Aspettavo
Donato Carrisi nel fitto del bosco, al varco. Nato in origine come sceneggiatura, il
best-seller che corteggiava i meccanismi dei thriller anni Novanta è diventato un film per mano del suo stesso
autore, qui atteso per la prova del nove. Assiepata dai paparazzi, l'immaginaria Avechot è una
fortezza in cui nessuno entra e nessuno esce. Sembra un indovinello,
quasi: chi ha rapito la sedicenne Mary Lou, così come trent'anni fa
ci si domandava che fine avesse fatto Laura Palmer. Il teatrale Toni
Servillo, a colloquio con lo psichiatra Jean Reno e la spietata
cronista Galatea Renzi – unica interprete femminile convincente, tocca ammetterlo, accanto all'irriconoscibile Scacchi –,
richiama i giornalisti in paese e gli spettatori in sala. Se l'agente
in questione è però un irresistibile sciacallo per cui la verità è un optional, l'indagine diventa una messa in scena:
caccia alle streghe ai danni del mite e intenso Alessio Boni, capro
espiatorio al posto sbagliato nel momento sbagliato. La
ragazza nella nebbia, nerissimo e verisimile, racconta un
voyeurismo all'estremo, le trasmissioni che investono sul dolore e le
ronde notturne, gli interrogatori a destra e a manca, che diventano presto coreografia a effetto. La morte si fa spettacolo al tempo dei
mass media. La suspance, in Italia, non è solo Dario Argento. Via le
soggettive e le mani che stringono coltelli. Via
il gore, i detective improvvisati, i finali semplici. Dato il
minutaggio, si sentiva forse la necessità di qualche sforbiciata qui
e lì – soprattutto per gli stilemi televisivi con cui
vengono introdotte le vicende di Boni –, ma le lungaggini di sorta
sono il peccato di vanità di un genitore che vuole troppo bene alla
sua creatura per cambiarla. Puntando sul fascino naturale delle
atmosfere, su un intrigo di punti di vista che convince più che su
carta, Carrisi svecchia il genere e lo riporta in sala. Con
l'accuratezza della scrittura che ho già ampiamente sperimentato in
passato – i backstage preferiti alla violenza della scena del
crimine, i colpi di scena ben ponderati. Con un gusto internazionale, già maturo, che si nota nella cura della messa in camera e nella varietà dei referenti (il rigore del
giallo scandinavo, ma anche l'umanità di Vinterberg). Strano ma vero: c'era bisogno della
nebbia, nel thriller all'italiana, per tornare a vedere la luce. (7+)
Siede
al solito posto. In vetrina, al tavolo in fondo. Distinto,
elegantissimo, con un misterioso taccuino davanti e una tazza di
caffè sempre piena. A ben vedere, questa volta, l'uomo – forse
Satana, forse un angelo custode – sembra diverso; ha lo sguardo
meno sornione di un silenzioso Valerio Mastandrea. Cambiano, anche se
di poco, gli scenari. L'insegna luminosa, il juke box nell'angolo che
suona Fausto Leali e Sunny, l'Italia fuori. Cambiano i volti –
di casa nostra, numerosi, eppure non ce n'è uno che appaia fuori
posto – che si avvicendano al tavolo, sebbene restino
sostanzialmente immutate le storie, i drammi, i desideri. Un Giallini in cagnesco vorrebbe riconquistare la fiducia del ribelle
Muccino, suor Rohrwacher cerca Dio ma incontra il non vedente Borghi,
Papaleo deve proteggere la bambina minacciata da Marchioni, la
Lazzarini mette bombe come cura per l'Alzheimer e l'infelice Puccini
fa scoppiare coppie in nome dell'egoismo e dell'amore. Al centro di
significativi siparietti, dietro il biancone, Sabrina Ferilli:
cameriera in bilico sui tacchi alti che, assieme allo spettatore, si
chiede chi sia, cosa faccia, quel genio della lampada in grado di
realizzare qualsiasi desiderio in cambio della tua anima. The Booth at the End, serie sperimentale che parlava di misfatti e
miracoli su sfondi fissi, scopre il cinema e la tentazione del
remake. Dopo i fasti di
Perfetti sconosciuti –
singolare colpo di genio, sospetteremmo col senno di poi –
un Genovese forse già a corto
di idee si affida alla
brillante idea di qualcun altro. Se le due stagioni con Xander
Berkeley avevano atmosfere accoglienti, familiari, il restauro poco
necessario di questa tavola calda ai confini della realtà la
mostra più fumosa, elegante, notturna. Non manca qualche nuovo
incastro, qualche nuova richiesta, qualche difetto – la meccanicità
delle dissolvenze in nero, nonostante la grande precisione della
regia, e l'utilizzo di una colonna sonora che vorrebbe enfatizzare
invano svolte ed emozioni. Per il resto, nessuna aggiunta sul menu.
