martedì 7 ottobre 2025

Recensione: Le notti di Salem, di Stephen King

| Le notti di Salem, di Stephen King. Sperling & Kupfer, € 14, pp. 656 |

Per un lungo periodo della mia vita — tra la fine delle elementari e il liceo —non ho letto altro che Stephen King. Nella mia vecchia camera, sul letto, ho una mensola con schierati tutti i suoi romanzi più famosi. Anzi: avevo. Quest'estate ho riposto tutte le mie cose, smantellando scaffali e ricordi, per l'imminente trasloco di papà. La mia adolescenza è in un garage — materiale fragile, maneggiare con cura. Ma ho voluto sottrarne una piccola parte, tenendo fuori dagli scatoloni uno dei pochi classici finora mai affrontati: Le notti di Salem. Tra incanto e terrore, proprio come accadeva da ragazzino, ho realizzato che il me adolescente non sbagliava: Stephen King resta il più grande narratore sulla faccia della terra.

Ogni notte bisogna combattere la stessa battaglia e l'unica cura è l'inevitabile atrofizzazione delle facoltà immaginative, quell'evoluzione che si chiama età adulta.

Scritto sul finire degli anni Settanta, il romanzo è cinema allo stato puro. Benché lontano dall'introspezione di It, contiene già traccia del capolavoro che arriverà qualche anno dopo. Anche qui abbiamo una cittadina immaginaria dove i fantasmi del Vietnam, gli scandali e i segreti affollano le confessioni più nere dei parrocchiani. Anche qui abbiamo un ritorno a casa, alle origini del male, e un gruppo di eroi coraggiosi — accanto a Ben, scrittore in cerca di ispirazione, ci sono un professore a un passo dalla pensione e un piccolo boyscot ossessionato da Houdini. Le assi scricchiolano. Le porte cigolano. Le risate argentine dei bambini ghiacciano il sangue nel cuore della notte. Su tutto e tutti, ritta su un poggio come un dio crudele, domina Casa Marsten: teatro di un misterioso omicidio-suicidio dopo la crisi di Wall Street, attira puntualmente uomini malvagi e, questa volta, diventerà testimone di una mattanza senza pari. Sopravvivranno in pochi.

L'oscurità è quando i mostri ti prendono.

Chi sono gli ultimi arrivati, Staker e Barlow, e cosa contengono quelle casse polverose portate dall'Inghilterra? Che fine hanno fatto i fratelli Glick e perché i cadaveri fuggono via dall'obitorio, tenendo in scacco il borgo? Con un montaggio alternato degno dei maestri del cinema, King segue la lotta alla sopravvivenza dei suoi protagonisti dal tramonto all'alba. Ogni scena è sezionata con attenzione autoptica. Ogni personaggio, perfino il più dimenticabile, ha un background indagato nel dettaglio. I ritmi sono implacabili. Ma è nelle lunghe sequenze corali — le migliori — che King sfoggia tutto il talento di cui è capace, spostandosi in volo da una casa all'altra di Lot. Viene fuori, così, il ritratto oscuro di una America provinciale e perbenista, dove gli eredi di Dracula troverebbero tutt'ora terreno fertile. Tra acqua santa, aglio e paletti, King si diverte come un bambino dispettoso. E cinquant'anni dopo non smette di divertirci, con l'omaggio a Bram Stoker che esisteva — e mordeva — prima di Netfix, prima del binge watching, prima dei remake.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Dead Can Dance – The Host of Seraphim

