venerdì 18 febbraio 2022

And the Oscar goes to: La fiera delle illusioni | The Lost Daughter | Don't Look Up | CODA

Il cinema di Guillermo Del Toro è il Paese dei balocchi. Irresistibile all'apparenza, ha sempre nascosto un cuore buio. Ma le sue favole, anche quando contaminate dall'horror, non hanno mai rinunciato alla speranza: spesso, a portarla, era la morte stessa. Il suo ritorno al cinema, passato talmente inosservato che la nomination al Miglior Film è parsa un fulmine a ciel sereno, sorprende anche senza colpi di scena. È un Del Toro senza magie. È un Del Toro senza speranza Adattamento dell'omonimo romanzo, racconta l'ascesa e la caduta di un Bradley Cooper più bravo che mai: in fuga dai sensi di colpa, si rifugia prima tra gli artisti di un circo itinerante; successivamente, accompagnato da una dolcissima Rooney Mara, punta a mettere in pratica i trucchi appresi (anzi, rubati) presso riccastri affascinati dal mentalismo. Come non soccombere però alla seduzione di Cate Blanchett, perfida femme fatale esperta di psicologia e spiritismo? Diviso in due metà antitetiche, unite dalla beffarda chiusa circolare, La fiera delle illusioni inizia come un'epopea alla Steinbeck e ammalia, poi, con le atmosfere da noir: lo zampino del regista è lì, in un'estetica ineccepibile, e nella resa agrodolce della vita dei saltimbanchi (la giostra dei cavalli ispira romanticismo, ma la sorte dell'uomo bestia, intanto, fa raggelare). Al di là di uno stile ormai perfettamente riconoscibile, glissando sui cliché di un genere antiquato, il film si rivela una morality play amara, nichilista, dalla puntualità spaventosa. A muovere i passi (falsi) di Cooper è l'amore (per chi?), o la disperazione? Cosa spinge i suoi facoltosi clienti, invece, a lasciarsi illudere? Metafora della settima arte, forse la fabbrica di menzogne per antonomasia, è la perdita dell'innocenza di un autore Premio Oscar. Nel suo petto, batte un cuore nerissimo. E dal Paese dei balocchi, questa volta, si esce trasformati tutti in asini raglianti. (7,5)

Una professoressa di mezza età trascorre le vacanze al mare in solitaria. Qui viene attratta da una giovane mamma, dalla sua bambina e dalla bambola di lei: suggestionata dall'incontro, mette inconsciamente in moto vecchi e dolorosi ricordi. La trama di uno dei primi romanzi di Elena Ferrante, all'apparenza elementare, era in realtà materia incandescente difficile da maneggiare. Ci voleva qualcuno coraggio come l'attrice Maggie Gyllenhaal, qui al suo esordio alla regia, che forse sarebbe stata una scelta ben più giusta della solita Olivia Colman per incarnare le fragilità della protagonista femminile. Per non uscire fuori dai margini, Gyllenhaal rischia pochissimo (cambia l'ambientazione: non più l'Italia, ma la Grecia) e adatta il tutto con fedeltà filologica. Ma mentre il romanzo è sottile, una scheggia perfetta, il film si trasforma per eccesso di zelo nella sua versione più densa, caotica e pesante. Pur conservando i vaghi simbolismi horror, la regista rinuncia all'aura perturbante e saffica della vicenda – leggendo avevo pensato a un incrocio bollente tra Swimming Pool e Chiamami col tuo nome –, concentrandosi sui flashback di gioventù: per quanto la candidata all'Oscar Jessie Buckley si confermi un'interprete straordinaria, avremmo voluto vedere più Datoka Johnson. Motore dell'azione, l'attrice delle Sfumature di grigio ha poche battute e nessuna alchimia con il personaggio di Leda, che su carta immaginavo più intrigante e sensuale di questa Colman un po' goffa sotto l'ombrellone. Si può trarre un film da una storia pressoché infilmabile? Può una sceneggiatura sciogliere i non detti dell'inconscio? Qualcuno come Jane Campion, spietata e morbida perfino nel suo ultimo western, avrebbe osato il miracolo. Maggie Gyllenhaal, per quanto audace nelle scelte – ricordiamo, infatti, una carriera attoriale costellata di piccoli ruoli scandalosi –, fa il passo più lungo della gamba e non si dimostra all'altezza. (6)

Non me ne frega niente, cantava Levante, se il mondo crolla e non mi prende. La stessa indifferenza avvolge i protagonisti dell'ultima commedia di Adam McKay. Minacciata dall'arrivo di un cometa, la Terra ha cinque mesi prima della collisione: gli scienziati DiCaprio (bollato come il più sexy della TV) e Lawrence (vittima di una caccia alle streghe a colpi di meme) ci hanno avvisati. Peccato che, tra uno scandalo della Presidente Streep, le disavventure sentimentali della pop star Ariana Grande e i piani megalomani di un novello Steve Jobs, a nessuno importi dell'umanità. Se nell'era del consumismo tutto può essere monetizzato, chi ci salverà da noi stessi? Lungi dall'essere il miglior film del 2021, Don't Look Up è il più rappresentativo per ridere di gusto dei nostri folli anni e dei nostri folli coinquilini in quest'immensa casa blu chiamata Terra. Di quelli che negano ottusamente l'evidenza, anche davanti alle fosse riempite dal Covid-19; di quelli che minimizzano, procrastinano, inquinano; di quelli, stolti, che quando il saggio DiCaprio indica la luna (anzi, la cometa) guardano tuttalpiù il suo dito teso. Un cast di nomi altisonanti, per fortuna tutti adoperati al meglio, ci bacchetta prontamente in due ore tanto inquietanti quanto deliziose. L'apocalisse è già qui, ma siamo troppo impegnati a guardare altrove. Tranquilli: non è niente di serio, grazie a un quarto di Xanax e a una sceneggiatura originale (si fa per dire: si limita a mettere in fila i nostri cliché, i nostri orrori, il nostro peggio) già in odore di Oscar. (7)

