituati alla leggerezza – è infatti lo stesso di Ti presento i tuoi e seguiti – e un protagonista a cui auguriamo tutti i trionfi di questo mondo. Trumbo riassume in due ore la carriera altalenanente di un pilastro della Hollywood dell'età dell'oro: un prolifico scrittore, che aveva un talento spropositato e, purtroppo per lui, una mente pensante. Il linciaggio mediatico, il carcere e la condanna all'anonimato: le simpatie che nutriva verso il comunismo, infatti, avevano portato il Sindacato a scrivere il suo nome nella lista nera. Negli anni del rilascio, al posto della vergogna, il desiderio di risalire la china: lavori sottopagati, script firmati con ingloriosi nom de plume, una testardaggine che sconfinava spesso nella hybris. Ghostwriter ante litteram e prestanome, lavorava ai suoi copioni notte e dì – persino nella vasca da bagno –, litigava con John Wayne e invitava a cena un giovane Kirk Douglas. Emergere dal fondo dell'abisso sociale, perciò, con l'aiuto di una famiglia trascurata troppo e il sostegno di rari fiduciosi. Ci si aspetterebbe, in teoria, politica e tanto rigore. Ci si trova davanti, in pratica, a un lavoro che parla d'altri tempi e sembra esserlo, d'altri tempi: sarà per una profondità storica che non ci viene fatta pesare o per un accurato montaggio, che mescola filmati di repertorio e nuovi ciak; sarà per per i toni briosi, le figure accattivanti e le occhiate interessate oltre il sipario. Tantissimo, però, fa Bryan Cranston, in una prova molto attesa e che non delude. Un parrocchetto sulla spalla, vestaglia e pantofole, l'idea rivoluzionaria di un mondo uguale per tutti: è così, con il trucco, l'ipercaratterizzazione e il fare da mattatore, ci si scorda di averlo venerato, per cinque stagioni, nei panni del leggendario Heisenberg – anche se, su tutti, le deliziose Diane Lane e Elle Fanning, come accadeva d'altronde nella premiata ditta White, fanno i conti con il solito professionista stacanovista. Ed è così, in un film che dalla sua ha anche il ritmo e i temi, fatidica prova del nove, che gli si può garantire nuova vita al cinema, dopo l'apoteosi e Breaking Bad. (7)

Migliore attrice protagonista - Charlotte Rampling
Quando si è giovani, si guardano le coppie storiche – i nonni seduti a capotavola a Natale, per dirvi – e spontaneamente ci si domanda cosa resti dell'amore dopo una vita insieme. Non ci si annoia mai? La pillola blu aiuta a letto? Cos'è della passione iniziale, se il corpo cede, il pensionamento ti tiene a casa e dell'altro, che russa e borbotta, quello che ti faceva sorridere, adesso, è tutto un difetto? Fino a poco fa, pensavo semplicemente che ci si arrendesse: i tappi per le orecchie, la sacrosacra pazienza delle donne e, a far da collante, le bollette da pagare, i figli, i pensieri quotidiani. Il pastore tedesco al guinzagno, le passeggiate, la spesa, festeggiare i piccoli traguardi importanti. A tutto c'è una soluzione, con la fede al dito e le rughe d'espressione, e per il resto c'è il tempo, che guarisce le ferite e i musi lunghi. Si resta insieme, a settant'anni, più per l'incertezza – dove andare, con chi vivere, che combinare – che per l'amore? Kate e Geof Mercer, sposi di lunga data, vivono in un accogliente cottage nella campagna inglese: hanno un cane, ancora voglia di cercarsi e, nelle loro stanze linde, non ci sono foto ricordo. Dalla loro storia, non sono nati bambini, ma questo sabato festeggeranno quarantacinque anni insieme. Scrivono già i discorsi, pensano ai regali. Finché l'arrivo di una lettera non mette tutto in forse: Geof vi distingue perfettamente un nome, Katya, e il ricordo di un'avventura in montagna, cinquant'anni prima. Sulle alpi svizzere, la sua prima innamorata era scivolata in un crepaccio e, da allora, si erano perse le sue tracce. Il ghiaccio che si scioglie, dopo decenni e decenni, restituisce integro il suo cadavere. Che male può fare una rivale già morta? 45 Anni - dramma matrimoniale, riflessione esistenziale - è il mio pensiero che viene smentito, la nascita di una graduale gelosia verso un fantasma di donna che smuove dilemmi su dilemmi, l'ultimo film indipendente dell'autore di Weekend. La lenta esplorazione di un'altra intimità – questa volta, all'intero di una solida coppia eterosessuale – e l'analisi grammaticale di un altro amore, ma vissuto da due sul viale del tramonto. Ci saranno i rimpianti, le confessioni, un'amarezza sconsigliabile a chi festeggerà in allegria il vicino San Valentino. I protagonisti saranno meno nervosi, urlanti e rancorosi che in un Revolutionary Road – l'età avanzata e l'essere british fino al midollo li rende quieti e molto più morigerati -, ma Charlotte Rampling e Tom Courtnenay, in pausa di riflessione, non ci risparmieranno gli struggimenti e le riflessioni di una crisi sentimentale arrivata con un elegante ritardo di trentotto anni. Anche allora, pare, le coppie possono scoppiare. Lui, trasognato ed emotivo, abbandona il letto nel cuore della notte, si rifugia in soffitta e pensa a cosa sarebbe stato “se”, meditando sullo scioglimento dei ghiacciai e l'infallibile persistenza dei ricordi. Lei, settantenne bellissima, si divincolerà in fretta dal primo lento in pista. E la colonna sonora di un matrimonio felice, Smoke Gets in Your Eyes, non suonerà, così, più allo stesso modo. (7)