martedì 30 settembre 2025

Recensione: Mysterious Skin, di Scott Heim

| Mysterious Skin, di Scott Heim. Playground, € 18, pp. 272 |

È possibile raccontare l'indicibile? Scott Heim — autore di culto, nonostante due soli romanzi all'attivo — non conosce tabù. Impavido, chirurgico, cinematografico, affronta a testa alta i trigger warning più destabilizzanti e reinventa il lessico del dolore in una storia che mostra due risposte diverse al medesimo trauma. Il cammino dell'elaborazione non è lineare. Ma lungo, dissestato, tortuoso. Qualcosa di terribile ha segnato per sempre l'infanzia di Brian e Neil. A Hutchinson, Kansas, giocavano nella stessa squadra di baseball. Come si è evoluta la loro sessualità? Quali risposte si sono dati per giustificare le famiglie disfunzionali, i ricordi inaffidabili, le esistente condannate a un eterno limbo? Brian soffre di epistassi e di vuoti di memoria. Fragile e ingenuo, consuma storie di fantascienza da quando ha visto qualcosa di misterioso fluttuare su un campo di cocomeri. Gli alieni esistono e, forse, lo hanno rapito quando aveva otto anni. Neil, da sempre più spregiudicato, ha presto imparato che il sesso è un'arma a doppio taglio — e lui la impugna dalla parte del manico.

A dodici anni avevo visto più tornado che gocce di sangue. Il suo rosso sembrava magnifico e sacro, come un rubino fatto a pezzi.

Sconsigliato ai lettori facilmente impressionabili, Mysterious Skin — diventato anche un film diretto da Gregg Araki — mette subito alla prova con tematiche scabrose e descrizioni di una violenza grafica. Provoca, scoraggia: è un fiume nero, torbido e pericoloso, che non sarà semplice guadare. Ma, dopo un impatto inizialmente scioccante, si apre a una polifonia di voci in cerca di speranza. E si trasforma in un trattato di psicologia, in un giallo, sul più grande dei misteri: la rimozione. I protagonisti hanno dimenticato il passato, ma i loro corpi ricordano — la luce blu di un portico, i lividi, la piovosa estate del 1981. Non tutti i punti di vista appaiono sempre funzionali alla narrazione e, a tratti, l'intensità rischia di disperdersi: sin dall'inizio, infatti, noi lettori sappiamo quanto accaduto. Aspettiamo così che i protagonisti scavino tra le macerie dell'infanzia, che maturino finalmente nuove consapevolezze, in un romanzo che oggi nessuno avrebbe osato né scrivere né pubblicare. Un oggetto non identificato. Una carogna da cui, nonostante le avvertenze di mamma e papà, non riesci a distogliere lo sguardo. 

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Radiohead - How to Disappear Completely

martedì 23 settembre 2025

Recensione: Raccontami tutto, di Elizabeth Strout

| Raccontami tutto, di Elizabeth Strout. Einaudi, € 19, pp. 288 |

È destino. Torniamo spesso dove siamo stati bene. E così, dopo qualche anno di lontananza, sono tornato a perdermi nelle storie della bravissima Elizabeth Strout. A Crosby, Maine: una cittadina vista mare, dove tutti conoscono tutti e i personaggi dell'autrice sono soliti incontrarsi. Come parte di un grande universo espanso, i protagonisti dei suoi più grandi successi — Olive Kitteridge, Mi chiamo Lucy Barton, I ragazzi Burgess — si incrociano in un romanzo che farà la gioia di tutti i lettori della prima ora, senza però scoraggiare gli ultimi arrivati. Nonostante sia consigliabile già conoscerli, niente paura: Raccontami tutto non è un romanzo di trame intricate ed eventi spiazzanti, ma un gioiello che brilla della quieta semplicità della provincia.

Olive tacque un bel po'. Poi disse, in tono pensoso: “Strambo, no, il mondo in cui viviamo? Per anni mi sono detta: Mi mancherà questo quando muoio. Ma per come va il mondo di questi tempi, certe volte penso che sarò ben contenta di essere morta”. E rimase seduta in silenzio a guardare fuori al parabrezza. “Invece mi mancherà lo stesso”, disse.

Qual è il senso della vita di noi persone normali? Sembrano chiederselo tutti, mentre Crosby si veste dei colori autunnali e qualcuno si trasferisce lì per sfuggire al Covid. Lucy, la scrittrice arrivata da New York, cerca idee per il prossimo romanzo dopo avere raccontato di un'infanzia infelice e di un matrimonio burrascoso. La sua migliore interlocutrice? L'indimenticabile Olive, novantenne due volte vedova, che ora vive in una casa di riposo e ha imparato a smussare un po' il suo caratteraccio. Accanto a loro, Bob: il mio nuovo personaggio preferito. Penalista in pensione, qui fa i conti con il mistero della morte del padre, la vedovanza del fratello maggiore, la scomparsa di un'anziana il cui figlio è il principale indagato. Soprattutto, con la cotta per Lucy: entrambi sessantenni, sposati ma un po' in crisi, condividono lunghe passeggiate sul fiume in una storia d'amore tenera come poche, ma destinata a rimanere platonica.

