Quello
di Aronofsky è un cinema di corpi. Il wrestler Rourke spingeva il
suo alle corde del ring; la ballerina Portman lo levigava alla
ricerca ossessiva della perfezione. Fraser, vedovo gravemente obeso,
ha trasformato la propria carne in prigione. Impegnato in una
trasformazione indimenticabile, l'attore canadese recita con gli
occhi e con quel corpo pantagruelico, sporco per tutto il tempo di
muco, lacrime, cibo, sperma. Lo ha martoriato e martirizzato. Ma, al
contempo, ha nutrito una commovente fede verso il prossimo. C'è
davvero bontà nell'adolescente Sadie Sink? Hong Chau è
un'infermiera amorevole o una carceriera? Ty Simpkins è mosso da
afflato evangelico, oppure da altro? Hanno tutti luci e ombre. E
Aronofsky li inchioda tutti al centro di un terrificante 4:3. Tutti
in cerca di Moby Dick, tutti vittima delle loro vite passate, si
lasceranno alle spalle la terraferma. E torneranno, finalmente, a
vedere il mare. Solido, compatto, precisissimo, The
Whale
brilla per una scrittura teatrale inappuntabile e, generoso, contiene
a fatica la silhouette di Charlie, così come gli strepiti di rabbia
e nostalgia di un cast splendidamente assortito. Su tutti, come un
Cristo amorevole, incombe l'adorato Fraser: vincitore dell'Oscar, ci
regala un disperato canto del cigno. E una lezione su come amare gli
altri pur odiando, fino alla morte, sé stessi. (8)
Beau
ha paura. Prima della visione, ne avevo anch'io. Accolto tra applausi
e pernacchie, il terzo film di Ari Aster (anzi, la terza fatica) è
un'odissea psicologica che divide. Cinematografico eppure
profondamente letterario, ha le nevrosi di Roth, gli atti mancati di
Svevo, le metamorfosi di Kafka: il tutto messo in scena su una
struttura fiabesca degna di Collodi. La visione, tappa dopo tappa,
mostra il classico viaggio dell'eroe. Nello spasimato epilogo
diventerà un uomo vero? Caotico,
ma diviso in atti ben distinguibili, il film si apre come una
distopia ambientata in un quartiere da poco riqualificato; si sposta
poi in un salotto da sitcom americana, con due pimpanti coniugi
pronti ad adottare il protagonista; sfocia nel teatro dell'assurdo e,
all'ultimo, nell'horror psicologico, con tanto di mostro da
sconfiggere. Si ride. Ci si sorprende. Si sbuffa. Sorpresi e
sgomenti, proprio come questo Phoenix perennemente imbambolato, si
vive la visione come un'avventura nell'avventura. Noi siamo nella
testa di Beau. Ma Beau è nella testa di sua madre – una LuPone da
Oscar. Si dice che i registi girino sempre il medesimo film. Questo
Aster, lontano dai confini sicuri (be', si fa per dire) dell'horror,
riprende i temi di Hereditary
e li getta in un'autobiografia che, in contrasto con l'insostenibile
pesantezza dell'essere, non poteva che farsi commedia nera. Non è
troppo presto per autocitarsi? Il regista newyorkese avrà già
finito le idee? Mi godo lo spettacolo; mi tengo il dubbio. Beau
ha paura
è una cosa divertente che non vedrò mai più. (7+)
Lui
è un detective tutto d'un pezzo, a cui la ricerca della giustizia
ruba finanche il sonno. Lei, cinese in Corea, è la principale sospettata dell'omicidio del
marito. Questa è la storia di un'ossessione amorosa. Vietato, però,
aspettarsi un torbido thriller erotico. Sontuoso nella messa in
scena, a modo suo romanticissimo, l'ultimo Park Chan Wook è una
schermaglia sentimentale illuminata da sprazzi impensati d'umorismo e
da colori finora inediti al regista della Trilogia della Vendetta.