Ogni azione ha pro e contro. Tutti, corruttibili nel profondo, un
prezzo da pagare. Ciascuna riproposizione tanto fedele all'originale,
tanto pedissequa, presentia i difetti soprattutto delle copie carbone che
funzionano, magari, ma non osano affatto. Attento a ciò che desideri,
si dice: potrebbe avverarsi. Attento alla ricerca di un cinema
eticamente impegnato, di uno spunto degno del successo di una
commedia nera fa: caro Genovese, potrebbe intrappolarti. (6,5)
Milton,
Giorgio, Fulvia. Il malinconico che parla l'inglese, il bello dai
pigiami di seta, la civetta che prima promette e poi si nega. Un
triangolo sentimentale in erba, accennato appena, nell'afa della
campagna torinese. La guerra all'improvviso, poi separarsi – non
per l'amore per Fulvia, ma per quello di Patria. Rivedere la casa in
cui si sono conosciuti, con i partigiani che inseguono i fascisti
nella nebbia delle Langhe, accende nel protagonista i ricordi.
E il dubbio. Giorgio e Fulvia si sono amati alle sue spalle? Si parte
alla ricerca dell'amico d'infanzia, caduto in mano alle camicie nere.
Liberarlo, o almeno tentare, in nome di una questione privata. Dopo
Shakespeare e Boccaccio, i Fratelli Taviani adattano Fenoglio: un
romanzo breve, irrisolto, postumo, sospeso nella bruma e
nell'incompiutezza di una pagina a metà. Trasposizione snella e
fedele, con microscopiche aggiunte da apprezzare e una corsa finale
che manca purtroppo dello slancio vitale, il dramma bellico dei
registi pisani – presentato prima a Toronto, poi a Roma – è
sommesso, intimo, lattiginoso. Troppo. I dialoghi teatrali si
susseguono meccanicamente, rigidamente. Mancano, nel finale
soprattutto, l'ardore, il tarlo che rode, la passione. Potremmo
chiederci dove sia il pathos, a questo punto, se soltanto la freddezza del tutto non
fosse un tentativo di rendere sul grande schermo la scrittura cruda e
secca di un narratore che non amava i fronzoli e il tanto rumore per
nulla. Dramma italiano inconsueto perché senza urla né lacrime,
originale cronaca di una guerra senza più sangue da mostrare, ha un
Marinelli dallo sguardo naturalmente malinconico e una
Bellè che ammicca svelando le mutandine sui rami dei ciliegi in
fiore. Accanto ai due, già insieme nel sopravvalutato Principe Libero, un
manipolo di volti da fiction – giovani, sbarbati: una generazione
perduta – per una guerra mostrata per vie traverse. Se ne
apprezzano, infatti, le sequenze liriche (la bambina che va a
dormire come se nulla fosse fra i cadaveri dei propri cari, l'assolo
del percussionista impazzito, l'esecuzione di Riccio). Più il taglio
stilistico (fotografia e scenografie, bellissime, e Somewhere
Over the Rainbow a fare da spettrare leitmotiv) che l'umanità.
Ripulita del sangue, del fango, della pioggia battente, la crociata
di Milton la si segue sì, ma senza entrarci mai per davvero. (6)
Cristiano
Caccamo e Salvatore Esposito, aspiranti attori a Berlino, decidono di
convolare a nozze. Il problema, annunciarlo a casa
durante le vacanze di Pasqua: in un sud Italia chiuso ai migranti e
al nuovo.
Facilissimo, infatti, vivere alla luce del sole nel capoluogo
tedesco; condividere un appartamentino con la Del Bufalo, spassosa
ereditiera, e un Abbrescia in transizione. L'outing è solo l'inizio,
se la mamma dal pugno di ferro di una strepitosa Monica Guerritore,
facendosi beffa dell'intolleranza del marito Abatantuono, sogna un
grosso grasso matrimonio gay. In un suggestivo borgo medievale, si
susseguono le vicende e gli sketch della godibilissima commedia di
Alessandro Genovese, sul delicato tema delle unioni civili.