Quando arrivarono alle macchine, Bob spalancò le braccia e disse: “Ti abbraccio, Lucy”. E lei spalancando le braccia disse: “Anch'io, Bob.” Ma non si abbracciarono.

L'autrice Premio Pulitzer, questa volta alle prese anche con un giallo, intreccia con eleganza e levità vicende su vicende. Reduci dalla pandemia, i suoi protagonisti rifuggono l'isolamento e amano essere ascoltati. Condividono così «storie di solitudine e amore, e dei piccolissimi legami che stringiamo nel mondo», in una lettura in cui il superpotere dell'empatia ti invoglia a conoscerli come le tue stesse tasche. E a rimandare il più a lungo possibile il momento del congedo. Perché Raccontami tutto – con le sue “vite ignorate” alle prese con la malattia, il tradimento, l'abuso, la povertà – rende felicissimi. L'esistenza va avanti. La natura segue il solito ciclo. I cuori, perfino quelli infranti, continuano a battere. È la forza delle vita. Ed è in questa umanità ordinaria, ma assolutamente incantevole e ostinata, che risiede la magia di Elizabeth Strout.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Birdy – People Help the People

martedì 16 settembre 2025

Halloween in anticipo: Weapons | Bring Her Back | 28 anni dopo | So cosa hai fatto | Heretic

Era stato etichettato come l'horror dell'anno ancora prima di arrivare al cinema. Al battage pubblicitario, poi, si sono aggiunti gli incassi: sorprendenti, soprattutto in estate. Che fine hanno fatto diciassette bambini scomparsi nel cuore della notte? Per venire a capo del mistero, Cregger confeziona un film a capitoli, lungo e ambizioso, in cui punti di vista diversi si intrecciano in preparazione del finale: intrattenente, ma al di sotto delle aspettative. Servivano due ore che oscillano dal mystery al grottesco fino allo splatter più puro? Serviva una struttura-puzzle che poco spiega dei personaggi e troppo a lungo maschera, rimanda, dissimula una verità soprannaturale? Più derivativo del previsto — una versione blockbuster di Longlegs, con cenni a Stephen King —, Weapons punta all'iconicità con le sue corse a braccia larghe e le apparizioni terrificanti di zia Gladys. Ma si limita a riproporre in chiave contemporanea le fiabe più oscure dei Grimm, trasformando in una folle corsa a zig-zag un cammino altrimenti linearissimo. Qualcuno si sentirà preso in giro. Qualcuno, invece, si divertirà. Io, nel mezzo, aspetto Together — e mi tengo stretti gli altri film del post. (6,5)

L'horror è il genere che meglio si presta a cambiare pelle. A tormentare. A sviscerare ciò che fa più male. È il caso di Bring Her Back, ritorno alla regia del duo di Talk to Me, che attraverso una trama archetipica — due fratellastri ospiti di una strega cattiva — fruga nelle viscere degli abusi familiari, della disabilità, del trauma, del lutto. Scritto come una fiaba nera, lascia i protagonisti in balia di Sally Hawkins. Sottovalutissima, regala un'interpretazione destinata a trasformarla in una delle villain più memorabili del cinema recente. Coi suoi rituali, con le sue videocassette sgranate, fa una paura matta. E spezza il cuore, in un film dove il sangue — copioso, forse inutilmente — è un inganno per inchiodarci a una parabola alla Hereditary sull'insostenibilità di certe perdite. Non esiste un termine per definire una madre che ha seppellito la propria figlia. Ed è proprio in questo vuoto lessicale che l’horror affonda le mani. Allora non resta che affidarsi al cinema di genere, alla magia nera, per dare una forma — per quanto mostruosa — a tutto ciò che il dolore rende contro natura. (8)

