Nella
prima edizione della storia, Pinocchio moriva impiccato e irredento:
Italo Calvino lo considerava il protagonista dell'unico romanzo
horror italiano. Al centro di innumerevoli trasposizioni (questa è
la terza in tre anni), il piccolo bugiardo di Collodi trova
finalmente la sua dimensione ideale nelle mani di Del Toro. E diventa
inquietante, politico, dolcissimo, proprio come ci si aspetterebbe
dal regista del Labirinto del fauno. Ambientata in un borgo
dell'Italia in guerra e destinata a concludersi tra le acque
insidiose dello Stretto, la trasposizione Netflix è una riscrittura
brillante e personalissima in cui manca Mangiafuoco, la fata turchina
ha una spaventosa gemella che veglia sui vivi e i morti, il Paese dei
balocchi è un casermone dove plasmare la gioventù fascista.
Lucignolo è il figlio del podestà, Geppetto intaglia crocifissi e
piange il figlio perso nei bombardamenti, l'immortale Pinocchio fa
gola tanto agli impresari senza scrupoli quanto al regime. Mussolini
in persona non si divertirebbe forse a vederlo cantare e ballare? Ma
questo burattino senza i fili e con un cuore grandissimo (nell'incavo
del suo petto dorme il Grillo parlante) sfida il Duce e il mare pieno
di bombe, insegnando che i genitori nutrono talora aspettative da
smentire e che le bugie possono salvare la vita. Per il resto:
sappiamo tutti come va a... O forse no? In lacrime, mi sono scoperto
turbato per lo struggimento scorto sui volti in stop motion dei
protagonisti e per la (non) morale di questo capolavoro della
buonanotte. Una fiaba inedita, per bambini ribelli. E antifascisti.
(8,5)
«Non
sono una stella, sono soltanto una bionda». È abituata a sminuirsi,
anche se legge Dostoevskij e Cechov; a nascondersi dietro un cliché,
cosicché il mondo non la bracchi. Norma Jeane lo affronta con gli
occhi di un cerbiatto abbagliato dai fari. E con gli stessi occhi si
guarda da fuori con lucidità spaventosa. Si scolla da sé e allo
specchio, sullo schermo, vede materializzarsi Marilyn: a volte
alleata, altre nemica, è reclamata come un supereroe. Dove comincia una e finisce l'altra? Quale delle due
ammortizza al meglio le violenze fisiche e
psicologiche, gli aborti e i voltafaccia di quattro uomini tutti
uguali ma tutti diversi? Dominik adatta Oates, e trasforma un flusso
di coscienza in un'opera d'arte destinata a farsi amare e odiare su
una piattaforma di consumo. Divisivo, Blonde metterà
d'accordo per l'audacia del comparto tecnico e per la scommessa vinta
da Ana De Armas, splendida e vulnerabile; scontenterà per tutto il
resto. Ma questa via crucis lunga tre ore resta uno degli esempi di
cinema più fulgidi di quest'anno accanto a Spencer: ancora
una volta, un horror psicologico con un'icona tormentata dai ghigni
dei paparazzi. Diana, però, si riappropriava perfino del suo cognome
originario. Marilyn, invece, resta “la bionda”: è una prigionia
senza fine, la sua, raccontata da un falso biopic terribile e
bellissimo al contempo. A disagio, ho chiesto scusa a un fantasma
vergognandomi di me stesso: mia Norma (anzi, al bando i possessivi:
non “mia”, ma finalmente di te stessa), se puoi, per favore,
perdonaci tutti. L'unico difetto di questo film è renderci complici,
di nuovo, dalla sua autodistruzione, grazie a (o a causa di) un
cinema che è voyeurismo e requiem solenne. Sono in difetto, poiché
inerme e maschio. E, per questo e altro, sono colpevole anch'io.
Perdonaci. Perdonami. (8,5)
Evelyn
è la direttrice di una lavanderia a gettoni. Sull'orlo del
divorzio, sommersa dalle richieste dei creditori, amareggiata per i
dissapori con il padre anziano e la figlia omosessuale, rischia di
perdere la testa. E di trascinarci tutti nel suo caos interiore, in
un film pazzo e irresistibile che la vede protagonista di
un'avventura senza precedenti: proteggere gli equilibri del
multiverso, minacciato da una forza maligna di cui lei stessa è artefice. Ci sono innumerevoli Evelyn, con
innumerevoli abilità a carico: ogni Evelyn ha imboccato, però, una
direzione diversa. Quella che abita il nostro universo farà davvero da ago della bilancia in un
conflitto millenario? Siamo nel nuovo film dei Daniels. Reduci dai
fasti del sottovalutato Swiss Army Man,
questa volta puntano agli Oscar con un piccolo film destinato a
grandi incassi. Se lo stanno amando tutti, in lungo e in largo, c'è
un perché. Nella sceneggiatura, geniale, ci sono: arti marziali,
sassi parlanti, procioni da salvare, dita a forma di hot dog, marsupi
che diventano nunchaku e butt plug che diventano trofei. Nel corso
della visione i corpi esplodono in cascate di coriandoli e la
bravissima Michelle Yeoh, qui al centro di un tripudio di colori e
metamorfosi, è una padrona di casa cazzuta e perfetta. Al centro di
un cast un po' cinese e un po' americano, incarna le faticose
contraddizioni di una madre straniera in terra straniera: questo,
infatti, è un film che parla di conflitti fisici e conflitti
generazionali; di migrazioni concrete e metaforiche, al termine delle
quali le identità dei protagonisti si scoprono in
bilico. Chi saremmo senza i nostri errori e i nostri rimpianti, senza
i nostri viaggi? La pazienza, la gentilezza e l'amore, all'ultimo, ci
salveranno. Sempre. Ogni giorno, e in ogni universo parallelo, anche
quando un gigantesco buco nero a forma di bagel minaccerà di
divorarci tutti. Ho riso tra le lacrime per due ore e dieci.
