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lunedì 6 novembre 2023

Recensione: Le schegge, di Bret Easton Ellis

| Le schegge, di Bret Easton Ellis. Einaudi, € 23, pp. 752 |

Un telefono a disco squilla nel salotto di una villa con piscina. Scatta la segreteria. Dall'altra parte, qualcuno sospira. Il suo silenzio vibra di minacce. Lo hanno preceduto effrazioni, regali misteriosi, animali domestici sottratti. L'obiettivo finale sono i giovani padroni di casa. Il serial killer, soprannominato Il Pescatore a strascico, comporrà un mostruoso patchwork con i corpi smembrati. L'inizio è degno di uno slasher di Wes Craven. Il prosieguo, a metà tra teen drama e satira sociale, è un'indagine antropologica della “peggio gioventù” di Los Angeles. Correvano gli anni Ottanta. Una volta ottenuta la patente, gli adolescenti sgommavano lontani dai rigidi regolamenti delle loro scuole private e dai confini sicuri dell'infanzia. Meta: la perdizione. Quelli cantati nel girone dei dannati di Bret Easton Ellis sembrano sbucati da un dipinto di David Hockney. Dediti a edonismo e oppiacei, belli e ricchissimi, appaiono disinteressati a tutto. Non li sfiorano le nozze di Carlo e Diana, l'omicidio di John Lennon, la setta dei Cavalieri dell'oltretomba, le avance sessuali degli adulti. A turbarli, piuttosto, è l'arrivo di Robert Mallory. Chi cambierebbe mai scuola l'ultimo anno di liceo? Da dove viene quell'adone al contempo sensuale e candido, che minaccia di far scoppiare coppie storiche – Susan e Thom, il re e la reginetta della Buckley –, ma cela un passato di disturbi mentali?

Molti anni fa mi resi conto che un libro, un romanzo, è un sogno che chiede di essere scritto nello stesso modo in cui ci s'innamora di qualcuno: il sogno diventa irresistibile, non c'è niente che tu possa fare, e infine cedi e soccombi anche se il tuo istinto ti dice di battertela a gambe perché potrebbe trattarsi, dopotutto, di un gioco pericoloso – in cui qualcuno probabilmente si farà male.

Da sopra gli occhiali da sole lo studia lo stesso Ellis; gli occhi appannati per la brama e il Valium. Segretamente omosessuale, benché fidanzato con la figlia di un famoso produttore cinematografico, l'autore sperimenta una dolorosa attrazione verso l'ultimo arrivato in città. E ne fa, presto, la sua ossessione. Il trasferimento di Robert coinciderà con un'ondata di follia lunga l'intero anno scolastico. È realmente lui il responsabile della rete di delitti che si stringe sempre più intorno agli amici di Bret? O la sua colpa più imperdonabile è quella di aver infranto il sogno di illusoria perfezione dei protagonisti, ponendo freno a un'estate creduta, a torto, senza fine? Tutti hanno un segreto. Tutti stalkerizzano tutti. In settecento pagine, a momenti alterni, tutti saranno vittime e carnefici; intrusi e perseguitati. A quarant'anni di distanza dai tragici eventi del 1981, l'autore sfida il disturbo post-traumatico da stress e sfoglia a ritroso un annuario dalla nutrita sezione in memoriam. Questa è una storia vera. O quasi.

Voi tutti non fate altro che proteggervi a vicenda. Da cosa? Dalla realtà.

