venerdì 16 giugno 2023

Ritorni d'autore: The Whale | Beau ha paura | Decision to Leave | Empire of Light | Close

Quello di Aronofsky è un cinema di corpi. Il wrestler Rourke spingeva il suo alle corde del ring; la ballerina Portman lo levigava alla ricerca ossessiva della perfezione. Fraser, vedovo gravemente obeso, ha trasformato la propria carne in prigione. Impegnato in una trasformazione indimenticabile, l'attore canadese recita con gli occhi e con quel corpo pantagruelico, sporco per tutto il tempo di muco, lacrime, cibo, sperma. Lo ha martoriato e martirizzato. Ma, al contempo, ha nutrito una commovente fede verso il prossimo. C'è davvero bontà nell'adolescente Sadie Sink? Hong Chau è un'infermiera amorevole o una carceriera? Ty Simpkins è mosso da afflato evangelico, oppure da altro? Hanno tutti luci e ombre. E Aronofsky li inchioda tutti al centro di un terrificante 4:3. Tutti in cerca di Moby Dick, tutti vittima delle loro vite passate, si lasceranno alle spalle la terraferma. E torneranno, finalmente, a vedere il mare. Solido, compatto, precisissimo, The Whale brilla per una scrittura teatrale inappuntabile e, generoso, contiene a fatica la silhouette di Charlie, così come gli strepiti di rabbia e nostalgia di un cast splendidamente assortito. Su tutti, come un Cristo amorevole, incombe l'adorato Fraser: vincitore dell'Oscar, ci regala un disperato canto del cigno. E una lezione su come amare gli altri pur odiando, fino alla morte, sé stessi. (8)

Beau ha paura. Prima della visione, ne avevo anch'io. Accolto tra applausi e pernacchie, il terzo film di Ari Aster (anzi, la terza fatica) è un'odissea psicologica che divide. Cinematografico eppure profondamente letterario, ha le nevrosi di Roth, gli atti mancati di Svevo, le metamorfosi di Kafka: il tutto messo in scena su una struttura fiabesca degna di Collodi. La visione, tappa dopo tappa, mostra il classico viaggio dell'eroe. Nello spasimato epilogo diventerà un uomo vero? Caotico, ma diviso in atti ben distinguibili, il film si apre come una distopia ambientata in un quartiere da poco riqualificato; si sposta poi in un salotto da sitcom americana, con due pimpanti coniugi pronti ad adottare il protagonista; sfocia nel teatro dell'assurdo e, all'ultimo, nell'horror psicologico, con tanto di mostro da sconfiggere. Si ride. Ci si sorprende. Si sbuffa. Sorpresi e sgomenti, proprio come questo Phoenix perennemente imbambolato, si vive la visione come un'avventura nell'avventura. Noi siamo nella testa di Beau. Ma Beau è nella testa di sua madre – una LuPone da Oscar. Si dice che i registi girino sempre il medesimo film. Questo Aster, lontano dai confini sicuri (be', si fa per dire) dell'horror, riprende i temi di Hereditary e li getta in un'autobiografia che, in contrasto con l'insostenibile pesantezza dell'essere, non poteva che farsi commedia nera. Non è troppo presto per autocitarsi? Il regista newyorkese avrà già finito le idee? Mi godo lo spettacolo; mi tengo il dubbio. Beau ha paura è una cosa divertente che non vedrò mai più. (7+)

Lui è un detective tutto d'un pezzo, a cui la ricerca della giustizia ruba finanche il sonno. Lei, cinese in Corea, è la principale sospettata dell'omicidio del marito. Questa è la storia di un'ossessione amorosa. Vietato, però, aspettarsi un torbido thriller erotico. Sontuoso nella messa in scena, a modo suo romanticissimo, l'ultimo Park Chan Wook è una schermaglia sentimentale illuminata da sprazzi impensati d'umorismo e da colori finora inediti al regista della Trilogia della Vendetta. A metà tra Insonnia d'amore e Vertigo, oscilla tra romcom e noir, mare e montagna, tenerezza e manipolazione. A tratti classico come un melodramma d'altri tempi, a tratti modernissimo per via del continuo ricorso alla tecnologia per superare la barriera linguistica tra i protagonisti, ammalia attraverso la cronaca di una dolce ossessione. La regia è di uno splendore indescrivibile, così come splendidi sono questi amanti al centro di un continuo flirtare; di un continuo inseguirsi. Ma l'intreccio, fragile e diluito, somiglia a quello di un racconto poliziesco che risulta stare un po' largo in una trasposizione cinematografica di oltre due ore. Restano le suggestioni del grande cinema festivaliero. E gli indizi, sparsi, del più infido tra i casi irrisolti: l'amore. (7)

