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Da una storia vera, di Delphine De Vigan. Mondadori, € 19, pp.
302 |
Lei
incontra lei. La prima: madre di due figli grandi, goffa, in crisi. L'altra, agli antipodi: ghostwriter bella e fatale come Eva
Green. La loro misteriosa affinità elettiva – all'inizio soltanto
un'amicizia inattesa, poi qualcos'altro, qualcosa di più – sfocia
in un mare di sopraffazione e violenza. Fin qui, presto detto. Un
thriller anni Novanta, alla Inserzione pericolosa, in cui
l'ossesione per l'amante spinge a saccheggiarne i modi, i vestiti e,
infine, a violarne l'identità. Magari all'omicidio, sventato da
copione un attimo prima dei titoli di coda. Invece, magistrale e
ipnotico com'è, francese fino alle ossa, il primo romanzo che leggo
della bravissima Delphine De Vigan è più dalle parti di Persona
e ai bordi delle piscine
del cinema di Ozon, sebbene citi Stephen King e
I soliti sospetti. Ne ha tratto un film di prossima uscita Roman Polanski. Il presto detto, la prevedibilità, le mettono allora
a tacere un garbuglio metaletterario che vive di citazioni, lusinghe
e fumo.
Perché
lei – quella che scrive e che si racconta, l'autrice, ma anche il
personaggio principale – è la De Vigan in persona. Divorziata,
compagna di un documentarista spesso all'esterno, ora acclamata e ora
minacciata dopo un romanzo in cui ha lavato i panni sporchi (i
disturbi alimentari in gioventù, il suicidio della madre) al di
fuori della ristretta cerchia familiare. Affetta dal famigerato
blocco creativo, in bilico tra il successo precedente e il terrore di fallire,
non toccherà penna per tre anni.
E perché
l'altra, protetta dall'anonimato di un'abbreviazione, è la sua dolce
e crudele metà: forse un alter ego fittizio, forse di vera carne, in
pagine incalzanti in cui autobiografia ed enigma si alleano a tavolino.
La
scrittura è un'arma, Delphine, una dannata arma di distruzione di
massa. La scrittura è molto più potente di quanto tu possa
immaginare. La scrittura è un'arma di difesa, da tiro, una
scacciacani, la scrittura è una granata, un missile, un
lanciafiamme, un'arma da guerra. Può devastare tutto ma può anche
ricostruire tutto.
L'instabile
e vulnerabile Delphine cerca il conforto della narrativa dopo
un'opera che l'ha messa a nudo, in pericolo. L., vendicatrice dei
torti e inquietante demiurgo, la induce a riflettere sulle
leggi imperscrutabili dell'ispirazione e del desiderio carnale; accende le
lampadine della creatività e folgora ogni rivale. Chi manipola chi?
Quali sono i confini di un thriller psicologico ai limiti della
fiction? Quanto c'è di vero nella bugia lunga un libro della De
Vigan? Da una
storia vera si oppone a una
narrazione lineare e coerente. Fa carta straccia del sacro patto fra
chi scrive e chi legge. Romanzo allo specchio ingannevole e
traditore, la cui penna si scarica un po' a metà per poi ritrovare linfa e inchiostro nell'irresistibile vezzo del finale, mi ha divertito da morire laddove potrebbe frustrare
altri. In un rapporto ambiguo e simmetrico, che pretende in
cambio di qualche confidenza troppo intima una libbra di cuore e la
stesura di un secondo memoir capolavoro, emergono infatti in
filigrana i temi realmente predonimanti. L'intreccio non è che una pura cornice ornamentale, perciò, per parlare dell'arte maieutica del processo
creativo e del nostro essere voyeur. Attratti
dalla cronaca nera, dalle promesse di verità. Desiderosi di
sbirciare nei cassetti e nelle menti altrui.
La
verità è l'unica cosa che conta.
L'autrice
– quella che non sa più scrivere, quella fragilissima, quella che
si vede piccola brutta e inadeguata – ci dice che le chiavi di
scorta sono al solito posto, sotto lo zerbino. Prego, servitevi
pure. Mi racconto, m'invento. E così lo facciamo.
Origliamo. Ficcanasiamo. Spiamo, eccitati, le labbra di due donne cha
parlano fitto fitto, a distanza di bacio. Apriamo gli armadi che ospitano
gli scheletri più privati. Potremmo stimarla, compatirla o perfino deriderla, Delphine. Ci appassioniamo, sentendoci presenze
onniscienti e invisibili. Ma è tutto un falso d'autore. Lei resta la
padrona di casa. Tiene il coltello dalla parte del manico nonostante
tutto. E non si svela. E ci guida con discrezione all'interno, in silenzio, passo dopo passo. I fiori di plastica, i mobili
nuovi di zecca, una scenografia di cartapesta. Da qualche parte, in
salotto, c'è una libreria. I libri, l'unica cosa a non apparire intonsa. Una donna elegante, di spalle, legge le coste. Un fantasma di professione. Unisce i
titoli come fossero parte di una frase lunghissima. In un sopraffino
taglia e cuci, ci raccontano una storia: questa. Siamo ospiti in un
set cinematografico che presto sarà sgombrato, giusto il tempo di
un'ultima illusione.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Yael Naim – Toxic
Un thrillerino stile anni '90 che mi sembra molto nelle mie corde.
RispondiEliminaPeccato che il tempo per leggere interi romanzi dalle mie parti sia scarso, e senza nemmeno che ci siano sessioni di esami di mezzo. ;)
Va beh, aspetto il film di Polanski, mi sa proprio...
Essendo un esercizio stilistico in piena regola, letterarissimo, temo che il film possa appiattirlo un po' troppo, non stando al passo. Non è quel che sembra. E' un libro che parla di libri. Come sarà al cinema?
EliminaCi fidiamo di Polanski, che con le trasposizioni ha una lunga storia d'amore, anche se ricordo pareri tiepidini a Cannes...