Può un film pieno di morti essere un inno alla vita? Me lo chiedevo l'anno scorso, davanti al prequel di A Quiet Place. L'interrogativo, insieme alla commozione, mi ha seguito anche in 28 anni dopo. Il Regno Unito continua a essere il focolaio di un contagio. I protagonisti utilizzano la terraferma come terreno di ricognizione. Ci sono un padre col complesso dell'eroe (Taylor-Johnson, di nuovo con arco e frecce), una mamma malata (Comer: da nomination) e, soprattutto, un dodicenne contro le regole (l'esordiente Williams, straordinario). Garland stupisce con un romanzo di formazione sanguinoso ma delicatissimo, dove abbondano i cenni alla contemporaneità — il Covid e la Brexit, la mascolinità tossica e l'eutanasia — e Boyle può ricordarci di essere tra i più grandi registi viventi. Tornato alla regia della serie, alterna una prima parte iperviolenta a un prosieguo dal lirismo struggente, dove la vita si annida dappertutto e le ossa impilate ci ricordano che la morte e l'amore, forse, non sono che due teschi della stessa medaglia. (7,5)

Da adolescente, a torto, l'ho sempre trovato la copia sbiadita della saga di Scream. Il tempo mi ha dato torto. A sorpresa, So cosa hai fatto è invecchiato meglio del previsto, e quello arrivato al cinema a metà luglio — a cavallo tra sequel e remake — è un ritorno alle origini che ho trovato delizioso. Il merito spetta a una scrittura fresca e genuinamente divertita, che dialoga con le commedie splatter e omaggia le atmosfere anni Novanta senza però scordare i colpi di scena. Il nuovo cast, in cui brilla l'esilarante Madelyn Cline, si muove sulla vecchia scena del crimine. Tornano i superstiti dell'originale — iconico il cameo di Sarah Michelle Gellar —, ma in un film dove il passato torna a mietere vittime non c'è troppo spazio per la nostalgia. I ricordi ci ammazzeranno tutti. Per fortuna, quelli del film di Jennifer Kaytin Robinson ci hanno salvato dalla noia delle uscite in sala. Da vedere possibilmente al cinema, tra i risolini delle ragazzine e gli avanzi di popcorn. (7)

L'incipit: tra i più classici. Due ragazze giovani e belle bussano alla porta di un uomo misterioso in un giorno di pioggia. Potrebbe essere il prologo di uno dei tanti torture porn. Heretic, invece, è un horror psicologico arguto, cerebrale, originalissimo. Sophie Tatcher e Chloe East sono una coppia di missionarie e Hugh Grant, qui nel ruolo di uno dei villain più memorabili degli ultimi anni, è un padrone di casa che le costringe a un sadico gioco di ruolo. Ai fiumi di sangue, i registi Scott Beck e Bryan Woods preferiscono quelli di parole. Pur non disdegnando scantinati oscuri e stilettate, curano un gioiello dalle atmosfere teatrali e dalle riflessioni caustiche. Il loro film – frutto di dieci anni di lavoro – sintetizza le contraddizioni delle tre grandi religioni monoteiste come un piccolo manuale di teologia, e ci dice che il cristianesimo è solo la copia di mille riassunti. Quale sarà il prossimo aggiornamento? Chi saluteremo come nuovo Messia? Io ho fede in A24. E nell'horror come metafora massima della vita, della morte e di ciò che, sfuggente, c'è nel mezzo. (7,5)

martedì 9 settembre 2025

Recensione: L'imperatore della gioia, di Ocean Vuong

| L'imperatore della gioia, di Ocean Vuong. Guanda, € 20, pp. 432 |

È considerato una delle voci più significative della sua generazione. Classe 1988, origini vietnamite, si muove con successo tra prosa e poesia. Tutti scrivono di lui — da Oprah a Bjork. Il suo secondo romanzo, però, è molto diverso da come ce lo raccontano oltreoceano. Presentato come un'avventura alla Mark Twain, potrebbe deludere chi confidava in un'epopea densa e rocambolesca. La trama, essenziale, racconta le gioie e i dolori del giovane Hai: alter-ego dell'autore, ha sviluppato una dipendenza dai farmaci e dalle bugie. Mentre pensa di togliersi la vita, lo salva Grazina: ottant'anni, ha bisogno di un infermiere per fronteggiare la demenza e i flashback di una Lituania sotto assedio, divisa tra Hiltler e Lenin.

