Questo libro contiene zero lezioni di vita,
zero piccole verità sull'amore, zero momenti di calde lacrime in cui
abbiamo tipo capito di aver abbandonato l'infanzia per sempre. E, a
differenza di quasi tutti i libri in cui una ragazza si ammala di
leucemia, non ci sono quelle frasi lunghe come un paragrafo e super
mielose, che dovrebbero sembrare profonde solo perché sono in
corsivo. Scordatevele.
Titolo:
Quel fantastico peggior anno della mia vita
Autore:
Jesse Andrews
Editore:
Einaudi – Stile Libero Big
Prezzo:
€ 17,50
Numero
di pagine: 250
Data
di pubblicazione: 1 dicembre 2015
Sinossi: Greg
è il ragazzo più nerd e più asociale della scuola e tutto cambia
quando un giorno sua mamma gli comunica che Rachel, una sua compagna
di classe, si è gravemente ammalata di leucemia e lui dovrebbe fare
qualcosa per starle vicino. Ma come fare? Anche perché proprio
qualche giorno prima che Rachel scoprisse di avere questa terribile
malattia, Greg ci aveva maldestramente provato con lei e si era
sentito dire in faccia un gigantesco no a lettere cubitali. Il
ragazzo non ha voglia di uscire dal suo guscio di solitudine, dover
parlare con gli altri, relazionarsi a loro costerebbe troppa fatica e
troppo sforzo, con il rischio poi di fallire. L’unico forse con cui
potrebbe rapportarsi è Earl, l’altro nerd della scuola,
altrettanto solitario e restio alle relazioni sociali. Insieme
decidono di fare l’unica cosa che li appassiona e di cui forse sono
capaci: un film per Rachel, un appassionato e divertente film a lei
dedicato. Il risultato è probabilmente deludente e atrocemente
brutto, ma la devozione e i ringraziamenti della ragazza nei loro
confronti li spingono a dare il meglio di se.
La recensione
Doveva
chiamarsi Io, Earl e la tipa, poi Il mio peggiore amico.
Doveva uscire prima in estate, poi in autunno. Il romanzo d'esordio
di Jesse Andrews, dico, che ancora prima delle librerie aveva
conquistato il mio amatissimo Sundance. Il premiato lungometraggio di
Alfonso Gomez-Rejon, talmente sui
generis, in teoria, da non trovare – per lunga tradizione – posto
in sala. Invece, colpo di scena, arriva a giorni anche da noi,
rovinato da un titolo libero e indicibilmente logorroico che,
conoscendo il protagonista, a posteriori, non sembra così insensato;
sapete? Davanti alla possibilità di vederlo in lingua, un mese e
passa fa, la nascita di un amletico dilemma. Mi si dava il permesso
di dare la precedenza alla trasposizione cinematografica, per passare
solo poi alla lettura della storia di Greg, regista dei corti più
brutti del mondo; Earl, il suo socio in affari; Rachel, la ragazza
con la leucemia che, un po' per pietà e un po' per amicizia,
entrambi coccolano e tormentano, nel suo ultimo anno al mondo? Sul
Colpa delle stelle d'autore, popolato da figure geniali che
non credono nella forza salvifica dell'amore, ma nel cinema
d'avanguardia e nell'umorismo nonsense, pesavano, da parte mia,
aspettative un po' esagerate e compiti impossibili. Sarebbe riuscito,
come mi si assicurava ovunque, a intenerire e divertire, senza
struggimenti di sorta e rapporti dai giorni contati? Purtroppo no,
non proprio. Non ci si scopre innamoratissimi e non ci si lascia
andare a toccanti conti alla rovescia, tranquilli. A volte si
sorride, altre si è come dietro un vetro anti-proiettile. Una
finestra che dà su un bislacco trio, in una stranza
meravigliosamente kitsch e piena zeppa di poster di Hugh Jackman.
Attraverso, le emozioni erano attutite e i dialoghi buffi, ma quasi
rubati. Mi sono sentito spesso fuori luogo, durante la visione: i
loro discorsi sopra le righe mi lasciavano stranito e, a
coinvolgermi, solo la chiusa. Per forza di cose toccante, ma un po'
banale – diversa, comunque, rispetto a quella del romanzo; più delicata. Me and Earl and The Dying Girl,
in sala, si divide perciò tra ultime gioie e riflessioni
esistenziali, omaggi a un cinema che a volte mi piace e altre odio di
vero cuore: i colori da diabete di Wes Anderson; le missioni segrete
e i dialoghi sopra le righe dell'unico Gondry che non sopporto -
quello di Be Kind Rewind;
le emozioni algide, perché forse eccessivamente messe al vaglio, di
Restless. Trovo noioso
il tergiversare, fastidioso il cercare vie alternative quando non è
il caso. E avevo trovato, in quel caso, personalissima la regia di un
Gomez-Rejon che va matto per il virtuosismo e per la tecnica dello
stop-motion; ottimi due giovani protagonisti – lui è stato un Link
perfetto in quel Beautiful Creatures
troncato sul nascere; lei era già moribonda e adorabile in
Bates Motel – che hanno il
difetto, purtroppo per loro, di avere ruoli che non fanno né ridere,
né piangere. Si doveva chiamare così o colì,
doveva uscire e non uscire.