A metà tra Insonnia d'amore e Vertigo, oscilla tra
romcom e noir, mare e montagna, tenerezza e manipolazione. A tratti
classico come un melodramma d'altri tempi, a tratti modernissimo per
via del continuo ricorso alla tecnologia per superare la barriera
linguistica tra i protagonisti, ammalia attraverso la cronaca di una
dolce ossessione. La regia è di uno splendore indescrivibile, così
come splendidi sono questi amanti al centro di un continuo flirtare;
di un continuo inseguirsi. Ma l'intreccio, fragile e diluito,
somiglia a quello di un racconto poliziesco che risulta stare un po'
largo in una trasposizione cinematografica di oltre due ore. Restano
le suggestioni del grande cinema festivaliero. E gli indizi, sparsi,
del più infido tra i casi irrisolti: l'amore. (7)
In
un piccolo cinema della costa inglese si intrecciano gli amori, i
tradimenti e le tragedie dei dipendenti. Anche Sam Mendes, dopo il
collega Spielberg, parla della magia della sala. Ma questa volta i
riflettori non sono puntati su Hollywood, bensì sulle sale
cinematografiche: qui rifugi per cuori spezzati e anime in pena.
Nonostante lo spazio dedicato a figuranti d'eccezione, la
protagonista è la fragile e timida bigliettaia che non ha mai il
coraggio di irrompere in sala e godersi lo spettacolo. Affetta da una
grave depressione, trova conforto nei colori caldi della bellissima
fotografia di Roger Deakins e tra le braccia dell'ultimo arrivato:
nero, giovane, pieno di vita. Accolto negativamente dalla critica,
Empire of Light ha una dimensione corale mai realmente
approfondita e troppa carne al fuoco. Ingenuo e sfilacciato, mostra
il fianco alle critiche peggiori soprattutto nel finale: anzi, nei
finali. Troppi, e didascalici. Ma mentirei se dicessi di non avergli
voluto bene, vinto dalla gentilezza dei suoi protagonisti e
dall'ennesima grande interpretazione di Olivia Colman. Il regista, lo
stesso delle coppie scoppiate e delle battaglie in piano sequenza,
torna e spiazza. Per i più, delude. Ma ci regala una coccola
inaspettata, di buoni sentimenti e con vista mare. (7)
Leo
e Remy sono inseparabili. Vanno a scuola in bicicletta, giovano a
inseguirsi, dormono appaiati come due lenti a contatto e, sulla
soglia dell'adolescenza, scelgono lo stesso liceo. Con una risatina,
una compagna di classe domanda loro: “State insieme?”. Ne nasce
un dramma dall'intensità straziante, che ha ridotto le sale a un
silenzio tesissimo. Piangevamo tutti. Per la dolcezza disarmante
della prima parte e per il dolore della seconda. Tormentati e
pensierosi, infatti, i piccoli protagonisti si struggono nell'ombra
della malizia sorta all'improvviso tra loro. Crescono, ma con il
rischio di perdersi. A dispetto del titolo, questa è una storia di
allontanamento. E quei bellissimi campi fioriti percorsi non più di
pari passo, ma da soli, commuovo perfino più dell'inevitabile
risvolto tragico in agguato. Cosa implica crescere? Cosa significa,
ieri come oggi, essere uomini? Il secondo film di Lukas Dohnt, reduce
dai fasti di Girl, è una tragedia sulle parole non dette e su
quelle di troppo. Una riflessione sulla sessualità e sul dolore
negati, in cui, nell'era della mascolinità tossica e nell'età
acerba delle prime consapevolezze, è più lecito piangere per un
braccio rotto che per un cuore spezzato. (8)
Del mucchio mi manca solo Close, che vorrei recuperare da un po'. Per gli altri film, condividiamo più o meno lo stesso pensiero, almeno stavolta!
RispondiEliminaLo condivideremo anche su Close. Prepara i fazzoletti.
EliminaThe Whale e Close parecchio potenti. In modi diversi, riescono entrambi a tirare qualche pugno allo stomaco. In senso positivo, eh :)
RispondiEliminaAnche io ho voluto bene a Empire of Light, pur con i suoi difetti.
Decision to Leave l'ho colpevolmente abbandonato, dopo essermi addormentato guardando la prima parte...
Anch'io con Decision to Leave ho rischiato, ma il finale è splendido. Riprova. Anche se con me non è stato amore.
EliminaPiaciuto tanto Close, perché semplice e sincero, mi mancano invece gli altri ;)
RispondiEliminaSplendido e struggente. Hai visto l'altro del regista, Girl? Per me ancora più indelebile.
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