Il superpotere dell'essere giovani consiste nel fatto che sei più vicino al non essere nulla – e quando sei molto vecchio è la stessa cosa.

Vuong descrive la loro improbabile convivenza, ma anche la routine tragicomica del ristorante in cui Hai lavora part-time. L'HomeMarket potrebbe essere il set di una sit-com. Popolato da personaggi ai margini — prostitute, reduci, eroinomani —, offre cornbread di una bontà leggendaria e un cast di comprimari adorabili. BJ (la manager wrestler), Maureen (rettiliana convinta) e Sony (cugino Asperger con il pallino per la guerra civile) sono gli ingranaggi di un microcosmo umile e dignitoso che diventa emblema del sogno americano. Troppo lirico e frammentario per i miei gusti, ma ispiratissimo, Vuong ha lo sguardo empatico del cinema di Sean Baker.

Le parole sono incantesimi. In quanto scrittore, dovresti saperlo. È per questo, Labas, che si dice “fare lo spelling”, da spell, incantesimo.

Scrive così una fiaba su un battaglione di diseredati — i personaggi sono tutti immigrati, fragili, abbandonati —, che nell'America di Obama porta avanti le speranze delle generazione precedente. Era il 2009, e tutto sembrava possibile: soprattutto reclamare appartenenza. Benché politico e saldamente ancorato al reale, L'imperatore della gioia ha la grazie necessaria per conferire una dimensione favolistica al dramma dell'emarginazione. East Gladness, Connecticut, è un luogo ai confini della realtà in cui l'inverno è lungo sette mesi, la brina ricopre ogni superficie e il fiume gorgoglia inquinamento. Lì, in una baracca sull'argine, è possibile imparare dal nuovo la gentilezza, la collaborazione, la fiducia nel progresso umano. Il segreto, direbbe Grazina, è abbuffarsi di carote: ci vogliono vitamine — e piccoli eroi di questi — per prevenire la tristezza.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Stonemilker - Bjork

lunedì 1 settembre 2025

Recensione: Il Nix, di Nathan Hill

| Il Nix, di Nathan Hill. Bur, € 17, pp. 768 |

Secondo David Foster Wallace, tutte le storie d'amore sono storie di fantasmi. E quelle di famiglia, invece? Per la seconda estate consecutiva, mi sono regalato la lettura di un romanzo-mondo di Nathan Hill. Anche questa volta, un'epopea varia e giocosa, tentecolare e ambiziosissima, sulla vita vera e immaginaria di due generazioni a confronto. Senza sorprese, l'autore di Wellness fa ancora centro — anzi, lo aveva già fatto un decennio fa: Il nix è il suo esordio. Subito opzionato per una serie TV con Meryl Streep, purtroppo mai andata in porto, parte dall'aggressione all'aspirante presidente degli Stari Uniti. Cosa ha spinto una pensionata con un passato da sessantottina a lanciare sassi contro l'alter-ego di Trump?

Se non hai paura, non è un vero cambiamento.

A tentare di scrivere la biografia della terrorista di cui tutti parlano è Samuel, professore sull'orlo del licenziamento: Faye è la madre che l'ha abbandonato. È possibile perdonare ciò che scoprirà? O è proprio in quella conoscenza che si nasconde un’occasione di trasformazione? È così che il romanzo si apre, si espande, si moltiplica. Con invidiabile intelligenza, Hill ci guida tra linee temporali che si rincorrono, cambi di prospettiva, rimpianti a confronto. C’è l’infanzia di Samuel, segnata dall’incontro ambiguo con l'amico Bishop e dalla presenza di Bethany, la gemella violinista. C’è poi l’adolescenza di Faye, tra l’assassinio di Martin Luther King e un poligono sentimentale bruciato tra poesie di Ginsberg e lacrimogeni. Ma prima ancora c’è lui, nonno Frank: un immigrato norvegese che produce napalm, ma rimpiange una casa color salmone affacciata sui fiordi. È da lui che arriva la leggenda del titolo: il nix è uno spirito mutevole, che si manifesta sotto forma di ciò che desideri di più — ma solo per colpirti dove sei più vulnerabile.