Irresistibile nella sua inattendibilità, Ellis è ammicca furbamente ai temi caldi dei social: la retromania, l'autofiction, il true crime, il queerbaiting. Prende i tormentoni contemporanei e, all'apparenza, li sconsacra. Ma, a dispetto del cinismo diffuso – la dedica del romanzo recita proprio: A nessuno –, ci restituisce la rievocazione più verosimile e accorata di una generazione, di un mondo, a un passo dall'annientamento. Le schegge è un elettrizzante incubo vestito Ralph Lauren in cui il sangue e lo sperma, le paranoie e le prurigini occultano la nostalgia per un inconfessato primo amore. Lettore e cinefilo instancabile, il giovane Bret guardava il mondo con il voyeurismo compulsivo tipico degli scrittori. La sua futura professione lo rendeva attento già allora. Lo rendeva già bugiardo. Fermo al tempo dei suoi sconsiderati sedici anni, firma un thriller tanto spaventoso quanto eccitante – di quelli da leggere con la luce accesa, e con un'erezione prepotente nei boxer. Ma anche un sorprendente amarcord sull'impossibilità di risolvere il giallo di Robert Mallory, quando si è ancora intimamente irrisolti come adulti. Cosa resterà di quegli anni Ottanta? La voglia di vivere, amplificata a dismisura dalla paura di morire. Le schegge di un trip stupefacente, da cui sarà amaro svegliarsi soltanto per poi scoprirsi casti, invecchiati, sobri.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Ultravox – Vienna

mercoledì 20 maggio 2020

Se ne parlano tutti ci sarà un perché: Normal People | Little Fires Everywhere | Hollywood

Qual era il segreto del bestseller sulla bocca di tutti, che nel giro di un anno si è trasformato con geometrica precisione nella miniserie di cui tutti parlano? La giovane Sally Rooney, autrice destinata a dividere e a far chiacchierare, a ben vedere ha un titolo bugiardo. Di normale, infatti, questi Connell e Marianne non hanno niente. La trasposizione Hulu mette in scena l’eccezionalità. Dei baci umidi e dei corpi aggrovigliati. Di interpreti esordienti così naturali da confondersi con i personaggi di finzione. Degli amori ottusi che non sanno dichiararsi per paura delle etichette. Romanticissimo, struggente, per me destinato a diventare un cult generazionale, Normal People trova sul piccolo schermo i toni sommessi del cinema indie e una macchina da presa – per metà della durata è quella di Lenny Abrahmson – che respira addosso ai protagonisti, tanto sono indagatori i primi piani. Il romanzo mi è piaciuto, ma la miniserie molto di più. Lei, pallida e minuta, ostenta forza e sicurezza: ha paura di essere amata. Lui si sbottona di rado, risponde laconicamente, e ogni gesto smentisce il suo corpo muscolosissimo: non è forte come appare. L’uno alla mercé dell’altra, si influenzano, si prendono, si lasciano. Si rincorrono. Complicatissimi, sempre litigati e spesso nudi, Paul Mescal e Daisy Edgar-Jones – lui spigolosissimo,  lei un incrocio tra Anne Hathaway e Alicia Vikander destinato a fare innamorare – parlano con gli occhi e con i silenzi. Al liceo, all’università, su Skype. Li guardi, e davanti alle frequenti scene di passione ti sorprendi a non provare mera eccitazione sessuale, ma un’invidia profonda per la bellezza che sprigionano. Come faranno mai? Cronaca straordinaria di un amore ordinario, Normal People rivive in tutta la sua piccola epicità in una produzione così compiuta e perfetta da sembrare un’epopea dei giorni nostri. Al tempo dell’Interrail, dell’Erasmus, della friendzone, dei social network. Parlerà anche a chi è fuori target. Purché abbia ancora un animo fragile e irrequieto. Purché, in nome dell’empatia, sia disposto a farsi stracciare il cuore in minuscoli frammenti soffiati poi nei cieli d’Irlanda. (8,5)