lunedì 8 febbraio 2016

Recensione a basso costo: Tutta la verità su Alice, di Jennifer Mathieu

C'è una cosa che ho imparato sulle persone: non diventano così meschine e cattive da un giorno all'altro. Non è nella natura umana. Però se dai loro abbastanza tempo, alla fine faranno le cose più dolorose del mondo.

Titolo: Tutta la verità su Alice
Autrice: Jennifer Mathieu
Editore: Newton Compton
Prezzo: € 10,00
Numero di pagine: 217
Sinossi: Tutti sanno che Alice è andata a letto con due ragazzi nella stessa sera, a una festa. E quando Brandon Fitzsimmons - il quarterback della scuola, bello e famoso - muore in un incidente d'auto, viene fuori che mentre guidava stava chattando al cellulare con Alice: lei gli stava mandando messaggi ad alto tasso erotico. A scuola già si diceva che Alice fosse una ragazza facile, una poco di buono, ma dopo la morte di Brandon, la macchina del fango impazzisce. C'è chi sostiene che abbia abortito, chi dice che sia disposta a tutto per un aiuto in matematica, il bagno delle ragazze è costellato di insulti anonimi a lettere cubitali e indelebili. Ma la vita di Alice è davvero quella che tutti pensano di conoscere? Oppure molti proiettano su di lei i loro pin torbidi segreti? Jennifer Mathieu riesce a raccontare con dissacrante realismo la vita di una ragazza qualunque, senza aggrapparsi a stereotipi o vecchi clichè.
                                                La recensione
"Sono un luogo comune, non è vero? Madre single. Padre assente. Troppi fidanzati, alla ricerca di amore in tutti i posti sbagliati e bla bla bla".
"Alice, non potresti mai essere un luogo comune. Neanche in un trilione di anni".
Fanno più danno gli ubriachi al volante o l'emarginazione? Quanto tempo ci vuole affinchè il pettegolezzo ti dipinga per quello che non sei? Le voci viaggiano in fretta, la gente parla forte. E, come con il gioco del telefono senza fili, le informazioni saltano di bocca in bocca e arrivano deformate, fraintese, confuse. E mille ricami, o forse son graffi, vengono disegnati su una storia vera, un po' per noia e un po' per il piacere di qualche brivido in più. La verità è noiosa e sopravvalutata. Il pettegolezzo è un pericolo mortale, ma ciò che è pericoloso, intorno ai diciassette anni, dà un'ebbrezza impensata. Così, sul petto di Alice Franklin viene cucita una lettera scarlatta che non va via. Non la nascondono le felpe col cappuccio e i maglioni larghi, comunque non abbastanza voluminosi per lasciarci scordare le curve del suo corpo perfetto. Non la ignorano i suoi coetanei, studenti variegati di un anonimo liceo texano, che eppure dormicchiavano quando il prof spiegava Hawthorne, e La lettera scarlatta non l'hanno mai letto sul serio, semmai guardato in tivù – probabilmente, sono passati subito all'ironico e pimpante Easy Girl, nemmeno la decenza di recuperare la trasposizione cinematografica seria, in abiti ottocenteschi. Il dito puntato sull'elfo longilineo, con i capelli cortissimi e i piercing alle orecchie. Le occhiate che scottano. La scusa perfetta per odiare e isolare l'adolescente che, corteggiata e intraprendente, faceva gola ai ragazzi e invidia alle ragazze. 