Forse accanto al mondo reale c'era questa fantasia, quest'altra vita in cui aveva ereditato la fattoria color salmone. A volte queste fantasie possono essere più persuasive della vita vera, Faye lo sa. Una cosa non è necessario che accada perché sia vera.

Si viaggia dai videogiochi di ruolo ai libri-game, dai beatnik ai gamer, dal Vietnam all'Iraq. Ogni generazione ha il suo linguaggio, i suoi traumi, le sue rivoluzioni. Ma l'America di Hill, oggi, è un paese in cancrena, dove perfino la politica è un’operazione di marketing e il cinismo appare l’unica via di fuga. Eppure il suo è un debutto che vibra di rivoluzione, attraversato dalla consapevolezza che anche la rabbia, la disillusione, la paura siano scosse. Perché niente cambia senza crisi. E nessuna generazione si salva da sola.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: The Beatles - Come Together

mercoledì 30 luglio 2025

Recensione: La mia ultima storia per te, di Sofia Assante

| La mia ultima storia per te, di Sofia Assente. Mondadori, € 20, pp. 384 |

Com'eravate quindici anni fa? Io somigliavo proprio ad Andrea, il protagonista del romanzo d'esordio di Sofia Assante. Bassino e poco loquace, avido lettore di narrativa americana sin da allora, mi innamoravo dei personaggi femminili di John Green, ascoltavo in macchina Jason Mraz e Avicii, fantasticavo di opportunità di lavoro internazionali e feste esclusive da teen drama. Ambientato tra il presente e il primo decennio degli anni Duemila, questo romanzo è un tuffo negli anni della mia adolescenza a cui, soprattutto se nostalgici, è difficile non volere bene. Conosciamo davvero chi abbiamo accanto? Cosa si nasconde dietro la famiglia perfetta? Sono le domande che riportano Andrea a Roma, dopo il dottorato a New York. Non è bastato mettere un oceano di distanza tra sé e il passato per scordare Elettra, la migliore amica di cui è sempre stato innamorato, e il resto della famiglia Alfieri. Fasciati in abiti di lino pregiato, colti ma inclusivi, belli come stelle del cinema.

Certi eventi, come certi amori, semplicemente non si possono sradicare. Mi passa per la testa questo pensiero: la vera bellezza, il vero amore, hanno sempre qualcosa di terribile.

A metà tra un antropologo e un cavaliere servente, Andrea li ho osservati a lungo, come Nick Carraway contempla l'opulenza di Gatsby tra le pagine del capolavoro di Fitzgerald. Fino, almeno, alla loro caduta. Abbagliato dal loro fascino, non ha mai intuito la tragedia in agguato. Brillante, a tratti perfino divertentissima, quella di Assante è un'avventura post-adolescenziale dal retrogusto malinconico dove partire è solo una scusa per poter tornare. Nonostante qualche pagina di troppo e comprimari dal potenziale non sempre approfondito (i mitici zia Mimì e Arman meriterebbero uno spin-off tutto loro), ha i sospiri delle commedie romantiche e la struttura di un thriller dei sentimenti, con tanto di colpo di scena conclusivo. Imperfetto e strabordante, ma generosissimo, scoppia di storie e passa in maniera sorprendente da un tono all'altro. A volte sembra perdere di vista l'obiettivo. Ma l'autrice, per fortuna, interviene a sciogliere dubbi e nodi, in un finale ambientato nel futuro che verrà tra cinquant'anni. E ci mostra irriconoscibili, invecchiati. Allora avremo forse dimenticato i ritornelli dell'indimenticabile estate del 2008, trascorsa a bere latte e zenzero sul lago d'Orta. Ma il primo amore della Mia ultima storia per te no, mai.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Avicii - