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L'ultima volta che siamo stati bambini, di Fabio Bartolomei.
Edizioni e/o, € 16, pp. 205 |
Sono
quattro e inseparabili. Hanno dieci anni e non conoscono ancora il
pregiudizio, la paura, la differenza tra i sessi. È per questo che
nelle loro fila contano un'orfana e un ebreo, in un periodo storico –
quello fascista – in cui donne e minoranze non erano ben viste. I
protagonisti se ne infischiano. Per loro è tutto un gioco e il
mondo, in quegli anni in ginocchio per l'ennesimo conflitto armato,
non supera i confini del cortile in cui è bello riunirsi. Fino a
quando una cosa peggiore dei bombardamenti, delle restrizioni delle
famiglie in allerta, non costringe il quartetto – all'improvviso
diventato trio – a crescere in fretta. Riccardo è scomparso. Aveva
una merceria nel ghetto e, generoso e cordiale, si era meritato il
singolare soprannome di Maremmano: come il cane pastore, infatti,
era una guida indispensabile. Quello che si arrampicava sugli alberi
soltanto per bussare alla tua finestra chiusa, che ti passava un po'
di salsiccia secca quando per punizione il nonno ti segregava in
cantina, che ti consolava quando una bambina di città sfoggiava un
vestito migliore del tuo. Cosa farebbe lui, complice e collante per
eccellenza, a ruoli inversi? Dove lo hanno portato i tedeschi, rastrellando il suo quartiere a tappeto? Gli indizi
sono pochi: un treno strapieno diretto chissà in quale direzione;
il disegno di un cupo casermone che riconosceremo subito
come Auschwitz. I protagonisti non immaginano che il campo di lavoro sia
lontanissimo da Roma, né che Riccardo e gli altri deportati non
faranno mai ritorno.
Aveva
detto domani alla solita ora, ma la solita ora è passata da un
pezzo. Non si fa così. A dieci anni le promesse sono cose serie,
roba da croce sul cuore e “se non mantengo la promessa che io possa
morire”.
L'ultima
volta che siamo stati bambini, atteso ritorno in libreria di Fabio Bartolomei, lascia da parte i toni da commedia
all'italiana dell'apprezzatissimo Giulia 1300 e altri miracoli e
a un mese dal Giorno della Memoria sceglie di sussurrare alle nostre
coscienze, alla nostra fantasia, una tragedia di cui si è parlato
ora con la falsa leggerezza di Benigni, ora con la visione struggente
dei pigiami a righe di Boyne, ora con la gravità del cinema di
Spielberg. Questa volta siamo dalle parti del nostro regista
premio Oscar, anche se le avventure degli eroi di Fabio sanno portare
a tratti più lontano ancora: direttamente ai buoni sentimenti e ai
gesti straordinari dei classici per l'infanzia, a Cuore o ai Ragazzi della via Pal.
Ci sono Cosimo (che teme il pugno di ferro del nonno), Italo (con l'ottusa convinzione di non essere all'altezza del fratello reduce) e Vanda (non abbastanza graziosa per sperare ancora nell'adozione), e tra loro e un impossibile lieto fine una ferrovia di cui seguire le curve e i pericoli come nell'intramontabile Stand By Me. Portano con sé una torcia, pochi viveri, mutande e calzini di ricambio, e due segugi che non si aspettano: sempre un passo indietro, preoccupati per i rischi della folle impresa dei ragazzini, ecco una suora e un militare in congedo: lei sarcastica timorata di Dio, lui fascista vanaglorioso, a sorpresa collaborano in nome delle giuste intuizioni e si studiano con terrena curiosità.
Cosimo e gli altri sognano di fare dietrofront sanguinanti ma gloriosi, di prendere schiaffi in faccia e altrettante medaglie al valore. Incontreranno una natura dal volto di matrigna – pioggia, freddo, febbri alte –, soldati allo sbaraglio, rovine e presagi funesti. Fra galline trattate come animali domestici, sfottò in amicizia e immancabili sacrifici di sangue, non c'è davvero nulla che sia al posto sbagliato: che male c'è a scrivere un romanzo per grandi e piccini, infatti, con tutte la carte in regola per far facilmente breccia?