Viva le famiglie infelici a modo loro. Viva i Daniels. (9)
Lui,
ventidue anni, ha appena finito l'università ed è tornato a casa
dai genitori con la coda tra le gambe. Ha mamma e fratello minore per
migliori amici e vive una doppia vita: di giorno commesso in un fast
food, di notte animatore di feste per bambini ebrei. Lei, di una
decina d'anni più grande, è madre di un'adolescente autistica e si
sforza a tutti i costi di impegnarsi come genitrice e compagna. Ma,
tra crisi di pianto e flirt, non riesce a rispettare il buon proposito di
crescere. Chi vorrebbe diventare un'adulta responsabile, infatti, con
accanto qualcuno come Cooper Raiff? Classe 1997, attore,
sceneggiatore e regista, presta il suo sorriso pieno di candore a un
Peter Pan infantile e straordinariamente maturo insieme. Goffo,
dolcissimo e fuori luogo, è il cuore di una commedia romantica in stile Sundance nonché l'insospettabile interesse amoroso di
Dakota Johnson. A fuoco come mai prima, la star di Cinquanta sfumature
di grigio è un incanto con quelle smorfie un po' ironiche, un
po' sensuali: nel cinema indie ha definitivamente trovato la sua
isola felice. Uniti da un'alchimia palpabile e dalle perle di una
sceneggiatura brillante nella sua semplicità, i due regalano
un nuovo e prezioso spaccato di quella “quarter-life crisis” che
tanto mi fa penare. Per fortuna ci sono film così, piccoli ma dal
grande cuore, che ci fanno sentire tutti meno incompresi. Per
fortuna, combattuti a giorni alterni tra gioia infantile e
struggimento post-adolescenziale, possiamo fare come Cooper e Dakota:
ballare, sbagliare, ricominciare. E, ancora e ancora, ballare. (8)
Mentre
una Kristen Stewart da Oscar ha dato corpo alla “principessa triste”, Robert Pattinson ha prestato la sua mascella scolpita al “cavaliere
oscuro”. Stranamente simmetrici, gli ex protagonisti di Twilight
sono
cresciuti. Bellissimi, arrabbiati e nevrotici, si confermano icone
generazionali: negli occhi hanno l'inquietudine dei
trentenni di oggi. In una Gotham derelitta e pericolosa, Batman
semina il terrore: basta la sola apparizione del suo simbolo per far tremare i criminali. Isolato nella sua torre d'avorio,
raramente getta via la maschera e mai, soprattutto, si lascia andare
a gesti di gentilezza: cerca vendetta. È proprio questa stessa sete,
inappagata, a legarlo a Catwoman (Zoe Kravitz: da infarto) e ai
tranelli dell'Enigmista (Paul Dano, uno dei giovani attori più
straordinari su piazza): come lui, i comprimari sono orfani alle
prese con le promesse della generazione precedente. I figli
erediteranno le colpe dei padri. E quante storture abbiamo ereditato
noi? Quanti debiti, quante macerie, quanta immondizia? The
Batman
è un neo-noir denso e fluviale, alla David Fincher. È un una riflessione sul potere,
che in ogni epoca e in ogni dove gronda sangue e bile come in Machiavelli. È la storia di un lutto mai elaborato.
Oltre al mantello, Pattinson si trascina dietro una tristezza atavica
e contemporanea al tempo stesso. Gli invidiamo l'armatura
scintillante: nasconde quel disagio esistenziale in virtù del quale,
per la prima volta, è stato possibile identificarsi con un supereroe
del grande schermo. (7,5)
Non ne ho visto neanche uno, ma è come averli visto tutti, sei spiazzante sempre e da donna non posso non commuovermi su quanto scrivi riguardo a Blonde.....😘
RispondiEliminaCiao Ink, mi ispira molto il film su "Pinocchio", che penso verdrò prima o poi, ma anche quello su Marylin m'intriga...
RispondiEliminaEverything, Everywhere, All at Once è il film dell'anno, per me. Esilarante, commovente, cazzutissimo e dolce allo stesso tempo. Un gioiello che avrebbe meritato molto di più nel nostro miope Paese. E finalmente qualcuno che, guardando Blonde, ha visto il mio stesso film.
RispondiEliminaEcco, la conferma che siamo agli antipodi...
RispondiElimina"Blonde" l'ho trovato terribile (e la scena del feto mi ha dato un fastidio bestia), e dire che il regista ha fatto due film a cui sono molto affezionato.
"The Batman" invece un mattonazzo 😅
Ho visto solo Batman ed è stata una bella sorpresa, anche se sta un po' stufando per i continui adattamenti.
RispondiEliminaCon Pinocchio e Batman dalle mie parti sono volati solo dei gran sbadigli. :)
RispondiEliminaGli altri tre invece molto ma molto belli!