Le più spietate, se messe in un angolo. Il bullismo al maschile ti lascia un occhio violaceo, dolorante soprattutto all'esterno; quello al femminile, spiega la Mathieu, non lascia lividi visibili, ma è una macchina che logora e non cede. Una violenza verbale fatta di piccole prepotenze, commenti mirati e frasi minatorie scritte con il pennarello indelebile: sui muri del bagno pullulano gli insulti e gli epiteti volgari, fioriscono macchie d'inchiostro, e a mensa nessuno ha lasciato un posto a sedere alla vittima designata. In Tutta la verità su Alice, che mi attirava per la copertina accattivante e l'originalità della struttura, il capro espiatorio è colei che tutti vogliono e che nessuno può avere, la poco di buono di cui tutti sparlano e che nessuno conosce. Qual è, questa famosa verità? Cosa ha fatto Alice, per meritarsi un posto d'eccezione sulla gogna e nei discorsi infamanti dei suoi compaesani? La raccontano a capitoli alterni quattro personaggi, che, pare, siano informati sui fatti: quando Brandon Firzimmons morì sapevano dove fosse e dove non fosse, infatti, la chiacchierata Alice. Provocante e disinibita, sarebbe andata a letto con due ragazzi alla stessa festa. Fatale, avrebbe distratto il compianto quarterback alla guida, con i suoi messaggi bollenti, e gli avrebbe regalato una morte precoce, con la promessa di un'altra notte di sesso. Elaine, l'ape regina della Healy High, dice che la festa incriminata l'aveva organizzata lei e che Alice, sua rivale già ai tempi del ballo delle medie, ha indotto Brandon in tentazione. Kelsie, nuova in città, cattolica osservante e fanciulla illibata, è stata a lungo la migliore amica dell'assassina: adesso, turbata da una svolta che non vi svelerò, dice che l'ha vista entrate in un clinica per aborti, e che lo sfortunato bambino non si sa precisamente di chi fosse. 
Josh, amico per la pelle del quarterback e eterno secondo, è sopravvissuto al compagno di squadra: non è un testimone poi tanto affidabile, con i traumi ancora freschi e un'identità sessuale confusa. Kurt, secchione sul fondo della piramide sociale, sa discernere una frottola dall'altra e sa osservare: il candore segreto di quella Alice di cui è innamorato perso, le abitudini del suo popolare e defunto vicino di casa, le tracce che porteranno a un necessario chiarimento. Tutti mentono su qualcosa: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Infine, nel capitolo conclusivo, per congerdarsi senza avere rimpianti, Alice in persona. La sfasciafamiglie, la sgualdrina, la sciagurata – la martire prescelta -, con la sua personale verità e un epilogo che ci dà il punto di vista della diretta interessata, ma miti soddisfazioni. L'esordio di Jennifer Mathieu, vincitrice del Teen Choce Debut Author Award, ha uno schema intrigante e nessun pelo sulla lingua. Asciutto e veloce, con gli scarabocchi e le brutte parole, è esempio di una narrazione ben messa a punto e dallo spirito insolito, ma lo si immaginava più aggressivo, nero e ambiguo. Un thriller per giovani adulti. Invece, più che asciutto è freddo, più che veloce è frettoloso: un romanzo young adult con pochi enigmi – sull'innocenza della protagonista presa di mira si è sicuri sin dall'inizio – e un personaggio femminile, soprattutto quando la descrive il nerd innamorato di turno, che ricorda le donne irraggiungibili e scapestrate di John Green. Ma manca qualcosa. Quel quid che, purtroppo, lo rende senza infamia e senza lode; non all'altezza di un'idea tanto vincente. Colpa di uno stile tutt'altro che ineccepibile - e chissà, magari anche della traduzione italiana - che dà ai giovani protagonisti una coloritura linguistica abbastanza generica: il diciassettenne medio, il diciassettenne bullo, non è tale solo perché fa abuso, nel linguaggio informale, di “cioè” e “tipo”. Tutta la verità su Alice è l'utile e realistico manuale del cattivo teenager di ogni dove. Da leggere per essere un teenager, o un adulto, migliore. Con - dalla sua - una copertina troppo bella, una struttura troppo articolata per un'autrice ai primi passi e l'impressione di uno spunto affascinante, ma sviluppato a metà.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Evanescence – Everybody's Fool