Villette a schiera, conflitti generazionali, segreti. Ricordando sin da premesse le ambientazioni di Desperate Housewives, il secondo romanzo di Celest Ng non poteva che prestarsi meravigliosamente a una trasposizione televisiva. Leggendolo ne avevo intuito pregi e limiti nonostante l’uso magistrale dei diversi punti di vista. Ma il finale annunciato sin dal prologo, il troppo spazio dato agli adolescenti rispetto alle figure genitoriali e qualche cliché di troppo nel descrivere la perfezione della famiglia Richardson mi avevano fatto storcere il naso. La serie, in arrivo su Amazon Prime Video nei prossimi giorni, è la gradita riconferma della qualità delle proposte Hulu. Ancora una volta, un’eccezione alla regola che prende il materiale di partenza e lo migliora, quasi sulla base dei dubbi sollevati nella mia recensione. La trama, in realtà, è fedelissima. In un quartiere residenziale arrivano una fotografa girovaga e la figlia adolescente a seminare zizzania. Come reagiranno gli abitanti, se l’ultima arrivata esercita un magnetismo inspiegabile? Restano i bracci di ferro, i ritratti incandescenti di due – anzi tre – maternità agli antipodi, i tratti peculiari che rendevano i personaggi già vividissimi su carta. Ma la serie approfondisce con i salti temporali e con le aggiunte a margine, indicando un nuovo responsabile per gli incendi del titolo e regalando alla prezzemolina Reese Whiterspoon l’ennesimo ruolo da premiare: molto più della classica mamma chioccia a cui ci ha abituati, garantisce al suo personaggio momenti di vulnerabilità nei lunghi flashback e nel vagheggiamento di una relazione adulterina. La sua vita idilliaca è stata costruita su una (non) scelta. Agli antipodi del ring abbiamo Kerry Washington: elemento perturbante che, sarà per l’antipatia del ruolo, sarà per un eccesso di smorfie e grugni incolleriti, si lascia però rubare la scena dal personaggio all’apparenza più convenzionale. Non è tutto oro quel che luccica. La confezione, a ben vedere, a volte è sin troppo televisiva e laccata. Il già visto, me ne accorgo anche scrivendone, è di casa. Ma se la carne è tanta, se lo scontro tra prime donne solleva tutt’intorno fumo e scintille, come non lasciarsi incuriosire dallo spettacolo distruttivo ma rigenerante del fuoco vivo? (7+)

Nel 1932 una giovane, tagliata fuori da un film, si suicida gettandosi dall’insegna iconica che sormonta le colline di Hollywood. Si chiamava Peg. La sua storia, verissima, è purtroppo comune a tanti giovani che non ce l’hanno fatta. Nell’immediato dopoguerra un regista decide di ricordarla con un esordio alla regia che punta a rivoluzionare il mondo dell’intrattenimento: della troupe faranno parte uno sceneggiatore afroamericano e omosessuale, una protagonista di colore, un protagonista che sbarcava il lunario come gigolò, una produttrice all’improvviso ai vertici del potere. Non aspettatevi una serie verità. Pur mostrando i retroscena più sordidi, pur mescolando personaggi fittizi a personaggi reali, l’ultima fatica dell’inarrestabile Ryan Murphy è ciò che il sopravvalutato C’era una volta a Hollywood è stato per Quentin Tarantino: un’utopia in cui celebrare le diversità, i finali lieti, le svolte alternative. Quanta ricchezza hanno apportato al cinema le minoranze etniche, la comunità LGBTQ, l’intuito femminile? Il solito Murphy, con un’anima queer, colorata e sognante, si circonda di un cast di bellissimi – il lato estetico, inutile negarlo, ha la meglio sul talento effettivo: David Corenswet e Laura Harrier sono tanto attraenti quanto pessimi, mentre Darren Criss e Samara Weaving appaiono poco sfruttati –, e lascia ai comprimari della vecchia guardia – gli straordinari LuPone e Mantello, uno sorprendente McDermott e infine Parsons, che s’impegna invano per liberarsi dalla macchietta Sheldon Cooper – il compito di distrarci dagli inciampi dei giovanissimi con il loro sfavillio. In questa Los Angeles femminista, multietnica e gay friendly il buonismo è sempre dietro l’angolo, ma lo si tiene a bada fino a un finale smaccatamente lieto: a malincuore, la parte peggiore. Nel sogno di Murphy, eppure, c’è una poesia particolarmente commovente; un antidoto contro il cinismo dei tempi correnti che non riesce a fronteggiare purtroppo gli eccessi delle pubblicità progresso. Nel tentativo di preservare la purezza di Rock Hudson – un simbolo, così come Sharton Tate lo fu per Tarantino –, Hollywood spicca il volo per l’iperuranio e perde qualsiasi attinenza con il reale. La favola, invece, piace quando ci appare plausibile: una speranza a portata di mano. Di ritorno da questo mondo che non c’è, e che forse non c’è mai stato, sentirete comunque nostalgia. (7)