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Vincoli. Alle origini di Holt, di Kent Haruf. NN Editore, € 18,
pp. 260 |
Quando
da bambino i miei nonni mi portavano in campagna non
vedevo l'ora di fare dietrofront. Gli insetti pizzicavano
dappertutto, dalla terra riarsa si sollevavano sbuffi di polvere che
peggioravano i miei attacchi d'asma, la conigliera in cui uno dei
cugini mi aveva attirato con l'inganno durante una sfida a
nascondino mi terrorizzava. Ero piccolo e goffo, troppo per
arrampicarmi sugli alberi. Avevo il fiato corto, troppo per correre
dietro un pallone di cuoio – beccare in pieno la porta del granaio
significava goal – o per fare tana libera tutti. Perciò contavo. E
mentre mio fratello Diego si divertiva a insozzarsi come mamma non
gli avrebbe mai permesso, ad accarezzare il manto di mucche e
cavalli, mi convincevo con un braccio sugli occhi – uno, due, tre,
quattro, cinque – che le fattorie erano belle giusto in versione
giocattolo; che la vita all'aria aperta non faceva per me. Ho
cambiato idea crescendo. Anche se continuano a sembrarmi
inimmaginabili il campo che scarseggia o le linee telefoniche a
intermittenza. Anche se quelle estati d'infanzia preferisco non
ripeterle, no, stranito dalla faticosa routine del mondo rurale; da
coetanei che non vedono l'ora di ereditare le proprietà dei
genitori, sposarsi, costruire la loro casa mattone dopo mattone –
senza la comodità degli agenti immobiliari, insomma, o il bisogno di
cambiare prospettiva in un condominio alto sei piani. Questo topo di
città, infatti, ha cominciato a fantasticare sulla pace della natura
grazie a storie come quelle raccontate da Kent Haruf: resoconti di
esistenze frugali, di piccole gioie, che cullavano i sensi le volte
in cui sognavo un bicchiere di vino sul portico, arpeggi di chitarra
in filodiffusione, la disintossicazione dallo stress. Avete presente
quando il cielo vi sembra il coperchio di una scatola di scarpe?
Quella voglia di radunare il necessario e partire senza avvisare per
luoghi in cui non sembra più così drammatico l'essere tagliato fuori
dal mondo?
In
seguito ognuno di noi rientrò nel suo solco. E qualche volta,
ripensando a questa storia, mi pare che non ci sia altro che questo:
una serie di solchi indipendenti. Alcuni sono durati per quattro o
cinque anni, altri per venti, ma erano comunque solchi, come quelli
scavati da una mandria di mucche sfinite che occasionalmente si
fermano ad abbeverarsi e riposare un po', e magari a dare una bella
leccata a un blocco di sale, quegli stessi solchi che poi le
riportano in mezzo alla sabbia della contea di Holt. Diamine, è
sempre così, in qualsiasi pascolo.
Holt
mi accoglie a braccia aperte, ho un posto ormai riservato, ma questa
volta mi dice che il soggiorno non sarà facile. Non è tutto oro
quel che luccica, e la campagna non è solo per candidi vecchini e
villeggianti impreparati; non è solo grilli festosi e silenzio.
Qualcosa di brutto è capitato ai Goodnough: la loro graziosa casa
gialla è in fiamme, qualcuno non ce l'ha fatta durante quell'incendio doloso, e l'unica superstite
è anche l'unica sospettata. I giornalisti indagano sulla
colpevolezza di Edith, ottant'anni, e i poliziotti piantonano il
reparto di terapia intensiva. La sua famiglia è lì da generazioni.
Sono partiti dall'Iowa al Colorado prima i genitori, sposini in cerca
di un lotto appartenuto agli indiani: Ada e Roy – lei malata di
malinconia, lui padre padrone – hanno scoperto a proprie spese che
il sogno americano era una bugia, tutto sabbia e incuria. Si sono
rimboccati le maniche, e i loro figli ne hanno ereditato i frutti. Ma
cosa si dice di chi semina vento? Edith e Lyman hanno raccolto oneri
e tempesta, consacrandosi sin da adolescenti ai rovesci di fortuna
della trebbiatura e agli scontenti. Li descrive con autentica commozione
Sanders Roscoe, figlio di John – in gioventù interesse amoroso
proprio della bella Edith –, che per anni ha vissuto a un
chilometro di distanza.
La
maggior parte di quello che sto per dirti, lo so per certo. Il resto,
lo immagino.
