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venerdì 31 marzo 2017

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: 20th Century Women, La mia vita da Zucchina, A man called Ove

Miglior sceneggiatura originale. Avere quindici anni a Santa Barbara, California, con gli anni '70 agli sgoccioli. La rivoluzione sessuale in atto, fumo di sigaretta ovunque e, a tavola, conversazioni spudorate a proposito di orgasmi impossibili, prime volte e mestruazioni. Il technicolor, la musica punk, gli amabili resti del conflitto generazionale. Jamie vive quell'anno di transizione in una casa trasformata in una allegra comune. Dalla sua finestra entra ed esce la ribelle e bellissima Elle Fanning; in una camera data in affitto balla una scatenata e fragile Greta Gerwig, consigliera dai capelli rosso fuoco; in un'altra, invece, c'è il sempre affascinante Billy Crudup, factotum che dispensa attenzioni e tenerezze. Padrona di casa, una strepitosa Annette Bening a digiuno di nomination: mamma single allevata durante la Grande Depressione, ex aviatrice, si preoccupa dell'educazione sentimentale del figlio e della ritrovata felicità di quegli ospiti (abusivi). In un anno sospeso, in cui ogni cosa sembrava vicina e possibile, far sì che il protagonista si faccia trovare preparato grazie all'influenza costruttiva di quei parenti improvvisati e di quelle ninfette magnetiche. Plasmarlo, facendone un galantuomo che crede nelle pari opportunità, nel punto G e nell'indiscreta poesia dei sentimenti a senso unico. Nel titolo ci sono le donne, ma Mike Mills - già autore di quel gioiellino che fu Beginners - realizza una commedia ad altezza adolescente in cui gli uomini, pochi ma buoni, pendono dalle labbra delle loro coinquiline e prendono appunti. Inutile descrive cosa succeda e cosa non succeda. Superfluo cercare di suggerire quella leggerezza, quel brio, quella semplicità intelligente che solo il cinema indie sa. L'ho adorato così, senza un preciso perché. Resta lo sgomento, quello sì, per la clamorosa esclusione nelle categorie principali. Nel cast, in equilibrio perfetto, non c'è un viso fuori posto. Sprizzano tutti confidenza, armonia, intesa. Sono i compagni che tu, solitario cronico, avresti voluto con te in un'età sottile. Non ti risparmiano l'imbarazzo, vero. Il terzo grado. Ma che bella musica, che bella compagnia, che bel film. Lo sottolineano i narratori onniscienti nel momento di tirare le redini: anticipandoti le morti, le strade che si dividono, la vaga amarezza che proverai. Non senza una certa fretta, ma con la malinconia che rende gli insegnamenti preziosi e il bicchiere sempre mezzo pieno. (7,5)

Miglior Film d'animazione. Icaro, detto Zucchina, ha appena nove anni ma conosce la sofferenza. L'ha sperimentata con sua madre: una donna abbandonata dal marito, che si è trasformata nell'ombra di se stessa. Presto, però, fa i conti con una sofferenza di altro tipo. Orfano all'improvviso, viene accompagnato in casa famiglia. Lì non riesce a dormire. A tormentarlo, i compagni che prendono di mira i nuovi arrivati e il pensiero di averla uccisa lui, una mamma disattenta eppure presente. Finché non arriva la bella Camille, che preferisce la compagnia del gruppo a quella di una zia opportunista. E le cose, con lei attorno e la neve che cade, cambiano. La mia vita da Zucchina racconta con onestà le difficoltà di un'infanzia spesa in orfanotrofio. Tra bambini abusati, figli di tossicodipendenti, orfani bianchi che non si danno pace e, quando una macchina parcheggia nel vialetto, scappano fuori chiamando i loro genitori con la speranza nella voce. Può esserci un attimo di respiro, il pensiero del domani, dove tutto è un grigio e provvisorio piano alternativo? Prima il romanzo per bambini di Gilles Paris, poi le animazioni dell'esordiente Claude Barras, ci dicono che sì, si può. Per lo straordinario spirito di adattamento dei più piccoli, che vanno avanti ma senza dimenticare. Per via di quella sensibilità tipicamente europea, che non tace i traumi e le ingiustizie pur inseguendo un doverosissimo lieto fine. Applaudito a Cannes, arrivato zitto zitto agli Oscar, La mia vita da Zucchina ha uno stop-motion che non mi piace. Lo popolano pupazzi grotteschi, tozzi e dalle braccia lunghe, che però hanno una luce triste negli occhi. Inespressivi, tutti bizzarri e tutti uguali, oggettivamente brutti, in realtà gli abitanti della casa famiglia di Barras hanno quello che non troverai né in un altro pupazzo di plastilina, né in un altro cartone a tema. Un vissuto che non fa sconti a nessuno, nello stile dello splendido dramma indie Short Term 12. Un epilogo non scontato, felice solo a metà, che vìola la regola non detta dei cartoni animati di ogni dove. Se si parla di bambini ai bambini, al bando la tristezza. (8)

Miglior Film Straniero. La visione del Miglior Film Straniero, solitamente sinonimo di pesantezza, preferisco rimandarla all'indomani della premiazione: guardo per dovere solo il film vincente, così, e glisso sugli altri quattro. L'eccezione: l'anno in cui c'erano Il sospetto e Alabama Monroe, ma la spuntò il nostro Sorrentino. Quest'anno, A man called Ove. La commedia svedese, ispirata al bestseller L'uomo che metteva in ordine il mondo, parla di vecchietti burberi e gatti a pelo lungo. Se mi conoscete, sapete che potrei fermarmi qui. A furia di leggere romanzi troppo simili di anziani in viaggio e seconde opportunità, storie agrodolci che rischiavano di risultare tutte uguali, nei mesi scorsi mi sono però detto annoiato. Toccava disintossicarsi. La compagnia di questo Ove, però, è davvero irrinunciabile. Che proprio vecchietto, con i suoi cinquantanove anni portati con eleganza, non è. Che tiene tutto sotto controllo – la vita del quartiere, i vicini, le spese mensili – finché non gli sfugge di mano il senso stesso della vita. Vedovo licenziato all'improvviso, vorrebbe farla finita. A disturbarlo dall'intento suicida, ora una corda difettosa e ora una dirimpettaia che scoppia di gioia. E le giornate si riempiono a dismisura. E la vita, anche in solitudine, tanto male in fondo non è. Qual è il segreto del film di Hannes Holm, che con la sua semplicità sembrerebbe stare agli Oscar come il cavolo a marenda? Una scrittura delicatissima, uno straordinario Rolf Lassgard e un cuore smisurato – come ci insegna il protagonista, qualità che è un pregio e un difetto insieme. A man called Ove vive di risposte sardoniche, piccoli sorrisi e flashback nei quali si ricercano le ragioni dei bronci, delle cucine in miniatura, delle culle impolverate in soffitta. Quanta fatica ci vuole per farsi venire i capelli bianchi e le rughe d'espressione? Mi direte che la storia del vedovo, classica ma generosa com'è, non doveva arrivare dov'è arrivata. Ancora commosso, rispondo che non è così. Il film è bellissimo nel suo non essere esattamente niente di che. Come un Up in cui Carl e Ellie sono diventati veri e lo struggimento di quei dieci minuti iniziali si protrae per due ore. (7,5)

mercoledì 29 marzo 2017

Recensione: La vita felice, di Elena Varvello

Non ne sapevo niente, allora, dei modi in cui l’amore può manifestarsi, né della forza con cui può spingerci in un angolo e toglierci il respiro.