giovedì 4 febbraio 2016

Recensione: Cercami nel vento, di Silvia Montemurro

Ciao, meraviglia. Portami nel cuore e cercami nel vento: è lì, che ti ho dato appuntamento.

Titolo: Cercami nel vento
Autrice: Silvia Montemurro
Editore: Sperling Kupfer
Numero di pagine: 360
Prezzo: € 18,90
Sinossi: Camilla vive di note sparse nel vento. Studia al conservatorio e la musica è il suo mondo. Abita in un paesino vicino a Milano, lo stesso dove è nata e che, a differenza delle sue amiche, non è ancora riuscita a lasciare. Chissà, forse un giorno lo farà, per tentare di colmare quell'inquietudine che ogni tanto la prende. Teo, invece, in paese è appena arrivato e ha ancora negli occhi il mare della sua Sardegna. Lo stesso che da piccolo fissava ogni giorno dalla finestra, a casa di sua nonna. Lì, con il naso incollato al vetro, faceva scoperte straordinarie, più istruttive di un libro di scuola. Forse è per quello che, una volta cresciuto, ha preferito rimboccarsi le maniche e mettersi subito a lavorare anziché studiare. Ed è proprio davanti a quella finestra che Teo ha iniziato a osservare le persone e a catalogarle, decidendo che, se mai avesse dovuto infilarsi in una delle sue assurde categorie, c'era solo una cosa che voleva essere: un solitario. Camilla e Teo si incontrano in un giorno qualunque, in un bar qualunque. Ma, in quel momento, qualcosa accade. Perché è sempre una cosa innocua a cambiarci l'esistenza. Terra e mare, luce e ombra: Camilla e Teo sono due opposti che, dopo essersi brevemente respinti, si attraggono. L'amore tra loro è così intenso e unico da illuderli di essere invincibili. Ma la vita li costringerà presto a una prova terribile. Allora potranno vincere o soccombere, potranno farlo insieme o da soli.
                                                   La recensione
Dimmi cosa leggi e io ti dirò quanto è vicina l'Invernale. In periodo d'esame, i miei interventi diminuiscono e le mie letture, da lontano, si somigliano un po'. Romanzi che nelle tue corde lo diventano per necessità, se puoi dedicarti agli hobby solo prima di andare a letto e se gli occhi, che dalla loro domandano pietà, ricercano storie semplici e toni sommessi. Gli occhi ringrazieranno e nel frattempo ringrazierò anch'io se, di comune accordo, mente e corpo troveranno un compromesso: che sia un passatempo, un libro coccola, ma che almeno sia di uno scrittore italiano. Così il passatempo è meno spensierato, così hai modo di conoscere autori – e stili – che riescono a far brillare, talora, una trama già proposta. Questo è il caso di Cercami nel vento, di Silvia Montemurro: una giovane autrice che viene dal thriller – e con il suo romanzo d'esordio in wishlist da un pezzo, chi si aspettava che l'avrei scoperta e apprezzata proprio con un new adult? - e la cronaca di un amore che sembra convenzionale giusto qui e lì, ma in cui si annidano in segreto un dolore profondo e un infelice scherzo del destino. La sorte, infatti, ha visto Camilla e Teo come posano in copertina, belli e in intimità, e ha scattato loro una foto in treno. In cento pagine, ha voluto metterli duramente alla prova. Come piace a me, che penso che l'amore non sia davvero memorabile se non è struggente. E come accade in montagna, soprattutto: dove il tempo cambia in fretta e il cielo, un ritaglio tra i profili montuosi, spalanca i suoi occhi in acquazzoni che devastano il sereno. La