In
provincia arrivano di sfuggita il proibizionismo, le notizie dal
fronte occidentale, e fra unioni di convenienza e solitudini
volontarie la tragedia di Pearl Harbor è l'occasione buona per
voltare pagine. Da scapolo di mezza età che ha ignorato a lungo la
birra, il poker, il gentil sesso, Lyman si trasforma in un damerino
capriccioso e ben vestito, sempre in viaggio sulla sua Pontiac
fiammante. Alla remissiva Edith spettano invece venti dollari con un
fiocco rosso per Natale e qualche cartolina esotica da appendere nel
tinello: aspetterà alla finestra della sua casa-prigione fino a
sfiorire, e anche allora infrangerà giovani cuori. Perfino quello del
narratore, cotto di lei nonostante i trent'anni di differenza, che
dai Goodnough può masticare liberamente gomma americana e farsi
carico dei fardelli della nubile solitaria. Sognare di scappare è
controproducente tanto quanto pisciare controvento. Quella routine
non ha spiragli.
Se
Edith e Lyman fossero stati ragazzi di città, le cose sarebbero
potute andare diversamente. Perfino nel 1915 i ragazzi di città
avevano qualche opportunità di fuga in più rispetto ai ragazzi di
campagna. […] Le cose sarebbero potute andare diversamente anche se
Edith e Lyman fossero stati ragazzi di campagna adesso, nei vivaci,
rumorosi anni Settanta. […] Ma quelle cose, quelle occasioni e
opportunità di fuga, Edith e Lyman non le avevano. Erano ragazzi di
campagna nel secondo decennio di questo secolo violento, ed erano
intrappolati.
Si
muore presto d'infarto, si abbandonano gli studi già alle scuole
medie, si mungono le mucche due volte al giorno con la loro coda
infangata che ci frusta la faccia, si raccolgono brandelli di dita
umane nelle erbacce. È una Holt irriconoscibile, questa, perché
ancora in costruzione: nessuna Main Street lungo la quale passeggiare
a braccetto, nessuna poesia d'amore sul dondolo al tramonto. I
vincoli del titolo: la terra dei padri, i rapporti di sangue. Quanto
costa liberarsi e, soprattutto, cosa comporta? Cani bastonati dalla
catena troppo corta, gli indimenticabili protagonisti si strozzano a
furia di tirare, mordono se serve, infine si inseguono la coda. Ci
sono le camicie da stirare, il pollo ripieno o la crostata di zucca
da preparare, un'altra fiera da visitare sorridendo un po' dei maiali
da esposizione o dei sottaceti da guinness. Il decoro a ogni costo:
anche nella disperazione del fallimento, anche nell'omicidio
premeditato. Questo Kent Haruf tanto diverso ai tempi
dell'esordio – l'inconsueta cornice mystery, gli intrighi delle
saghe familiari che per magia stanno alla perfezione in trecento
pagine scarse – è meraviglioso. Al solito, più del solito. Al
punto che dici grazie, mi fermo qui a leccarmi le ferite. Quasi
quasi resto a Holt.
Il
mio voto: ★★★★★
Il
mio consiglio musicale: Johnny Cash – I See a Darkness
Ad Holt voglio tornarci presto anch'io! Di Haruf per fortuna ho parecchio da recuperare, e da bambina di paese che passava i weekend in campagna e da ragazza che ora in campagna vive, so già che mi sentirò sempre a casa.
RispondiEliminaAmerai di sicuro la delicatezza della famosa trilogia, ma anche questi esordio più nichilista, più alla Stoner, lascerà il segno.
EliminaIo ad Holt non ci sono ancora stata eppure il primo volume è nella mia libreria. Ho paura ad aprire quel libro perchè così, a pelle, temo di lasciarci il cuore. Ma questo non significa che non abbia intenzione di fare un viaggio. Devo solo essere pronta. <3
RispondiEliminaIl cuore sarà al sicuro tra queste pagine. Stai tranquilla.
EliminaQuando leggo una tua recensione di Kent Haruf devo ricordarmi a forza che a Holt ci sono già stata, e non mi ha fatta particolarmente impazzire #__#
RispondiEliminaPeccato, cosa hai letto?
EliminaCredo che questo autore sia nelle mie corde,più leggo pareri entusiasti su di lui, più me ne convinco!
RispondiEliminaMi piace il consiglio musicale *___*
Quante lacrime con Cash. Canzone scoperta guardando Lucky, un bellissimo film indipendente che ti consiglio! 😉
EliminaDevo decisamente riprendere la lettura di Haruf e tornare a Holt. Lo dico ogni volta che leggo le tue recensioni, non mi decido mai a farlo! Baci.
RispondiEliminaTorna, sì! ❤️
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