Cosa si prova a essere l'unica persona udente in una famiglia di sordi? Lo ha raccontato Claudia Durastanti in un libro finalista al premio Strega e, ancora prima, un film francese di qualche anno fa: La famiglia Belier. Grande successo di pubblico e critica, si è inevitabilmente prestato a un remake americano. A sorpresa, l'ennesimo rifacimento non richiesto ha stravinto anche all'ultimo Sundance. E allora meglio concedere un'opportunità a CODA (acronimo di Child of Deaf Adults), diventato uno dei protagonisti della stagione dei premi. Ruby, diciassette anni, ha una doppia vita. Ogni mattina sale come mozzo su un peschereccio per poi appisolarsi in classe. Sbeffeggiata dai coetanei, in casa è comunque a disagio a causa di quei familiari rumorosi, libertini, imbarazzanti. Sordi. Destinata a seguire le loro orme nell'attività di famiglia, la giovane si impensierisce quando scopre un talento inespresso: la musica. Ma come potrebbe una carriera da cantante non apparire un affronto verso i genitori? Di buoni sentimenti, perfetto in tempi di inclusività, questo remake prende molti degli sketch comici del film originale, ma con un convincente alternarsi dei punti di vista approfondisce il disagio vissuto dai protagonisti. Nonostante gli occhi (lucidi) siano puntati sul talento di Emilia Jones, attrice emergente di straordinaria empatia, c'è spazio anche per gli altri membri della famiglia. Per le loro paure, per il legittimo egoismo, per il loro drammatico isolamento. Apparentemente esclusi dalla ricerca dell'indipendenza della secondogenita, provano tuttavia il doloroso bisogno di capirla. Questa volta non si chiamano Belier, ma Rossi. Non parlano francese (be', si fa per dire), ma inglese. E lì dove non arrivano le parole intervengono magicamente l'università dei gesti, delle canzoni e un'emozione chiamata cinema. (7,5)

10 commenti:

  1. Coda (ma anche La famiglia Belier, se per questo) ancora mi manca e spero possa farmi battere il cuore come non sta riuscendo nessun candidato quest'anno, nemmeno quel Del Toro che pure ho apprezzato tantissimo per molti motivi e che spero di riguardare presto.
    Con The Lost Daughter sono partita avvantaggiata, non avendo letto il libro mi sono potuta comunque godere l'ipnotica sincronia tra un montaggio e delle protagoniste praticamente perfette, ma ne parlerò sul blog a ridosso dell'uscita italiana (chissà quando, visto che è stata ulteriormente posticipata a un generico "Aprile").

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  2. Coda, coda, coda! Quello che aspetto da tempo, ma uscirà in sala? 😏

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    1. Buon pomeriggio, Lory, e perdona per il ritardo. Sono molto assente e l'assenza continuerà per un bel po': impegni scolastici e concorso ordinario da svolgere a metà marzo.
      In quanto a Coda: uscito direttamente in home video, con Eagle Picture!

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    2. Oh wow bene! Facccci sapere!!!
      Grazie mille per la dritta 👋

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  3. A questo giro la penso praticamente all'opposto su tutto. XD

    The Lost Daughter stupendo. Maggie Gyllenhaal gira già mille volte meglio della soporifera Jane Campion.

    Nightmare Alley nella prima parte è decente, mentre nella seconda si trasforma in un thrillerino di livello infimo. Un film fuori dal tempo, ma soprattutto fuori tempo massimo, con un Bradley Cooper per me davvero inespressivo e inutile.

    Meno male che c'è l'ironia di Don't Look Up. Non avrà una sceneggiatura troppo originale, ma allora cosa dire di quella già stravista di Nightmare Alley? ;)

    CODA bello, peccato per quel senso di déjà vu nei confronti de La famiglia Belier, che per me resta un gradino sopra.

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    1. Nightmare Alley è tratto da un classico noir degli anni Cinquanta, e si vede. Don't Look up, invece, vorrebbe raccontare la contemporaneità, ma sembra un collage di meme senza troppa fantasia. Però diverte. ;)

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  4. Ho visto solo Don't look up, e anche se a mio modesto parere non sarà da Oscar, ma si lascia apprezzare: volutamente eccessivo in tutto, strappa amari sorrisi e in qualche modo stimola riflessioni su questa nostra folle umanità.

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  5. Che meraviglia La fiera delle illusioni ❤

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