La
curiosità mancava. Questa fantascienza ad alto budget non mi
piace, e i seguiti fuori tempo massimo meno ancora. Del primo
capitolo, noir sui generis visto per dovere di cronaca anni fa,
ricordo la straordinaria colonna sonora e il celebre monologo sotto
la pioggia che, da profano, mi ero figurato più lungo. Per
fortuna, alla regia, quel Villeneuve che non sbaglia. Per
fortuna, in rete, amici blogger pronti a parlarne indistintamente bene – mezzo flop al botteghino, forse perché
troppo lungo, forse perché troppo serio, conquistava a sorpresa
anche gli scettici, gli spettatori più annoiabili e la maggioranza
dei nostalgici, fanatici per partito preso di un Ridley Scott
invecchiato ben peggio delle sue fantastiche creature. Ho
fatto di Blade Runner 2049 la
mia ultima visione dell'anno per scongiurare il rimpianto di essermi
perso qualcosa di importante; per un posto vacante a metà del
listone, accanto all'Arrival di un Villeneuve per questo doppiamente vincente. Pensavo di seguirlo
in comode rate;
pensavo di non stare al passo con un universo – cinematografico,
letterario – che mi risulta ostico. Gosling, replicante
di ultima generazione con il distintivo appuntato al bavero della
giacca a vento, ha il compito di mettersi sulle tracce dei suoi
vecchi simili, di disattivarli ammazzandoli – così comanda almeno Robin
Wright, suo superiore; così pretende, per interessi economici,
l'inventore cieco di un Jared Leto che gioca a fingersi Dio. La
scoperta di un cadavere, di un segreto sepolto: una replicante morta
di parto, per dire che le eccezioni esistono; per dire che quella
creatura venuta al mondo, braccata per diventare cavia, potrebbe
essere più di un robot, più di un uomo. Cos'è di quel bambino
trent'anni dopo? E di una coppia che si è sciolta tragicamente, con
lui – proprio Harrison Ford, richiamato all'appello tutto grigio e
spiegazzato – che ora vive nascosto in una Las Vegas deserta,
splendida e radioattiva? Gli uomini d'azione, anche se in definitiva all'azione si preferisce l'accomodante lentezza di certi polizieschi, si inseguono in lungo e in largo; indagano
rischiando di prendere troppo a cuore i loro casi (di coscienza). Ma
sono le donne, semisconosciute, a conquistare – l'implacabile
Sylvia Hoeks, la prostituta dalla chioma rosa di Mackenzie Davis e
l'incantevole ologramma di Ana de Armas, protagonista di un poetico
ménage à trois contro cui quasi nulla possono la spettacolarità
delle dighe straripanti, dei voli a mezz'aria, delle scenografie
ipnotiche. A
caccia di replicanti e della loro progenie segreta – un po' frutto
dell'amore, un po' dei calcoli della scienza – ci si scopre così incantati, emozionati. A caccia di sequel felici e di film da
guardare con occhi grandì così – che non siano poi miracolosi
come gli eredi di Deckard e Rachael, troppo perfetti per scoprirsi
anche densi, poco importa se al cospetto di un simile capolavoro
visivo – viene da dirlo ancora, sì. Ho
visto cose che. (7,5)

Christopher
Nolan non è mai entrato nelle mie grazie. Questione di generi
distanti che me lo lasciavano godere a metà. Di durate sostenute
che, nonostante i buoni propositi, mi hanno puntualmente impedito
revisioni con occhi più svegli. Non amo, si sa, un cinema grande che
non per forza è grande cinema; rifuggo dal gregge, dai commenti
mossi a priori. Di Christopher Nolan, purtroppo, non mi piacciono i
fan – quelli che parlano della persona in sé, delle mancate
vittorie agli Oscar come di un DiCaprio, lasciando da parte
l'essenziale. Loro – anche se di lampante c'è al solito la tecnica
sopraffina, l'impiego dell'angosciante colonna sonora del solito
Zimmer – probabilmente avrebbero acclamato questo Dunkirk,
già presentissimo all'alba della stagione dei premi, a prescindere. Sempre in tempo di bilanci, di listoni,
l'ho recuperato in ritardo – mai sentito il bisogno di correre in
sala, infatti – ma molto fiducioso. Questa volta durava un'ora e
quaranta appena. Questa volta meno garbugli, meno manierismi, se si
parlava di storie e di morti veri; di guerra. Cercavo uno dei film
più belli dello scorso 2017. Ho trovato, con sommo disappunto, il più
sopravvalutato. Cosa sto guardando io e cosa hanno visto tutti gli
altri?, mi domandavo nel mezzo di una visione che non
appassionava né interessava. Si combatte il nemico tedesco – mai
nominato e mai mostrato, per un'imperscrutabile scelta stilistica – in terra, in mare, in cielo. Confinati sulla
spiaggia, sullo sfondo del piano sequenza più struggente di
Espiazione,
un manipolo di giovani tenta invano di cercare una via di fuga – il
protagonista dovrebbe essere Fionn Whitehead, ma alla curiosità
piace soffermarsi sull'esordiente Harry Styler, da cantante ad attore
senza difficoltà. Con una barca da poco, invece, il patriottico Mark
Rylance e suo figlio superano la Manica per rendersi utili sotto il
fuoco nemico. Vola alto Tom Hardy, nascosto da una maschera, e fa
fuoco. C'è chi va, c'è chi viene, c'è chi spara. Storie che non si
incrociano come potrebbero, no, e che troppo concitate, troppo
motorie, fanno fatica a lasciarti affezionare ai protagonisti sotto
assedio. Dunkirk
non è un dramma corale, perché i personaggi non hanno un'identità
o una voce propria – quando e se parlano, in una pellicola che
forse avremmo preferito muta, l'ipocrisia e la retorica sono in agguato. E' un film storico, ma che alle storie
rinuncia – sequenze spettacolari ma giustapposte,
fredde, che potrei paragonare a quelle di una ricostruzione, di un
documentario, se non fosse che Dunkirk
e il suo rumore
non
fanno gran chiarezza nemmeno sui fatti, sulle dinamiche del
conflitto. L'ho trovato anonimo, disumano e impeccabile. Un film, e una
guerra, di nessuno. (5,5)