Titolo: La vita felice
Autrice: Elena Varvello
Editore: Einaudi
Prezzo: € 18,50
Numero di pagine: 190
Sinossi: Elia ha sedici anni ed è un ragazzo solitario. Suo padre è stato licenziato e ha cominciato a comportarsi in modo strano, sparendo per ore a bordo di un furgone, chiudendosi in garage, scrivendo lettere che denunciano un complotto di cui si sente vittima. Elia prova a decifrare ciò che accade, mentre sua madre sembra non voler vedere. Fino alla notte d’agosto dopo la quale nulla sarà piú come prima: la piccola comunità di Ponte – già segnata dall’omicidio insoluto di un bambino – si sveglia sconvolta per il rapimento di una ragazza, salita la sera precedente su un furgone e poi svanita in mezzo ai boschi. Ma quell’estate per Elia è anche segnata dall’attrazione per Anna Trabuio, dall’amicizia per suo figlio Stefano, dalla scoperta lacerante dei propri desideri e dell’istinto di sopravvivenza. A raccontare tutto questo è Elia trent’anni dopo: un uomo che tenta di ricucire lo strappo del passato e illuminare il buio nella mente di suo padre, immaginando cosa sia accaduto davvero quella notte, e cosa significhi perdere se stessi. Ma soprattutto tenta di rispondere a una domanda: com’è possibile, dopo una ferita cosí profonda, sperare di essere felici? Tra La settimana bianca e Io non ho paura, Elena Varvello ha scritto una storia di formazione diversa da tutte le altre, che cattura il lettore con una lingua cesellata, dura e trasparente.
                                                 La recensione
Un groviglio di tronchi e rami ai lati della strada. Un bosco. Gli occhi di due fari che bucano il buio. Senza soffermarmi sul risvolto di copertina, non so perché, avevo immaginato un giallo investigativo. Un poliziesco. Mi sono soffermato sui giovani misteri della Vita felice in ritardo. Complice un bellissimo post a tema Stranger Things di un'amica blogger, Francesca, nel quale si parlava di anni Ottanta e romanzi di formazione. Per gli spettatori incapaci di attendere il prossimo Halloween per scoprire finalmente cosa ne è stato di Eleven e del resto della squadra, ingannare l'attesa leggendo avventure dal sapore rétro: senza tirare in ballo, magari, il classico Stephen King. Mi sono ricordato del romanzo di Elena Varvello quando l'ho incrociato in biblioteca. L'ho portato a casa con me senza tentennare: ad ottobre, infatti, quant'è che manca? Si parlava, a proposito di John Irving e di proverbi della nonna, di incipit che sono mezza bellezza. Quello della Varvello è di quelli che ti fanno dannare l'anima. In apertura, subito palesati i sospetti verso un padre non così irreprensibile: Ettore Furenti, ci racconta in prima persona il figlio Elia, diede uno strappo a una ventenne e la condusse nel fitto del bosco. 
La stessa estate in cui i carabinieri trovarono alle cascate il cadavere di un bambino e i Trabuio, famiglia sulla bocca di tutti, tornarono in paese con la coda tra le gambe. Elia, all'epoca, aveva sedici anni. Gli anni Settanta erano lì lì per finire, e anche la sua innocenza. Il protagonista vive in un paese di provincia, al nord. Non c'è futuro, non c'è divertimento, non c'è respiro. Solitario e irrequieto, disobbedisce alle raccomandazioni della madre. La noia e la curiosità lo portano a farsi amico il ribelle Stefano, figlio della chiacchierata Anna Trabuio: una donna di mezza età e dalla bellezza sfiorita, che gli occhi inesperti di un ragazzino trasformano in un mezzo sogno erotico. Elia scopre l'amicizia e l'attrazione verso un'adulta che non è quello che dipingono. Soprattutto, tra sigarette consumate fino al filtro e altalene cigolanti, il malessere di un padre che perde il lavoro in fabbrica e, assieme a quello, il sorriso e la lucidità. Quale interruttore scatta nella testa del paranoico Ettore Furenti, che d'un tratto farnetica di cospirazioni e cattivi consiglieri? Perché le tante notti passate in garage, il furgone infangato, i tagli inspiegabili sulle nocche? 
Intanto sua moglie, una bibliotecaria paziente e in buona fede, madre irreprensibile, ignora deliberatamente i segni. La vita felice, predice Anna a Elia, è quella che verrà. Lo dice il palmo della sua mano sinistra. Sarà una vita lunga, lunghissima. Il romanzo di Elena Varvello, graffiante e caotico, in realtà felice non è. Una lettura cupa e nerissima ma dal fascino indubbio, in cui la selva oscura della copertina – e l'impossibilità di sottrarsi ai legami di sangue – toglie il respiro. Ci sono infiniti spazi aperti, ettari e ettari per sotterrare cadaveri e sperimentare nuovi giochi, ma ci assale un profondo senso di claustrofobia. Lo stesso provato, magari, da una baby sitter che sale nella macchina di un estraneo e si accorge che da quel viaggio in fondo alla notte non ci sarà ritorno. Si gioca a carte scoperte, eppure il dubbio resta. Si percepisce una certa stanchezza, in un finale che si dilunga un po' troppo, ma La vita felice è una di quelle giornate estive in cui a letto arrivi stanco morto. Ti stendi e crolli. Sogni un romanzo che non ha grandi colpi di scena o scossoni, vero, eppure è scritto con una ferocia e una precisione esemplari. Ho pensato a Niccolò Ammaniti. Ai bambini di Io non ho paura, alla scoperta del cuore nero dei loro genitori. Al Quattro Formaggi di Come Dio comanda e a una di quelle notti da lupi in cui un gesto avventato sconvolge le carte. Qui si collezionano i fumetti di Tex. Si nuota in specchi d'acqua che sono poco più larghi di pozzanghere. Si ascoltano i mangianastri e, nottetempo, si presta ascolto ai movimenti di un genitore che furente lo è diventato di fatto oltre che di nome. Il bene costruito in sedici anni è cancellato nel giro (e nel male) di un secondo? La paranoia è un gene recessivo? L'estate, l'adolescenza e La vita felice sono un battito di ciglia. Quel lampo fugace, ciò che vedi nel mentre – a metà dell'autunno, dell'essere adulti, della lettura successiva –, fa la differenza.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Subsonica – Tutti i miei sbagli

lunedì 27 marzo 2017

Recensione: L'Arminuta, di Donatella di Pietrantonio

Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza.