pioggia somiglia tanto alle lacrime. Lui, che spia le persone in spiaggia e tenta di classificarle, cosa vedrebbe dal finestrino, durante questo viaggio dell'anima che li stanca, disturba e scombussola? Teo, fino a poco prima, era il ragazzo nuovo a Santa Croce: aveva un ciuffo ribelle che si soffiava via dagli occhi, le mani callose dei muratori, una casupola nel bosco. Aveva un accento strano: veniva dalla Sardegna, dal mare. Camilla, che a Santa Croce è nata e cresciuta, lo conosce come accade tra ventenni: una città in cui tutti
sanno tutto di tutti, il solito bar, amici di amici. Lei, che sfugge alle rigide categorie di Teo, non si sa bene se sia un'estroversa, un'incallita solitaria o una giovane donna che cerca il ragazzo giusto. 
Spia i panni appesi ad asciugare – che storie raccontano? -, ha una cotta storica per il suo insegnante di violino e, talentuosa studentessa di conservatorio, associa ogni suo interlocutore a uno strumento musicale. Teo è un tipo da cantautorato italiano, lei stravede per l'opera lirica: da una parte De André, con le sue canzoni calde, piene di malinconia, sole e onde; dall'altra, le eroine che vivono di arte e muiono cantando. Il solo punto di incontro tra loro: un sentimento fulminante che ha una dimensione a sé, in capitoli iniziali in cui convivono l'idillio e gli ormoni dei vent'anni. Fuori le famiglie, fuori il passato del misterioso isolano. Al romanzo si può rimproverare qualche capitolo in eccesso, soprattutto in un epilogo che non mi ha soddisfatto del tutto, e un cielo che assai bruscamente si rovescia loro addosso. Un andamento sinusoidale, discontinuo, e scene di sesso che a volte mi sono parse fuori luogo: volgari no, mai se le descrive una prosa che osa e concilia. 
Piuttosto, di troppo. Siano benvenute l'iniziale curiosità verso l'altro, la fedeltà incondizionata, il bene che alla fine vince il male. Ma, loro coetaneo, penso che il desiderio dei primi tempi morirebbe, in casi estremi. Ci sarebbe ancora la passione, la voglia, l'attrazione fisica? O si capirebbe, se stanchi e provati, che ci sono amori e amori? Le montagne sono soffocanti, cancellano l'orizzonte, ma sono un ponte levatoio per il cielo. E di Cercami nel vento, dunque più intenso e meno lieve del previsto, ho apprezzato i risvolti tragici, il linguaggio schietto, lo spiritualismo che una natura dall'aspetto benevolo e sorridente assicura. Le originali abitudini di personaggi naturalmente malinconici, i bollettini "metereopatici" del diario di Camilla e, a metà, la repentina bufera di parole dure e spietate. Perché è giusto essere arrabbiati, odiare l'ennesimo sgarro di una gioventù maligna. Nel romanzo della Montemurro c'è il corpo nudo, tangibile, descritto nella gioia del contatto fisico e nel dolore della pena. Ora morbido e accogliente, ora un insieme di ossa sporgenti e costole; spigoloso. Allora si vede che viene dal mondo del noir. Ma ci sono anche storie dentro storie, il piacere primitivo del racconto – un bosco magico, una leggenda di principesse e stelle alpine, montagne che mettono in guarda gli esploratori – e un prezioso comprimario, Marco, che minaccia di commuoverti: dall'alto della sua saggezza, dagli abissi della sua pace. Allora si vede che Silvia sa scrivere. Si sente che sta già facendo breccia.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Shawn Mendes & Hailee Steinfield – Stitches