Semiserio, buono di cuore e innegabilmente un po' buonista, Puoi
baciare lo sposo è nel suo
complesso ben recitato e diretto, con tanto di scena musical in
chiusura. Il difetto: una scrittura frettolosa, dalle idee non del
tutto sfruttate, che piace e diverte nonostante le sbavature a
un passo dal finale. Lì, in un epilogo troncato di netto, tutti i
limiti e l'inspiegata fretta dei suoi novanta minuti di durata. Lontano dalla
poesia di Mine Vaganti e,
con un sospiro di sollievo, dalle arie da cinepanettone mancato di
Io che amo solo te, il film a
tinte arcobaleno è meno sciocco di quanto appaia. Non così
disimpegnato negli intenti – lodevoli più in teoria che in
pratica – e popolato da allegre macchiette a cui, fra il boss di
Gomorra che scopre
l'autoironia e un conducente di autobus en travesti, si vuol bene a
prima vista. Sarà per questo – il romanticismo delle soggettive
iniziali, la spensieratezza diffusa a manciate generose – che è
purtroppo impossibile perdonargli l'amarezza lasciata dalla chiusa.
Coi fiori d'arancio e i confetti, noi preferivamo un'altra fetta di
dessert. Un'altra risata leggera leggera, prima dei titoli di coda.
(5,5)
Tra questi ho visto solo The Place. Un Genovese forse già a corto di idee... togliamo pure il forse, purtroppo. Film impeccabile, quanto del tutto inutile.
RispondiEliminaDopo aver sentito tanto parlare di questo Carrisi non Al Bano da te, questa ragazza nella nebbia presto o tardi dovrò vedermela. Per quanto si riesca a vedere, una ragazza nella nebbia. XD
Una questione privata, Fenoglio e i Taviani mi fanno già sbadigliare al solo nominarli. Non credo che Marinelli basterà per convincermi a guardarlo.
Puoi baciare lo sposo visto che da quanto dici non è così terribile come sembrava, magari lo posso recuperare. In mancanza di altro...
Recupera Carrisi e dicci. Nebbia o meno, è un bel vedere, per essere di un genere estraneo al nostro cineme e di un regista esordiente che la sa lunghissima...
EliminaPuoi baciare lo sposo, candido e un po' trash, non ti dispiacerà.
Bellissima sorpresa per me Carrisi, che non conoscevo e che ha confezionato un giallo classico ma moderno, e se ha convinto te -esperto- vuol dire che non ho sbagliato.
RispondiEliminaThe Place parte da ottimi spunti, ma per me resta fin troppo teatrale, e in un unico luogo non si sa come ben gestire lo sviluppo. Quegli stacchi, quei continui avvicendamenti, mi avevano stremato, e a distanza di mesi, gran poco è rimasto.
Tra i Taviani letterati e un Abatantuono caricatura, gli ultimi due titoli non mi avranno. Vado di pregiudizi :)
I Taviani letterati, con un non so che di francese, però sono così brevi, così autoriali, che nonostante tutto c'è del buono. :)
EliminaAmo il Carrisi scrittore e sono rimasta affascinata dal Carrisi regista. Il premio è stato supermeritato e spero sia il primo di una lunga serie :)
RispondiEliminaStringiamo le dita per lui.
EliminaBravo in tutto, senza un briciolo di invidia.
La ragazza nella nebbia e Una questione privata sono quelli che mi ispirano di più, sono contenta che abbiano raggiunto entrambi la tua sufficienza :D
RispondiEliminaAmmetto che sono tra quelli che considerano intoccabili i romanzi adattati, proprio no. :)
Eliminami sono ripromessa di vedere almeno tre di questi: in particolare carrisi perché lo amo come scrittore e son contenta che abbia avuto il David.
RispondiEliminaGenovesi mi incuriosisce, avendo apprezzato soprattutto Perfetti sconosciuti.
Da Puoi baciare lo sposo mi aspetto qualche sorriso, una commedia simpatica, vedremo.
Una questione privata non lo avevo molto preso in considerazione, son sincera, anche se marinelli mi piace tantissimo.. ;)
Spero di vederli presto :D
Passerò senz'altro a leggerti, Angela.
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