In un piccolo cinema della costa inglese si intrecciano gli amori, i tradimenti e le tragedie dei dipendenti. Anche Sam Mendes, dopo il collega Spielberg, parla della magia della sala. Ma questa volta i riflettori non sono puntati su Hollywood, bensì sulle sale cinematografiche: qui rifugi per cuori spezzati e anime in pena. Nonostante lo spazio dedicato a figuranti d'eccezione, la protagonista è la fragile e timida bigliettaia che non ha mai il coraggio di irrompere in sala e godersi lo spettacolo. Affetta da una grave depressione, trova conforto nei colori caldi della bellissima fotografia di Roger Deakins e tra le braccia dell'ultimo arrivato: nero, giovane, pieno di vita. Accolto negativamente dalla critica, Empire of Light ha una dimensione corale mai realmente approfondita e troppa carne al fuoco. Ingenuo e sfilacciato, mostra il fianco alle critiche peggiori soprattutto nel finale: anzi, nei finali. Troppi, e didascalici. Ma mentirei se dicessi di non avergli voluto bene, vinto dalla gentilezza dei suoi protagonisti e dall'ennesima grande interpretazione di Olivia Colman. Il regista, lo stesso delle coppie scoppiate e delle battaglie in piano sequenza, torna e spiazza. Per i più, delude. Ma ci regala una coccola inaspettata, di buoni sentimenti e con vista mare. (7)

Leo e Remy sono inseparabili. Vanno a scuola in bicicletta, giovano a inseguirsi, dormono appaiati come due lenti a contatto e, sulla soglia dell'adolescenza, scelgono lo stesso liceo. Con una risatina, una compagna di classe domanda loro: “State insieme?”. Ne nasce un dramma dall'intensità straziante, che ha ridotto le sale a un silenzio tesissimo. Piangevamo tutti. Per la dolcezza disarmante della prima parte e per il dolore della seconda. Tormentati e pensierosi, infatti, i piccoli protagonisti si struggono nell'ombra della malizia sorta all'improvviso tra loro. Crescono, ma con il rischio di perdersi. A dispetto del titolo, questa è una storia di allontanamento. E quei bellissimi campi fioriti percorsi non più di pari passo, ma da soli, commuovo perfino più dell'inevitabile risvolto tragico in agguato. Cosa implica crescere? Cosa significa, ieri come oggi, essere uomini? Il secondo film di Lukas Dohnt, reduce dai fasti di Girl, è una tragedia sulle parole non dette e su quelle di troppo. Una riflessione sulla sessualità e sul dolore negati, in cui, nell'era della mascolinità tossica e nell'età acerba delle prime consapevolezze, è più lecito piangere per un braccio rotto che per un cuore spezzato. (8)

6 commenti:

  1. Del mucchio mi manca solo Close, che vorrei recuperare da un po'. Per gli altri film, condividiamo più o meno lo stesso pensiero, almeno stavolta!

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    1. Lo condivideremo anche su Close. Prepara i fazzoletti.

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  2. The Whale e Close parecchio potenti. In modi diversi, riescono entrambi a tirare qualche pugno allo stomaco. In senso positivo, eh :)

    Anche io ho voluto bene a Empire of Light, pur con i suoi difetti.

    Decision to Leave l'ho colpevolmente abbandonato, dopo essermi addormentato guardando la prima parte...

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    1. Anch'io con Decision to Leave ho rischiato, ma il finale è splendido. Riprova. Anche se con me non è stato amore.

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  3. Piaciuto tanto Close, perché semplice e sincero, mi mancano invece gli altri ;)

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    1. Splendido e struggente. Hai visto l'altro del regista, Girl? Per me ancora più indelebile.

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