Titolo: L'Arminuta
Autrice: Donatella Di Pietrantonio
Editore: Einaudi
Prezzo: € 17,50
Numero di pagine: 162
Sinossi: Ci sono romanzi che toccano corde cosí profonde, originarie, che sembrano chiamarci per nome. È quello che accade con L'Arminuta fin dalla prima pagina, quando la protagonista, con una valigia in mano e una sacca di scarpe nell'altra, suona a una porta sconosciuta. Ad aprirle, sua sorella Adriana, gli occhi stropicciati, le trecce sfatte: non si sono mai viste prima. Inizia cosí questa storia dirompente e ammaliatrice: con una ragazzina che da un giorno all'altro perde tutto – una casa confortevole, le amiche piú care, l'affetto incondizionato dei genitori. O meglio, di quelli che credeva i suoi genitori. Per «l'Arminuta» (la ritornata), come la chiamano i compagni, comincia una nuova e diversissima vita. La casa è piccola, buia, ci sono fratelli dappertutto e poco cibo sul tavolo. Ma c'è Adriana, che condivide il letto con lei. E c'è Vincenzo, che la guarda come fosse già una donna. E in quello sguardo irrequieto, smaliziato, lei può forse perdersi per cominciare a ritrovarsi. L'accettazione di un doppio abbandono è possibile solo tornando alla fonte a se stessi. Donatella Di Pietrantonio conosce le parole per dirlo, e affronta il tema della maternità, della responsabilità e della cura, da una prospettiva originale e con una rara intensità espressiva. Le basta dare ascolto alla sua terra, a quell'Abruzzo poco conosciuto, ruvido e aspro, che improvvisamente si accende col riflesso del mare.
                                            La recensione
Vagando in biblioteca o in libreria ti imbatti in copertine piene di facce. Troppe, mi lamento spesso. Quella sulla copertina del terzo romando di Donatella Di Pietrantonio, candidata al premio Strega per il precedente Bella mia, ricambia però il tuo sguardo con aria di sfida. Ha in primo piano una ragazza scura, spettinata, che sembra dirti: prova a ignorarmi, su, se ne sei capace. Perché quello sprezzo? Perché quella rabbia? Ci si inerpica così, tra uno sguardo pieno di cose e le recensioni giuste al momento giusto, lungo i sentieri che portano alla porta dell'Arminuta. La protagonista non ha nome. Ha le forme di una signorina, in autunno farà la terza media. Le stanno spuntato le prime curve, quei primi pruriti che distinguono una bambina da una donna. Nuota, balla. Intelligente e studiosa, sa i verbi a campanello e parla un italiano senza cadenza. Ma eccola nell'incipit, con una busta piena di scarpe e il vestito della domenica, sull'uscio di una famiglia sconosciuta che eppure ha il suo stesso sangue. A tredici anni, la narratrice sperimenta la superstizione di un paesello che sembra uscito dal tardo Ottocento, non di certo dagli anni Settanta; un'allegra camerata piena di bambini e odori sconosciuti; le mani tese di due adulti estranei, che in realtà sarebbero i suoi genitori biologici. 
La ribattezzano l'Arminuta: vale a dire la ritornata. In quelle stanze ci è nata, ma è stata affidata a dei parenti lontani affinché alleggerissero quella famiglia disgraziata di un'altra bocca da sfamare. La ragazzina ci fa ritorno con l'adolescenza a un passo, quando i genitori adottivi – che lei ha sempre chiamato mamma e papà, all'oscuro dello scambio clandestino – la rimandano al mittente come fosse un giocattolo guasto. Non abbastanza perfetta per loro, comunque, topi di città fatti e finiti. Sua madre, o almeno quella che credeva tale, soffre. L'ha allontanata da lei in attesa di guarire? E se da quella patologia non si riprendesse mai più, e se si fosse semplicemente stancata di averla attorno? Succede tutto in fretta, dal giorno alla notte. Lo stesso succede al lettore. Spiazzato dalla durezza dell'inizio e da pagine rade, che scorrono tra le dita in poche ore. L'Arminuta non ti dà il tempo di prendere appunti, di pensarci su, ti provare a stare nei panni della protagonista. Grazie al trucco che soltano gli autori bravissimi possiedono, a quella prima persona che favorisce l'introspezione e una totale identificazione, tu diventi lei per il tempo che serve. Sballottata, insofferente e profondamente amareggiata nell'età in cui è troppo presto per angustiarsi. 
Poi ti guardi attorno, torni in te. Cosa le hanno negato i genitori putativi? E cosa le hanno donato, nel mentre? La compagnia di cinque, sei fratelli. E di quei fratelli, per rispondere alla seconda domanda, la grettezza e la fame insaziabile. In una massa traboccante di esigenze, strilli e gorgoglii, ne spiccano due: lo scapestrato Vincenzo, che frequenta giostrai assai sospetti e guarda con desiderio sconveniente quella sorella acquisita; la fedelissima Adriana, che pende dalle sue labbra, la invidia e la aspetta come un cagnolino alla fermata dell'autobus. Tra le righe della Di Pietrantonio, quasi una mia vicina di casa, l'Abruzzo ha due volti: così diverso sulla costa e nell'entroterra. Da un lato il mare, che ispira pace; dall'altro la prigione angosciante delle montagne. L'autrice ha una scrittura essenziale, che bada alla sostanza. Pastosa, caldissima, ha un che dell'infanzia secondo Elena Ferrante. Il fascino sospeso dell'Italia centro-meridionale, le adolescenti “geniali” e l'immediatezza del dialetto. A occhio e croce ho indovinato i posti e le scenografie naturali. Ho familiarità con l'accento e con una specie di abbandono. L'Arminuta racconta il lento assestamento, la nuova normalità. I libri di scuola di seconda mano, il pane cotto, il letto bagnato di pipì, la speranza di un liceo altrove. Il reinventarsi nel tempo delle mele, vivendo un'adolescenza ben più turbolenta di altre. Anche se, di per sé, è una fase che significa scoprirsi cambiati: dentro e fuori. Anche se il distacco del cordone, le novità belle e brutte, non sono che una improrogabile tappa del percorso. Lo sappiamo: l'Abruzzo e le scuole medie sono terra sismica. Tremano insieme a questa bambina forte. Orfana, nonostante conosca due madri e nessun posto da chiamare casa. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Maldestro – Canzone per Federica

venerdì 24 marzo 2017

Recensione: Carry On, di Rainbow Rowell

Tu eri il sole, Simon, e prima o poi ti sarei finito addosso. Mi svegliavo ogni mattina e pensavo: “Finirà tutto in fiamme.

Titolo: Carry On
Autrice: Rainbow Rowell
Editore: Piemme
Numero di pagine: 538
Prezzo: € 17,00
Sinossi: «Mi fissa ancora negli occhi. Inchiodandomi con lo sguardo come ha fatto con quel drago, con il mento in alto, immobile. «Io non sono il Prescelto.» Ricambio il suo sguardo e sorrido. Il mio braccio lo stringe. «Be', io ti scelgo, Simon Snour.»
Simon Snow è il peggior prescelto di sempre. Questo è ciò che sostiene Baz, il suo compagno di stanza. Baz potrà anche essere un vampiro e un nemico, ma ha probabilmente ragione. Per la maggior parte del tempo infatti Simon non sa far funzionare la sua bacchetta, oppure non sa controllare il suo inestinguibile potere mandando tutto a fuoco. Il suo mentore lo evita, la sua ragazza lo ha lasciato, e un mostro con la sua faccia si aggira per Watford, la scuola di magia in cui frequentano l'ultimo anno. Allora perché Baz non riesce a fare a meno di stargli sempre intorno?

                                            La recensione
Ricordo il mese di novembre. La tesi da scrivere in quattro e quattr'otto, l'acqua alla gola. La sensazione di affogarci, negli impegni, nelle scadenze, nelle cose da fare. Per fortuna avevo Fangirl. Un mattoncino il cui dorso verde smeraldo, neanche troppo a sorpresa, faceva capolino nella foto di gruppo in cui avevo impilato le mie letture preferite di un anno di libri. C'erano le saghe familiari e la Trilogia della Pianura, la scoperta tardiva di Philip Roth, ma le risate di Rainbow Rowell non avrei mai potuto rineggarle. Pena per i traditori: un temporale senza fine sopra la testa. Quand'è che un romanzo si merita il nostro stupidissimo entusiasmo? Sentirsi bene, forse, ha meno valore che riflettere leggendo? L'effetto benefico di Fangirl, una commedia brillante sull'identità e l'amore smisurato per la finzione letteraria, aveva lasciato strascichi e tanta curiosità per i piani della protagonista, Cath. L'universitaria misantropa, al centro di un triangolo sentimentale non pianificato e di una starordinaria notorietà sul web, aveva una cotta mostruosa per le storie di Simon Snow. Un personaggio fittizio, incensurato fac-simile di Harry Potter, protagonista di otto romanzi che per Cath erano il mondo. La protagonista trattava i personaggi come fossero amici, li chiamava per nome; scriveva per loro nuovi sviluppi, intrecci alternativi, svolte liete. Tutto per non crescere. Tutto per far sì che, almeno nella sua versione della storia, Simon e Baz – suo coinquilino e nemico giurato – fossero una coppia. Il mondo delle fanfiction, forse lo saprete, mi ha sempre trovato scettico. Da ragazzino trovavo strana questa tendenza ad accoppiare personaggi a caso – ricordo il divertito sconcerto quando scoprii che c'erano spettatrici che fantasticavano su una inquietante relazione incestuosa tra i fratelli di Supernatural – e se saltava fuori il termine “shippare” il pensiero andava alle vecchiette speronate all'uscita dell'ufficio postale per arraffarne la pensione. Questo Carry On è il romanzo nel romanzo. La fanfiction a cui Cath lavorava giorno e notte, lasciandocene sbirciare qualche passaggio nel mentre. I suoi pensieri segreti poteva leggerli solo la Rowell, che conosce bene i propri polli: compreso quel Simon Snow abbozzato lì per lì e spunto, infine, per un romanzo autoconclusivo. Carry On è in teoria l'ottavo capitolo di una saga ambientata in quel di Watford: in realtà, sappiamo noi, è il primo e anche l'ultimo. Cosa ci siamo persi, se la narrazione ha inizio in medias res e delle puntate precedenti è a conoscenza solo Cath? Ci si affida a occhi chiusi a chi ha l'arcobaleno nel nome. 
E dalla porta principale si entra in una scuola di magia in cui si aggirano con occhi tristi i diplomandi: dispiace abbandonarla, infatti, e c'è una preoccupazione diffusa per le sorti di quel mondo sconosciuto ai Normali. La minaccia è il Tedio Insidioso, ma anche il dissidio in corso tra l'Arcimago e le Antiche Famiglie dà da pensare. Simon Snow, orfano troppo pasticcione per essere il Prescelto, ha perso il sonno a furia di rimuginare sulle sorti altrui. Ci si mette, a inizio anno, anche l'assenza di Baz: il vampiro doppiogiochista che ha lasciato un letto vuoto e che, forse dall'altra parte della barricata, medita complotti. Gli ha già soffiato la ragazza e, stando all'amica Penelope, è diventato il loro solo argomento di conversazione. Finché Baz non fa il suo ingresso plateale a mensa, pallido e inquieto, coinvolgendolo in una caccia ai beoti, al mostro che sta divorando l'incanto, alla verità. Quella sulle loro madri, che dall'aldilà sussurrano. Quella su di loro, che si beccano nascondendo la sconsiderata voglia di baciarsi per non implodere. Rainbow Rowell è una personcina intelligente e adorabile, poco da fare. Non conosce gli insuccessi o il cattivo tempo. Nei suoi romanzi è tutto una schiarita, una lunga primavera. Speravo di rileggerla prima di subito ma, in fondo, non troppo. Parlandone, infatti, ho la tendenza a ripetermi come una radio scassata. 
A sorpresa, Carry On è un romanzo diversissimo dai precedenti. Affiorano ugualmente i cuoricini, sì, e il raziocinio si scioglie davanti a una tenerezza che non conosce eguali, però l'avventura e gli amori di Simon Snow sono al centro di un fantasy – genere che non apprezzo, chiusa la parentesi Rowling – avvincente e solido. Ci sono i colpi di scena, le grandi emozioni, perfino i draghi sputafuoco. I punti di vista, innumerevoli, si alternano come in una partita a ping pong. Insomma, lo si prende sul serissimo. Più istintivo e colloquiale del suo modello di riferimento, più vulnerabile, Carry On ha vacanze di Natale passate in case stregate, una scuola in cui vige una specie di comunismo, locali notturni alla Guy Ritchie frequentati da fratelli ripudiati. Come ci si sente a essere l'erede dell'Arcimago e a non essere all'altezza del ruolo? Come si vive la propria sessualità, le zanne acuminate e la scortesia innata, se troppo presi a farsi temere nel nome dei Pitch? In aula si studia tanto, soprattutto dizione. L'efficacia dei sortilegi sta nell'intenzione. Gli incantesimi sono infatti filastrocche, tormentoni di vecchi film (A qualcuno piace caldo è meglio del microonde per scaldare in fretta gli avanzi della cena prima), ritornelli di canzoni (U can't touch this come protezione e Bohemian Rhapsody, a cui il titolo stesso allude, per amuleto). Simon e Baz si passano la magia toccandosi le mani: insieme fanno scintille. All'unisono gli incantesimi risuonano potenti, la magia è parola. E la Signora Arcobaleno, a proposito di parole magiche, la sa lunga, la canzone. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Queen – Bohemian Rhapsody 

mercoledì 22 marzo 2017

Mr. Ciak: La bella e la bestia, Logan, E' solo la fine del mondo, Rings

Con una videocasetta tutta consumata della Bella e la Bestia scoprii che per i film si poteva piangere. Il capolavoro Disney è tra quelli che ho visto e rivisto fino a distruggere il nastro. A ventidue anni, perciò, faccio parte di quei nostalgici che, sospirando, dicono: ai miei tempi le favole erano tutte un'altra cosa. Con la scusa pronta ho seguito quelle stesse storie farsi film. Nella moda del retelling ci ricasco volentieri. Ultima ma non ultima, è arrivata la trasposizione del mio cartone preferito. Restano le battute, perfino le canzoni, e il minutaggio sfiora le due ore con l'aggiunta di nuove sequenze – il passato dei protagonisti svelato in flashback, quel LeTont omosessuale che ha fatto scattare la censura in paesi da cancellare dalle carte geografiche. La Bella e la Bestia vorrebbe porsi sulla scia dell'incanto di ventisei anni fa. Gotico e opulento, è un conto alla rovescia che spiega il valore del tempo, l'importanza della bellezza interiore, il temperamento di un'eroina femminista venuta prima di qualsiasi Moana. Lo fa cantando e ballando, e con una morale nascosta prima dei titoli di coda. Purtroppo, però, il film di Condon ha difetti che lo rendono godibile il minimo. La pochezza interpretativa di Emma Watson: una Belle con un cachet stratosferico e la perenne espressione da prima della classe, in quel di Hogwarts. I consueti disastri che combina l'edizione italiana quando si parla di musical, tra una metrica sconosciuta e un doppiaggio che cancella le prove vocali degli interpreti (con immenso disappunto, della partecipazione della Thompson, McKellen e McGregor non resta quasi traccia). La sostanziale inutilità di copie carbone come questa. Nella prima parte lo si guarda con un occhio sì e un occhio no, disturbati dalle modifiche dei ritornelli più memorabili. Qualcosa, poi, cambia nella seconda, complice un ottimo Luke Evans e i passi dello storico valzer. Ma nel castello della Bestia ci si innamora in fretta e senza un vero perché. La rosa sfiorisce. Si bruciano le tappe - quel significativo sono amici e poi, uno dice un noi - e la poesia, il senso, si perdono in un compitino copiato al compagno di banco. Quanto impiego di mezzi e figuranti, quanta attesa mal riposta, per una costosissima recita scolastica e poco più. (5,5)

Puntualmente, quando la Marvel torna al cinema, ci pensa la critica a presentare il film di turno come fosse l'eccezione alla regola. Ed eccomi lì a parlarne sempre nei soliti termini, sempre con gli stessi pregiudizi. Applauditissimo in un clima festivaliero, Logan è l'ultimo capitolo della saga del mutante di Jackman. Ho accompagnato mio padre a vederlo più per scommessa che per voglia. Neanche troppo a sorpresa, sono uscito dalla sala toccato e convinto. I mutanti sono costretti a vivere come clandestini. Appartengono a una razza dai giorni contati, o così credono. La piccola Laura è una di loro. Tocca caricarla in macchina verso un Eden che non c'è. Dei supereroi che il mondo conosce non sono rimasti che gli albi. Wolverine pensa al suicidio e fa da badante a Xavier – un Patrick Stewart commovente –, che ha bisogno di aiuto per sedersi sulla tazza. Il suo cervello è un'arma di distruzione di massa, eppure ha i segni debilitanti dell'Alzheimer. Ne viene fuori un western on the road splatter e tenerissimo, che mescola polvere e malinconia. Un Léon che passa il testimone a una nuova generazione. In due ore, botte da orbi e l'introspezione che ti piace. Tempo necessario affinché i personaggi non si affrettino nel momento dei saluti. Mi ci sono affezionato nel mentre, io. Cose che suggeriva il titolo, perfino, con quel nome di battesimo che è sintomo di maggiore intimità. Jackman è granitico, ma mostra delle crepe. Si comporta da figlio e ricerca in sé l'istinto paterno. Vive e fa più in queste poche ore che in una vita eterna, testimone di un tempo qualitativo e non quantitativo. E quando il nostro insieme a lui finisce, calati i titoli di coda, si è incerti se abbandonare la sala o meno. Ci si assiepa alla porta, un piede dentro e uno fuori. E Logan è così che mi piacerà ricordarlo. Con un assurdo senso di attesa, Johnny Cash e l'usciere spuntato dal nulla. Un omino olivastro, straniero, che ci assicura: finisce qui, così. (7,5)

Per anni io e Xavier Dolan ci siamo studiati a distanza. Poi è successo Mommy. Una visione è bastata per trasformarlo in uno dei film del mio cuore. Come tornare al cinema dopo una epifania? Il sesto film del regista franco-canadese è ispirato alla pièce di Jean-Luc Lagarce. La mia tesi faceva tappa anche lì. Louis fa ritorno all'ovile in punta di piedi. Lo accolgono Léa Seydoux, sorella minore che pende dalle sue labbra; una remissiva e farfugliante Cotillard; Vincent Cassel, prepotente capobranco; infine, l'appariscente mamma chioccia di Nathalie Baye. E' Gaspar Ulliel, il viso spigoloso e la fronte imperlata di sudore, a guardarsi intorno spaesato e a cercare spesso l'orologio. C'è chi vuole fare colpo, chi mostra il lato peggiore. Nel bel mezzo di una guerra in corso, il protagonista deve dire loro che ha l'Aids. Meglio aspettare il dessert per stemperare l'amarezza? Un profumo, il vento, una canzone – l'improponibile Dragonstea Din Tei, che eppure il montaggio sa incasellare a regola d'arte – lo portano lontano stando fermo. Ulliel fa da testimone muto, da padre confessore, a questo cast di comprimari in stato di grazia. A tavola siede l'incomunicabilità, il non detto, e le parole sperperate, dette a sproposito, ti prendono a schiaffi in faccia. Fedele alla natura del testo, Dolan realizza un dramma che bello lo è, ma non nella tipica maniera clamorosa. L'impianto è collaudato e il regista, castigato, ci si muove piano. Il suo ego, tra quattro mura, non ci sta. E a volte, sotto la sua pressione, la casa esplode in parentesi suggestive in cui trovi il solito guizzo. Altre, invece, Xavier si stringe nelle spalle, addomestica la vanità, e cela al meglio il disagio di chi ama troppo qualcosa per stravolgerla, ma intanto scalpita nel vestito della domenica. Come a dire: vedete, sono un ragazzo educato se mi applico. Non datemi più del bambino prodigio. Però ora mi chiudo la porta alle spalle, c'è Moby in cuffia, e da domani vado a raccontare a modo mio le famiglie infelici a modo loro. (7)