Ci sono Cosimo (che teme il pugno di ferro del nonno), Italo (con l'ottusa convinzione di non essere all'altezza del fratello reduce) e Vanda (non abbastanza graziosa per sperare ancora nell'adozione), e tra loro e un impossibile lieto fine una ferrovia di cui seguire le curve e i pericoli come nell'intramontabile Stand By Me. Portano con sé una torcia, pochi viveri, mutande e calzini di ricambio, e due segugi che non si aspettano: sempre un passo indietro, preoccupati per i rischi della folle impresa dei ragazzini, ecco una suora e un militare in congedo: lei sarcastica timorata di Dio, lui fascista vanaglorioso, a sorpresa collaborano in nome delle giuste intuizioni e si studiano con terrena curiosità.
Cosimo e gli altri sognano di fare dietrofront sanguinanti ma gloriosi, di prendere schiaffi in faccia e altrettante medaglie al valore. Incontreranno una natura dal volto di matrigna – pioggia, freddo, febbri alte –, soldati allo sbaraglio, rovine e presagi funesti. Fra galline trattate come animali domestici, sfottò in amicizia e immancabili sacrifici di sangue, non c'è davvero nulla che sia al posto sbagliato: che male c'è a scrivere un romanzo per grandi e piccini, infatti, con tutte la carte in regola per far facilmente breccia?
Fa
paura lasciare la propria casa, eppure passo dopo passo Cosimo si
distacca da quel turbamento, forte di una consapevolezza nuova. Non
trova le parole giuste come farebbe Riccardo, però sente che è come
se non fossero necessari muri, porte e finestre. Anche tre amici
insieme sono una casa.
Le
mille accortezze del delicato Bartolomei funzionano meno
del previsto. Se il collega Marco Balzano, a cui eppure rimproveravo
la stessa furbizia a fin di bene, vinceva facile con una storia al
femminile che sempre di guerra da nuove prospettive trattava, in
Bartolomei non tutto incanta, non tutto conquista come ci si
aspetterebbe. Mentre l'emozionante flashforward conclusivo ribadisce
come l'essenziale non sia la meta, bensì il viaggio, si fa invece
fatica a perdonare situazioni affrettate e comprimari in definitiva
poco indispensabili (Vittorio e Agnese, a un certo punto proprio abbandonati
a loro stessi); a lasciarsi andare a una sincera commozione, in un
romanzo dove l'olocausto è un affare per piccoli esploratori a cui
tuttavia manca il tocco personale dei grandi autori. Resta la voglia di
smettere di crescere seduta stante e, soprattutto, di cominciare a
correre: non per le bombe, non per la minaccia delle punizioni
corporali, non per gli spari. All'orizzonte si staglia un prato
sterminato come non se ne incontrano in città, una storia sull'infanzia come non se ne incontrano in libreria, e quanta voglia
di mangiarsi chilometri a perdifiato fino a sentire male alla milza.
Di buttarsi a terra, nell'erba alta, alzando lo sguardo verso un
cielo senza aerei. Ma con i contro, sì, di qualche nuvola di troppo.
Il
mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Tricarico – Io sono Francesco
Il mio consiglio musicale: Tricarico – Io sono Francesco
Peccato non ti abbia totalmente convinto...
RispondiEliminaBella recensione come sempre! ;)
Grazie, Dany! Purtroppo no, tema troppo usato, e mi è mancato il pizzico di magia tipico di Fabio.
EliminaIo non ho mai letto niente di suo... dovrei rimediare! ;)
EliminaNe leggerai delle belle.
EliminaSvommetto che ti piacerebbe tanto il suo stile. ☺️
Peccato non l'abbia trovato del tutto convincente, dalla trama sembrava dovesse esserlo molto di più :(
RispondiEliminaAmmetto, però, che le narrazioni ad altezza bambino spesso mi lasciano freddo...
EliminaIn effetti dalla trama prometteva qualche emozione in più. Poetica, come al solito, la tua recensione. Baci.
RispondiEliminaGrazie mille, Tessa. Un bacione a te!
EliminaLa tua recensione è veramente ben riuscita e mi ha messo comunque voglia di leggerlo :-)
RispondiEliminaSono soddisfazioni, Nadia, grazie! Non vorrei mai scoraggiare lettori e lettrici, infatti, con i miei personalissimi ma.
EliminaCuore?
RispondiEliminaRagazzi della via Pal?
La vita è bella?
No, mi sa che questo libro non fa proprio per me.
Mi sa che hai ragione!
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