Alla fine, Quel fantastico peggior anno della mia vita è arrivato sotto Natale – arriverà domani, in realtà: sono io a essere un passo nel futuro – e con in copertina il poster di quel film da me incompreso. Restava l'urgenza di procedere al recupero, al tipico confronto, se la pellicola, nel frattempo, l'avevo già scordata, ma conservavo, sui denti, ancora la sensazione zuccherosa di quei suoi conturbanti – e non i senso erotico - colori pastello? Il romanzo di Jesse Andrews è tra i più assurdi che abbia letto, e il record è un punto a suo favore. Uno di quei libri, come l'altrettanto inclassificabile Il manifesto degli attori anonimi, che reputano loro stessi inutili, mera carta straccia – il narratore, ogni tanto, si domanda infatti se qualcuno sia ancora in ascolto, dall'altra parte e, in caso affermativo, ci fa sapere che non siamo nel pieno delle nostre facoltà mentali -, e che trovano ragione d'essere in quel miscuglio metaletterario di autocritica e falsa modestia. Il tasso di gradimento dipende un po' dalla tua tolleranza verso il cinismo, le parole zozze, i voli pindarici, i capricci di una prosa che – cito testualmente - “è una calamità per la lingua inglese”. Io, nonostante avessi i miei dubbi, ho alquanto gradito. Quel fantastico peggior anno della mia vita è infatti solo un caso, l'ennesimo, in cui il romanzo è superiore al film. Sarà che leggendo capisco e familiarizzo molto più che guardando. Chessò: trovo l'umanità in un serial killer, la dolcezza in due innamorati che nella vita vera odierei di sicuro, interesse nei riguardi di creatori senza cuore di corti sperimentali. I protagonisti, tra le pagine, sono più definiti, più bizzarri, più scorretti.
Greg è sovrappeso, molliccio, inensibile; Earl – non un amico, ma il suo braccio destro – è un nano da giardino del ghetto, che fuma quanto Jigen e stordisce a colpa di calci rotanti; Rachel ha i denti a zappa e i capelli crespi – il caso vuole che la leucemia, più efficace di qualsiasi shampoo, dia loro una radicale sistemata – e, con Greg, giullare di corte, ebbe una mezza liaison alla scuola ebraica. La differenza, tra film e libro, è la stessa che passa tra un pantalone rotto sulle ginocchia, perché consumato, e un jeans acquistato già strappato, ché fa cool; quella tra gli accostamenti di colore di un daltonico e quelli di una fashion blogger dal gusto discutibile. Nel romanzo si è trasandati senza applicarsi; nel film, invece, i vestiti spaiati e le minime pieghe seguono la moda del calzino vintage, del risvoltino. I protagonisti sono impresentabili per finta e curiosi per copione, anche se in gamba. Stuati, però. In Andrews, allo stato brado e nocivi, per gli altri e loro stessi – non sottovalutate il potere dei brutti film su commissione: portano alla morte, non solo a quella sociale -, stilano corpose liste per punti, intavolano dialoghi le cui battute sono indicate come in una sceneggiatura, annotano come me sul blog – con data, dettagli tecnici, stelline di valutazione – progressi o regressi. Ci sono battute fulminanti, consigli cinematografici e neanche l'ombra di una frase che nobiliti l'amicizia dei tre – poco costruttiva, tutt'altro che disinteressata – e dia un senso alla malattia. Greg, impegnato o a prenderle e a farci sghignazzare, non ha pensieri profondi per Rachel – anzi, è indelicato e dissacrante per tutto il tempo – e ci ricorda che nella malattia, nella vita e nella morte, non c'è senso. Perché dovrebbe averlo, allora, il libro su cosa non ha imparato durante il senior year, che si augura nessuno leggerà per intero - sgraziato, diseducativo, pasticcione e, suo malgrado, divertentissimo? Quel fantastico peggior anno della mia vita ha tre protagonisti in posa, in mano un ghiacciolo, e uno sfondo blu in cui, una volta che ci fai l'occhio, scorgi casette stilizzate, qualche faccia, il sogno di diventare uno scoiattolo. Una volta che ti fai l'occhio, capirai che oltre la cacofonia del dolore, le orecchie che fischiano – che non sia un sick lit diamolo per assodato sin dal principio, okay – c'è qualcos'altro.
“Quando trasformi un buon libro in un film, accadono solo cose stupide. E Dio solo sa cosa accadrebbe se provassi a trasformare questa vomitosa tirata in una pellicola. C'è qualche possibilità che venga considerato un atto terroristico”, ironizza il protagonista. Non è andata tanto catastroficamente, caro Greg. Anzi, ti sei beccato due premi. Per me, che sono della dua idea, è un prodotto carino, ma profondamente hipster. Troppo, perfino per me. Che eppure ho la barba lunga, la mia nutrita collezione di camicie a quadri, il pallino per un certo tipo di cinema che nessuno si disturba, di solito, a doppiare. Il romanzo, invece, è carinissimo. Con il superlativo, senza rancori.
Alla fine, Quel fantastico peggior anno della mia vita è arrivato sotto Natale – arriverà domani, in realtà: sono io a essere un passo nel futuro – e con in copertina il poster di quel film da me incompreso. Restava l'urgenza di procedere al recupero, al tipico confronto, se la pellicola, nel frattempo, l'avevo già scordata, ma conservavo, sui denti, ancora la sensazione zuccherosa di quei suoi conturbanti – e non i senso erotico - colori pastello? Il romanzo di Jesse Andrews è tra i più assurdi che abbia letto, e il record è un punto a suo favore. Uno di quei libri, come l'altrettanto inclassificabile Il manifesto degli attori anonimi, che reputano loro stessi inutili, mera carta straccia – il narratore, ogni tanto, si domanda infatti se qualcuno sia ancora in ascolto, dall'altra parte e, in caso affermativo, ci fa sapere che non siamo nel pieno delle nostre facoltà mentali -, e che trovano ragione d'essere in quel miscuglio metaletterario di autocritica e falsa modestia. Il tasso di gradimento dipende un po' dalla tua tolleranza verso il cinismo, le parole zozze, i voli pindarici, i capricci di una prosa che – cito testualmente - “è una calamità per la lingua inglese”. Io, nonostante avessi i miei dubbi, ho alquanto gradito. Quel fantastico peggior anno della mia vita è infatti solo un caso, l'ennesimo, in cui il romanzo è superiore al film. Sarà che leggendo capisco e familiarizzo molto più che guardando. Chessò: trovo l'umanità in un serial killer, la dolcezza in due innamorati che nella vita vera odierei di sicuro, interesse nei riguardi di creatori senza cuore di corti sperimentali. I protagonisti, tra le pagine, sono più definiti, più bizzarri, più scorretti.
Greg è sovrappeso, molliccio, inensibile; Earl – non un amico, ma il suo braccio destro – è un nano da giardino del ghetto, che fuma quanto Jigen e stordisce a colpa di calci rotanti; Rachel ha i denti a zappa e i capelli crespi – il caso vuole che la leucemia, più efficace di qualsiasi shampoo, dia loro una radicale sistemata – e, con Greg, giullare di corte, ebbe una mezza liaison alla scuola ebraica. La differenza, tra film e libro, è la stessa che passa tra un pantalone rotto sulle ginocchia, perché consumato, e un jeans acquistato già strappato, ché fa cool; quella tra gli accostamenti di colore di un daltonico e quelli di una fashion blogger dal gusto discutibile. Nel romanzo si è trasandati senza applicarsi; nel film, invece, i vestiti spaiati e le minime pieghe seguono la moda del calzino vintage, del risvoltino. I protagonisti sono impresentabili per finta e curiosi per copione, anche se in gamba. Stuati, però. In Andrews, allo stato brado e nocivi, per gli altri e loro stessi – non sottovalutate il potere dei brutti film su commissione: portano alla morte, non solo a quella sociale -, stilano corpose liste per punti, intavolano dialoghi le cui battute sono indicate come in una sceneggiatura, annotano come me sul blog – con data, dettagli tecnici, stelline di valutazione – progressi o regressi. Ci sono battute fulminanti, consigli cinematografici e neanche l'ombra di una frase che nobiliti l'amicizia dei tre – poco costruttiva, tutt'altro che disinteressata – e dia un senso alla malattia. Greg, impegnato o a prenderle e a farci sghignazzare, non ha pensieri profondi per Rachel – anzi, è indelicato e dissacrante per tutto il tempo – e ci ricorda che nella malattia, nella vita e nella morte, non c'è senso. Perché dovrebbe averlo, allora, il libro su cosa non ha imparato durante il senior year, che si augura nessuno leggerà per intero - sgraziato, diseducativo, pasticcione e, suo malgrado, divertentissimo? Quel fantastico peggior anno della mia vita ha tre protagonisti in posa, in mano un ghiacciolo, e uno sfondo blu in cui, una volta che ci fai l'occhio, scorgi casette stilizzate, qualche faccia, il sogno di diventare uno scoiattolo. Una volta che ti fai l'occhio, capirai che oltre la cacofonia del dolore, le orecchie che fischiano – che non sia un sick lit diamolo per assodato sin dal principio, okay – c'è qualcos'altro.
“Quando trasformi un buon libro in un film, accadono solo cose stupide. E Dio solo sa cosa accadrebbe se provassi a trasformare questa vomitosa tirata in una pellicola. C'è qualche possibilità che venga considerato un atto terroristico”, ironizza il protagonista. Non è andata tanto catastroficamente, caro Greg. Anzi, ti sei beccato due premi. Per me, che sono della dua idea, è un prodotto carino, ma profondamente hipster. Troppo, perfino per me. Che eppure ho la barba lunga, la mia nutrita collezione di camicie a quadri, il pallino per un certo tipo di cinema che nessuno si disturba, di solito, a doppiare. Il romanzo, invece, è carinissimo. Con il superlativo, senza rancori.
Il
mio voto: ★★★★ Il
film: 6,5
Il
mio consiglio musicale: The Smiths - Asleep