Mai avuto paura delle apparizioni di Samara. La bambina con i capelli in faccia non esercitava timore su un ottenne dei primi anni Duemila. Ho visto il primo The Ring quando non avevo l'età. Lo ricordo con affetto, ma senza brividi. Il cerchio sembrava essersi chiuso con la riscossa di Naomi Watts. Si riapre, inatteso, più di qualche anno dopo. Nel mentre sono cresciuto, i videoregistatori si sono estinti e la mania del sequel a tutti i costi impazza. Ne è passata di acqua sotto i ponti e nei pozzi sperduti. Incurante, ci riprova Javier Gutiérrez. La storia di Rings vede la classica coppia di innamorati – la lei del duo è l'italiana Matilda Lutz, di cui abbiamo visto il potenziale e gli occhi da cerbiatta nell'ultimo Muccino – cercare un'altra via di fuga dalla maledizione. La tecnologia favorisce la scoperta di una traccia segreta: un video nel video. La protagonista, guidata dalle visioni, si lascia condurre dove tutto ha avuto inizio. Teen ma non troppo, Rings ha protagonisti più freschi e una struttura schematica che non si allontana dai sentieri passati. Le svolte non sono tra le più imprevedibili, ma la ricerca non annoia, il mistero irretisce e la regia curatissima offre pochi spauracchi, al solito, ma immagini interessanti: il prologo in volo, la pioggia che scorre al contrario, gli spezzoni mai visti del filmato originale. Rings, come da previsione, non è indispensabile, ma in un panorama di seguiti tanto brutti da non crederci – il pensiero va proprio a Blair Witch – la spunta facile. Diverte e intrattiene l'essenziale, soprattutto se l'effetto nostalgia e i primi piani della bella Matilda possono più dello sguardo che uccide dello spettro orientale. La morte correva sul filo del telefono. Colpiva in sette giorni. La sentenza, persasi nei bombardamenti dei call center e nella progressiva comparsa dei telefoni wireless, si fa perdonare con poco e niente il ritardo. E, a sorpresa, non suona come la morte dell'horror. (6+) 

lunedì 20 marzo 2017

Recensione [Bancarella 2017]: La locanda dell'Ultima Solitudine, di Alessandro Barbaglia

Ci sono tre motivi per cui vale la pena andare. Il primo è perché si mangia bene. Il secondo è perché ci si può andare solo in due. Il terzo è perché laggiù ci impari a vivere. E quindi, anche, a morire. 

Titolo: La locanda dell'Ultima Solitudine
Autore: Alessandro Barbaglia
Editore: Mondadori
Numero di pagine: 163
Prezzo: € 17,00
Sinossi: Libero e Viola si stanno cercando. Ancora non si conoscono, ma questo è solo un dettaglio. Nel 2007 Libero ha prenotato un tavolo alla Locanda dell'Ultima Solitudine, per dieci anni dopo. Ed è certo che lì e solo lì, in quella locanda arroccata sul mare costruita col legno di una nave mancata, la sua vita cambierà. L'importante è saper aspettare, ed essere certi che "se qualcosa nella vita non arriva è perché non l'hai aspettato abbastanza, non perché sia sbagliato aspettarlo". Anche Viola aspetta: la forza di andarsene. Da anni scrive lettere al padre, che lui non legge perché tempo prima, senza che nessuno ne conosca la ragione, è scomparso, lasciandola sola con la madre a Bisogno, il loro paese. Ed è a Bisogno, dove i fiori si scordano e da generazioni le donne della famiglia di Viola, che portano tutte un nome floreale, si tramandano il compito di accordarli, che lei comincia a sentire il peso di quell'assenza e la voglia di un nuovo orizzonte. Con ironia leggera, tra giochi linguistici, pennellate surreali e grande tenerezza, Alessandro Barbaglia ci racconta una splendida storia d'amore.
                                            La recensione
In equilibrio su uno scoglio sperduto tra cielo e mare sorge una locanda che più esclusiva non si può: il posto più bello del mondo. Da quel legname un manipolo di soldati avrebbe dovuto intagliare una nave per scappare in America. Un bambino assennato, però, aveva preferito la terra ferma al rischio dell'alta marea. Adesso ci lavorano il fondatore, Enrico, e un ometto baffuto. Ci si può soggiornare in pochissimi per una cena romantica. Il locale non ha che un tavolino con due sedie. Possono prenotare solo due persone. O due persone sole. Il telefono squilla e sì, si accettano prenotazioni. Ma la voce dall'altro capo del filo è di un giovane uomo, Libero, che riserva un posto con dieci anni d'anticipo. E' il 2007 e lui, inghiottito da un'anonima e tentacolare metropoli, non ha ancora nessuno con cui andare. Confida nel tempo e nella venuta dell'anima gemella. Libero di nome ma, nei fatti, prigioniero del suo stesso senso di attesa. Nel mentre divide un appartamento vuoto e dipinto di blu con un cane, Vieniquì, e un baule con un singolo biglietto sul fondo. 
Al di là delle colline, in un posto incantato che si chiama Bisogno, c'è l'irrequieta Viola. Vive in una casa preclusa al sesso maschile ed è l'ultima di un albero genealogico in cui, oltre ai nomi floreali, ci si tramanda l'arte di accordare i fiori scordati. Nel caminetto imbuca lettere a un padre che si è allontanato per non mostrarsi sofferente e l'arrivo del nuovo parroco, Piter, accresce in lei il connaturato desiderio di altrove. Libero e Viola sono i protagonisti principali di un esordio italiano subito candidato al Premio Bancarella. Sappiamo che la storia parla di loro, ed è una storia d'amore. Però, a lungo, vivono lontanissimi e in capitoli alterni. Quanti chilometri li separano, quali scelte, se lui va a convivere con un'altra donna e lei rischia di abbracciare passivamente un destino prestabilito? Come ci cambiano dieci anni? Soprattutto, si può avere nostalgia delle cose che non sono mai accadute? In un attimo lungo una vita ci si trova protagonisti di una relazione sbagliata, della routine, di un rapporto affettivo che non sa emozionare. Della pianificazione di una fuga perfetta che, dopo mille tentativi vani, diventa frustrante. 
Sono un lettore impaziente, facilmente annoiabile, d'indole poco poetica. Non ho mai apprezzato fino in fondo, per dirvi, le rose e le volpi del Piccolo principe: letto forse quando era troppo presto o forse no. Precisazione doverosa se si parla di un romanzo leggero, onirico e delicatissimo come questo. Se, come ho fatto io, si entra nel favoloso mondo di Alessandro Barbaglia con un vago scetticismo di fondo. La locanda dell'Ultima Solitudine non era la mia tazza di tè. Lo prendo nero, meno zuccherato possibile. Centocinquanta pagine dopo i miei gusti non sono cambiati. Però Alessandro e i suoi innamorati sui generis, che si cercano ma non lo sanno, sono davvero dei bei tipi. Surreali ma belli, come diceva qualcuno nella commedia in cui il libraio s'innamorava della principessa di Hollywood. Anche se alle perle di patate preferisco una saporitissima carbonara. Anche se alle fiabe e alle prose così mi abbandono in ritardo, ma de gustibus. Nella Locanda dell'Ultima Solitudine, fatto sta, c'è una serenità straordinaria: ti disturbano solo le onde e il vento. Servito e riverito, attorniato da un interessante cicaleggio, ne guadagni in ottimismo e buonumore. Ti godi le sensazioni lievi, le suggestioni sparse, gli spunti. La tintarella di luna di un gioco immaginifico ed esistenzialista. Il menu è semplice, la compagnia è buona, lo scenario affascinante. Il pernottamento confortevole e, al mattino, il tremolar della marina invoglia a fare il bagno nudi. Lasci una mancia abbondante alla cassa. Arrivi solo e riparti in coppia. Magari, ti dici, prima o poi ci torno.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Ermal Meta – Ragazza Paradiso 

sabato 18 marzo 2017

Recensione: Orfani bianchi, di Antonio Manzini

La vita fa così. Non avverte mai, porca la miseria puttana. Picchia all'improvviso, perché lo sa, lo sa che fa male il doppio.

Titolo: Orfani bianchi
Autore: Antonio Manzini
Editore: Chiarelettere
Prezzo: € 16,00
Numero di pagine: 256
Sinossi: Mirta è una giovane donna moldava trapiantata a Roma in cerca di lavoro. Alle spalle si è lasciata un mondo di miseria e sofferenza, e soprattutto Ilie, il suo bambino, tutto quello che ha di bello e le dà sostegno in questa vita di nuovi sacrifici e umiliazioni. Per primo Nunzio poi la signora Mazzanti, "che si era spenta una notte di dicembre, sotto Natale, ma la famiglia non aveva rinunciato all'albero ai regali e al panettone", poi Olivia e adesso Eleonora. Tutte persone vinte dall'esistenza e dagli anni, spesso abbandonate dai loro stessi familiari. Ad accudirle c'è lei, Mirta, che non le conosce ma le accompagna alla morte condividendo con loro un'intimità fatta di cure e piccole attenzioni quotidiane. Ecco quello che siamo, sembra dirci Manzini in questo romanzo sorprendente e rivelatore con al centro un personaggio femminile di grande forza e bellezza, in lotta contro un destino spietato: il suo, che non le dà tregua, e quello delle persone che deve accudire, sole e votate alla fine. "Nella disperazione siamo uguali" dice Eleonora, ricca e con alle spalle una vita di bellezza, a Mirta, protesa con tutte le energie di cui dispone a costruirsi un futuro di serenità per sé e per il figlio, nell'ultimo, intenso e contraddittorio rapporto fra due donne che, sole e in fondo al barile, finiscono per somigliarsi. Dagli occhi e dalle parole di Mirta il ritratto di una società che sembra non conoscere più la tenerezza.
                                               La recensione
Il desiderio di leggere Manzini c'era dallo scorso inverno. Da quanto, in ritardo, ho scoperto le famigerate rotture di coglioni di Schiavone. Tra una cosa e l'altra, infine, leggerlo per la prima volta con l'ultimo romanzo arrivato in libreria. Uno dei pochi, forse l'unico, senza la Sellerio e le risoluzioni poco ortodosse del vicequestore romano. Orfani bianchi, ad occhio, ha il Manzini che gli orfani del dissacrante Marco Giallini non si aspettavano. Alle prese con un convincente punto di vista femminile e una storia che, purtroppo, non vuole conoscere leggerezza. Ho iniziato a leggere di Mirta e dei suoi infiniti dispiaceri sull'autobus. Da quando faccio il pendolare ho un libro sul Kindle che mi accompagna nella traversata e un altro a casa, in versione cartacea. L'ebook di Orfani bianchi, in teoria, era il mio libro da mezzi pubblici. Ma ho preferito leggerlo tutto in una volta, anche da fermo, perché con il dolore è così. Meglio sentirlo tutto insieme anziché spezzettarlo. La storia, quella di tante donne dell'est. Di quelle che, borbottano, ci rubano il lavoro. Di quelle che, ribadiscono, dovrebbero tornarsene al loro paese. E che intanto si assumono le responsabilità che nessuno vorrebbe. Guadagnano e mettono tutto da parte, come formiche. In una giungla di razzismo, si erge Mirta: eroina incontrastata nella cronaca di un viaggio a senso solo, di una fatica immane, di una profonda solitudine. E' ancora giovane, ha un figlio di dodici anni per cui stravede nonostante la lontananza. Pensa al passato, ma soprattutto al futuro, e scrive lunghe email all'amica del cuore, al figlio Ilie, al parroco che si prende cura dei suoi cari. La chat e Manzini ne custodiscono i sogni, le confidenze, le promesse. I bocconi amari. I pesi sull'anima, lo stomaco a brandelli. 
Dopo avere perso il lavoro, la protagonista trova prima impiego in un'impresa di pulizie e poi, con l'inganno, presso una ricchissima famiglia della capitale: duemila euro al mese per accudire la capricciosa signora Eleonora, paralizzata da un ictus in un castello in cui aspettare invano una morte rapida. Da casa, però, arrivano brutte notizie. Ilie non ha nessuno che si prenda cura di lui e Mirta, a fin di bene, lo affida a un internat: un collegio che puzza d'ospedale, in cui ci sono altri orfani bianchi come lui – figli con genitori in vita, vale a dire, ma incapaci di allevarli. Gli fa una promessa: dovranno resistere altri tre mesi. C'è una vecchia che implora la morte, un galante polacco che chiede invece la sua mano, un appartamento abbastanza grande per stare finalmente insieme. Mancano ancora i soldi necessari, serve giusto un altro po'. Manzini descrive con occhio clinico il Tevere ribollente, i quartieri residenziali, i tram stipati di accenti diversi e speranze in assonanza. Donne forti, come l'intensa Mirta, che scendono a compromessi in una guerra fra poveri, si piegano, (non) si spezzano. Lontano dalle nevi del settentrione, l'autore ti tiene compagnia con gli invisibili, i diseredati, i moderni miserabili. Dà visibilità, mai giustizia, a un mondo da cui distogliamo distrattamente lo sguardo. 
Il compito di uno scrittore è però limitarsi a prenderne atto? Riportare le sofferenze in fila indiana, non concedendoci né un giudizio né una speranza? Mi prendo in giro spesso. Ricordo più i mancati happy ending che il resto. I miei romanzi preferiti, i film che guardo e riguardo, non finiscono bene. Però Orfani bianchi è disperato in maniera inderogabile, perfino per i miei parametri. Tristissimo, soprattutto nella prima parte e in un epilogo così drammatico da avere dell'inverosimile. Buca lo stomaco, minaccia lacrime a non finire e, anche se a volte stai meglio, ti rinfaccia la lontanza. Lo finisci, così, con un senso d'angoscia crescente. Fissi il muro per mezz'ora. Conseguenze di un libro tragico e senza respiro, verghiano, con un intreccio che ha il sapore della verità. Misteri di una lettura ben scritta, pesantissima, che si fa leggere in una giornata. Con più di qualche passo ispirato, molti luoghi comuni, troppi drammi. Che accalcati in duecento pagine appena, in un pomeriggio, fanno stringere i denti sì, ma anche storcere il naso.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Les Misérables – I dreamed a dream

giovedì 16 marzo 2017

I ♥ Telefilm: This is us | Search Party

Sono tra quelli che in foto fanno sempre la stessa faccia. Trattenuto e riservato, mi lascio andare quando mi riempiono il bicchiere o nessuno mi guarda. Oppure il mercoledì sera. Quando non c'è romanzo o contrattempo che possa salvarmi dalle sensazioni che soltanto questo This is us sa. Sono tra quelli che usano l'aggettivo strappalacrime come fosse una parolaccia, infatti. Eppure quante lacrime che ha saputo strapparmi, parlando fuori dai denti, la storia dell'ordinaria famiglia Pearson. E così io, che alla faccia di pietra ho fatto l'abitudine, sul mio divano scomodissimo rido e frigno con tutta una serie di gradazioni intermedie. E quanto mi è piaciuto abbandonarmi, per una volta, ai colpi di cuore di una serie bellissima perché semplice in maniera disarmante. Diciotto episodi complessivi e, più o meno in tutti, mi sono dato generosamente allo stesso terremoto emotivo. Sono masochista, continuando con la lista, ma non mi affido a cose o persone che esercitano su di me il bello e il cattivo tempo. Da This is us, eppure, sono tornato settimana dopo settimana. In attesa che facesse la prima mossa, e la sua magia. Qual è la particolarità di un telefilm che, ancora lontano dal concludersi, si era guadagnato una pioggia di nomination ai Golden Globe e un posto d'eccezione sul podio, nei listoni di fine anno? This is us è un family drama modesto, con attori visti qui e lì e uno spunto che si esaurisce dopo il pilot. Se mi leggete, saprete già che i protagonisti sono in realtà parte della stessa famiglia. Tra passato e presente, Dan Fogelman ci racconta due generazioni di Pearson. I bravissimi Mandy Moore e Milo Ventimiglia, forse la coppia più bella del mondo, sono i capostipiti. Poi vengono i gemelli diversi Chrissy Metz e Justin Hartley – lei in sovrappeso, lui attore corteggiatissimo in cerca di ruoli importanti – e Sterling K. Brown, figlio adottivo, che riallaccia i contatti con il suo padre biologico scoprendolo in fin di vita e bisessuale. Il creatore di Crazy Stupid Love coglie l'esistenza del gruppo in presa diretta. Ce ne mostra gli amori all'apice e al tramonto, i lutti inevitabili e le scelte esistenziali senza fuochi d'artificio. La televisione imita il cinema, ed è allora che stupisce: la NBC non ci prova neppure. This is us non conquista per la fattura, ma per quei protagonisti di cui senti di non poter fare a meno. Sono tutti belli e premurosi, fanno buone azioni. Solo qualche volta, cose che capitano, volano parole pesanti di cui ci si pente. Ventimiglia alza il gomito, e quanta ansia per il suo destino. Il papà hipster di Ron Cephas Jones (il mio personaggio preferito) ha i giorni contati, la coscienza un po' sporca e, a un certo punto, si teme sia caduto di nuovo nel tunnel della droga. Ma, acciaccato e tutto, prende un treno e macina chilometri ogni mattina per dare da mangiare a un gatto che ha preso possesso del suo balcone. Sulla scia dello stesso candore che non biasimi ma spii, eccole lì le dichiarazioni plateali, i fratelli che vengono al primo posto, quei viaggi in macchina che sono il migliore commiato. Anche se hai una famiglia sfasciata, tu, e a un freddissimo dicembre siete sopravvissuti giusto in due. Però quel chiasso a cena lo sogni prima di alzarti di soprassalto alle sei e quaranta in punto. Ora che è finito, con ascolti che non calano di una virgola, lascio sfitti i miei dotti lacrimali fino a un nuovo ciclo di episodi. Convinto che il prossimo autunno, in loro compagnia, troverò altri spunti per riconciliarmi con le emozioni che non sentivo. (9)

Ci vuole un po' per rendersi conto che quelli non sono gli anni '80 che sul piccolo schermo, tra Stranger Things e un Red Oaks, vanno per la maggiore. L'impressione nasce dal poster vintage e dal guardaroba dei giovani protagonisti di una comedy un po' gialla e un po' nera, che ha fatto il suo debutto lo scorso inverno rischiando di passare sotto silenzio. Neanche i subber, pensate, si sono adoperati troppo in fretta. Hanno caricato gli episodi in ritardo, in disordine, sapendo che li attendevamo in pochi. Ho scoperto Search Party in mancanza di qualcosa di meglio. La serie, ambientata in una New York che più indie non si può, prende avvio con le scomparsa di una ragazza, Chantal. Nei boschi viene ritrovato un suo indumento insanguinato. Ad arrovellarsi sulla sua sparizione, mentre la famiglia la piange già, una compagna di corso di nome Dory che l'ha ignorata platealmente in tutti gli anni di università. Come mai quella curiosità, quella preoccupazione, per il destino di una mezza sconosciuta? La protagonista, che si chiama come il pesciolino smemorato di Nemo, è convinta di averla vista a qualche giorno di distanza dal suo presunto omicidio. Chantal è viva, ma si nasconde. Da chi, e perché? Ci sono la Grande Mela alternativa di Girls e, su carta, la variante hipster della rimpianta Veronica Mars. L'improvvisata detective di cui ogni riccio è un capriccio coinvolge nella ricerca il fidanzato di lunga data, nuotatore allampanato e fedelissimo; l'esilarante e inaffidabile amico gay, uscito da un episodio di Will & Grace; la classica amica bionda e viziata che, pur senza un briciolo di talento, vorrebbe sfondare in un improbabile poliziesco per il piccolo schermo. La situazione si ingarbuglierà con la comparsa di un investigatore privato – terzo incomodo in un potenziale triangolo amoroso -, culti misteriosi e testimoni suicide. Per scoprire la verità: dieci puntate di venti minuti ognuna. Nel mentre: più di qualche sorriso, un rapporto di amore-odio verso l'altrimenti adorabile Sarah-Violet Bliss, un epilogo soddisfacente ma non troppo (una seconda stagione è stata già confermata, sempre in sordina). Search Party è un fumetto impensato e freschissimo. Pieno di misteri irrisolvibili e di presenze care a me, al Sundance e dintorni. (7+)

martedì 14 marzo 2017

Recensione a basso costo: In una sola persona, di John Irving

Sono i nostri desideri a plasmarci. In un minuto scarso di accese, inconfessabili fantasie ho desiderato di diventare scrittore e di fare sesso con Miss Frost, non necessariamente in quest'ordine.

Titolo: In una sola persona
Autore: John Irving
Editore: Rizzoli.
Prezzo: € 20,00 € 10,00
Numero di pagine: 552
Sinossi: Quando Billy, a tredici anni, entra per la prima volta nella biblioteca della sua cittadina del Vermont, è in cerca di libri su ragazzi che si sono presi "una cotta per la persona sbagliata": nel suo caso il futuro patrigno Richard, il crudele compagno di scuola Kittredge e la stessa bibliotecaria Miss Frost, statuaria, con le spalle larghe, i bicipiti robusti e un seno da adolescente. Figlio di un crittografo da cui la madre si era subito separata, cresciuto in una famiglia di uomini eccentrici e donne puritane, circondato da un cast di amici, amiche, amanti, travestiti, transgender che rifiutano di farsi incasellare in una categoria o in uno schema, Billy racconta oltre mezzo secolo di avventure tragicomiche alla ricerca di sé (e del padre). Attraverso le sue parole, John Irving mette in scena una toccante epopea sul terrore di essere diversi, sulla profonda verità delle passioni che ci abitano, sulla felice impossibilità di essere altro da sé.
                                          La recensione
L'incipit è mezza bellezza, ho scritto qualche giorno fa, postando una foto con le prime righe di In una sola persona. Se l'artefice è il magistrale John Irving, incrociato spesso al cinema – suoi, infatti, Le regole della casa del sidro e The Door in the Floor – e solo adesso in libreria, quanto di vero c'è nel luogo comune così caro ai lettori di ogni dove? Ho lasciato questo romanzo in attesa per un anno buono. Preso a metà prezzo tra i Remainders, aspettava me e il momento propizio. Il destino dei tomi corposi e dall'aria impegnativa, che incastro come posso nei rari giorni che si frappongono tra la fine della sessione invernale e l'inizio del secondo semestre. Quest'anno, però, di giorno ne ho avuto uno soltanto. E passando più tempo sull'autobus che a casa, come vi dicevo, temevo di aver fatto la scelta sbagliata. Le quasi seicento pagine di Irving erano la compagnia che volevo dopo una giornata di pasti veloci, ombrelli rotti e sbadigli nei quaderni? A sorpresa, non ne ho sentito il peso. Anzi, ho letto il romanzo in sei giorni, sulla scia di quell'inizio splendido, da manuale. Basta poco per capire i toni – tutt'altro che pruriginosi, ma senza peli sulla lingua – e l'affascinante mondo interiore del protagonista, Billy. 
La sua prima cotta, confessa, risale a quando aveva tredici anni. Allora sognò di diventare scrittore e di andare a letto con la chiacchierata Miss Frost, la bibliotecaria del suo paesello nel Vermont. Ad aprirgli le porte dell'ambizione e della modesta biblioteca comunale, il suo patrigno: un attore amatoriale che Billy guardò, per un certo periodo, con occhi adoranti. Infatuato anche del genitore acquisito, farà presto i conti con i suoi sentimenti e si angustierà con letture di intramontabili classici a tema: dalle sorelle Bronte a Flaubert, su consiglio di una bibliotecaria che ricorda la Fenech, esplorerà in lungo e in largo gli amori impossibili e le cotte per le persone sbagliate (sempre, appunto, che esistano). Billy cresce in una famiglia a metà, divisa tra donne bigotte – compresa una mamma amareggiata per via del dongiovanni che la sedusse e la abbandonò – e uomini sensibili, in pace con loro stessi. Un nonno tragicomico, ad esempio, che di giorno gestisce una segheria e la sera fa furore a teatro, en travesti. I seni posticci, i lustrini e le parrucche, però, rispondono alle esigenze di copione o a inclinazioni rinnegate, lasciate poi in eredità al nipote? 
Con l'ironia e l'eleganza di chi ci è già passato, il narratore si mette a nudo e tappa dopo tappa racconta disordinatamente la difficoltà dell'essere accettati e dell'accettarsi. Tra gli Stati Uniti e l'Europa più libertina, abbozzondo epitaffi per i caduti in Vietnam e per le innumerevoli vittime dell'Aids, In una sola persona racconta a distanza di sicurezza la sessualità e le disavventure di un accademico attratto parimenti dagli uomini e le donne, destinato a un mare più ampio in cui pescare e, per questo, a doppi dolori. A Billy piacciono le signore mature e i ragazzi vulnerabili. Perde l'innocenza con Miss Frost, divide il letto ora con la sua migliore amica Elaine e ora con il bisognoso Tom, si strugge appresso a un giovane lottatore (Kittredge, bullo conteso da tutte le sue compagne di corso) che renderà un inferno e un paradiso i suoi anni liceali. Le pagine di John Irving sprizzano intelligenza, tolleranza, armonia. Scorrono come fossero un film. S'intravedono i boa di piume, i reggiseni di pizzo sganciati con più di qualche difficoltà, le lenzuola sfatte in cui si sono rotolati gli atleti, le poetesse e le drag queen. La bisessualità è una leggenda? La teoria del gender è tabù? In una sola persona, paragonato al più noto Middlesex, è l'autobiografia fittizia di un romanziere settantenne, che si guarda alle spalle e fa una rocambolesca conta degli amanti, delle perdite, dei personaggi veri o presunti che l'hanno segnato. Il sesso è nella testa, suggerisce Irving, e non nel corpo, che a una certa età si risveglia a comando. Ognuno è a modo suo. Ognuno, in un mondo bello perché vario, è perfetto così. La vita è lunga per stabilire in anticipo chi diventerai. Forse troppo, per illuderti di trovare te stesso - e il dolce e il salato, e il sesso e l'amore - in una sola persona?
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Rocky Horror Picture Show – Don't Dream It

venerdì 10 marzo 2017

Recensione: Il viaggio di Caden, di Neal Shusterman

Laggiù è un viaggio senza fine. Non credere a chi ti dice il contrario.

Titolo: Il viaggio di Caden
Autore: Neal Shusterman
Editore: Hot Spot – Il Castoro
Numero di pagine: 294
Prezzo: € 16,50
Sinossi: Caden Bosch ha 15 anni ed è sempre stato un ragazzo estroverso, pieno di amici e di talento. Da qualche tempo però ha cominciato a sentirsi inquieto, a fare strani sogni e sentire sensazioni ossessive, maniacali, compulsive. Sempre più spesso si ritrova su un galeone che solca il mare alla volta della Fossa delle Marianne, tra tempeste e mostri marini che non riesce a controllare. Caden va in crisi, non distingue più reale e irreale. Da una parte si ritrova in ospedale, accanto al dottor Poirot e agli amici Hal, Carlyle, Skye e Callie. Dall’altra parte è combattuto tra la lealtà verso il capitano della nave e il fascino dell’ammutinamento. Il fondo della Fossa delle Marianne è sempre più vicino e Caden deve scegliere: lasciarsi andare o cominciare la risalita?

                                         La recensione
Caden, quindici anni, vive in un mondo pericoloso. I suoi genitori, impostori, non sono chi dicono di essere. I delfini disegnati sui muri della sorella minore hanno sorrisi minacciosi quando cala il buio. A scuola, nei corridoi, ci sono studenti che attentano alla sua vita e progettano massacri a mano armata. In realtà, la sua famiglia è piccola e fortunata; gli schizzi sulla carta da parati non hanno né sorrisi sghembi né una volontà propria; i compagni di liceo che tramerebbero complotti si limitano a incrociare il suo sguardo e a passare oltre. Caden progettava videogiochi con i suoi migliori amici, era uno studente piacente e brillante, aveva speranze e un perfetto equilibrio interiore. A un certo punto qualcosa nel suo cervello ha fatto crack. Un corto circuito, un allagamento. Un diluvio universale. I pensieri positivi, il raziocinio, non hanno avuto scampo. L'immaginazione ha rotto gli argini: i sogni straripano, così, e la lucidità annaspa. L'adolescente rischia la morte per annegamento, la pazzia. Il viaggio di Caden è un romanzo interamente ambientato nella sua testa. A pubblicarlo, l'interessantissima Hot Spot. 
A mostrarci come funziona – e cosa, soprattutto, non funziona – l'acclamato Neal Shusterman. Un autore che mi hanno consigliato spesso, in particolar modo per via della saga interrotta di Unwind, e leggendolo ho capito perché. Pane per i miei denti, lui, con una lingua originalissima e young adult insoliti A prima vista mi ha ricordato Patrick Ness: lo stile frammentario, le illustrazioni a china a bordo pagina, una penna che sa trasformarsi di storia in storia. La nota dell'autore, a fine romanzo, mi ha lasciato intuire quanto di vero ci sia nella sua spaventosa odissea interiore. Shusterman ha un figlio che ha mostrato forti segni di squilibrio ma che, per fortuna, è riuscito a stringere a sé l'ultimo pezzetto di cielo; un amico che, da giovane, perse ad armi impari la guerra contro il mal di vivere. Quanta sofferenza, quanto autobiografismo, dev'esserci dietro queste pagine. E quanta ricerca, quanta elaborazione. Me ne sono reso conto soltanto con il senno di poi. Ho letto i vaneggiamenti e gli squarci del Viaggio di Caden alla ricerca di un senso, se c'era. Lì per lì mi ha dato il mal di mare: esercizio di stile troppo cervellotico per i miei gusti. Dove inizia la realtà e dove finisce l'incubo? Cosa succede se la depressione è un vortice che ti tira giù, e tu non sai neanche nuotare? 
La schizofrenia, per un quindicenne, è un galeone su un oceano di mostri marini e insidie. Le pagine, che si rivelano essere piene di personaggi allegorici e doppi significati, si dividono tra terapie di gruppo e cospirazioni. Da una casa in cui i parenti sono percepiti alla stregua di alieni, Caden – d'un tratto un pericolo per se stesso e per gli altri – viene trasferito in un reparto psichiatrico. Dagli infermieri ai medici, dai compagni di stanza alle ragazze interrotte, ognuno trova una puntuale corrispondenza nei deliri privati del narratore. I suoi incubi, intanto, si intensificano. Hanno la meglio. La nave veleggia verso l'abisso, popolata da spettri e stranezze – romantiche gomene, cervelli in fuga, saltatori nel vuoto –, e la ciurma minaccia un ammutinamento in piena regola. Il capitano, che ha un nocciolo di pesca al posto dell'occhio, rischia di essere scalzato dal suo pappagallo parlante, passato dal trespolo alle cospirazioni shakespeariane. Personalmente non sono mai stato un amante dei mondi meravigliosi di Lewis Carroll, e qui spuntano le stesse filastrocche in rima baciata, gli stessi oggetti parlanti e, da lettore semplice e pragmatico, non ho avuto voglia di cercare chiavi di lettura sotto coperta né pozioni a poppa. Altrettano poco nelle mie corde, poi, le immagini marinaresche: ponderate e calzanti, in questo caso, ma con sedicenti Capitani Nemo e Moby Dick di cui ho patito la compagnia, ora come in passato. Che ruolo avrà il protagonista in quella desolante deriva? Si salverà dalle stanze con le pareti imbottite e, dunque, dalle angosciose profondità marine? Caden immagina di potere avvertire i pensieri di gente dall'altra parte del mondo. Si preoccupa di provocare terremoti in Cina, e controlla ossessivamente le news del giorno. Sente il suo corpo abbandonarlo, diventare quasi pura energia. Insieme a lui, come per osmosi, il periodare si fa più astratto e discontinuo. Surreale. E la potenza del flusso di coscienza, spesso, mi ha stancato e sopraffatto.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Green Day – Basket Case