Da quando mi sono trasferito a Torino, mio padre mi telefona ogni sera. Abbiamo vissuto insieme tutta la vita senza mai saperci rivelare molto l'uno dell'altro. Tra noi avvengono conversazioni goffe, brevissime, piene di convenevoli. “Hai cenato?”, “Com'è il tempo?, “I coinquilini, il lavoro, lo smog?”. Un copione reiterato, sera dopo sera, da pronunciare a memoria quando ci si vuole bene, ma si è d'altri tempi e di poche parole. Ho trovato la stessa laconicità e la stessa tenerezza nell'ultimo Marco Missiroli, tornato in libreria a tre anni di distanza dal controverso Fedeltà. Lontano da temi spinosi e ambiguità sentimentali, questa volta non sembra scontentare i lettori. Avere tutto è un romanzo intimo e minimalista sui non detti tra un padre e un figlio all'alba di una tragedia: il vecchio, vedovo da un po', sta morendo di un male inguaribile; il giovane, pubblicitario di città non più così giovane, si prende cura di lui con le parole e, soprattutto, con i fatti. Quindi c'è Nando, che in gioventù faceva faville nelle balere e che ora, alla stregua di un animale sofferente, tende a nascondersi a bordo della sua sgangherata Renault. E poi c'è Sandro, il figliol prodigo, che torna a Rimini con la coda tra le gambe per fuggire al vizio del gioco d'azzardo e correre incontro al destino amaro del genitore.
Gli confidavo tutto senza confidargli niente. Da bambino gli parlavo nella testa e subito speravo di notargli una reazione: il sopracciglio ad arco, il tamburellare delle dita, una moina complice come se mi avesse ascoltato per telepatia. E la felicità nelle ore in cui lo seguivo e lui sceglieva mansioni dove potevo osservarlo: sturare un lavandino, potare il roseto, pulire l'abitacolo della macchina. Gli incantesimi delle sue mani.
Tra i due corrono silenzi, segreti e sigarette; un'intimità dolente, animata dagli sbuffi e dai mugugni di due uomini soli. Già nel romanzo precedente, d'altronde, l'autore romagnolo aveva raggiunto i picchi migliori alle prese con il personaggio di un'anziana: Anna, la madre di Margherita. Proprio come in Fedeltà, tuttavia, finisce per appesantire la narrazione con un vizio superfluo: non più le lotte clandestine tra cani, bensì il poker. Le digressioni sull'argomento frammentano l'intensità di una vicenda già esile di per sé e fanno sentire la mancanza di Nando, l'attore non protagonista che vorremmo fosse sempre in scena. Il tema della malattia, per quanto sentito, è affrontato in maniera consueta. Tutto va come previsto, fra imbarazzi iniziali e dettagli meticolosi dell'agonia conclusiva. Tutto è ben scritto, comprese le dinamiche al tavolo da gioco, ma purtroppo già svelato in quarta di copertina. Si può riprendere il controllo della propria vita mentre un padre sta perdendo il controllo della propria? Si può ricominciare daccapo al principio di una fine annunciata? L'ultimo Missiroli (si) emoziona senza bluffare. Ma, un po' come le telefonate con papà, racconta smanie e nostalgie in un sussurro che nulla aggiunge e nulla toglie al lessico del dolore.
ciao, non sempre mi trovo d'accordo con le tue recensioni , con Missiroli ,si.
RispondiElimina; un lettura appesantita non da un "vizio superfluo" ma da una frammentarieta' del racconto che innervosisce la lettura.
scusa questa mia , ma la recensione di D'orrico sul Corriere di domenica mi aveva destato il sospetto di essere l'unica a non apprezzare.
Ciao, perdonami per il ritardo della risposta. Felice che tu sia d'accordo!
EliminaSono ancora arrabbiata con te per "Una vita come tante.:" (ovviamente scherzo). Questo mi attirava parecchio ma sto sentendo in giro reazioni contrastanti.."Verso il paradiso" si sta rivelando una lettura sorprendentemente faticosa, vedremo alla fine...
RispondiEliminaUna fatica, secondo me, appagante nel finale. ;)
EliminaLe telefonate coi genitori. Ci sarebbe da scriverci un libro solo su quelle. :)
RispondiEliminaQuello con le telefonate sui padri sarebbe molto, troppo breve.
EliminaQuello con le madri... Ah, c'è già: l'Ulisse, di Joyce!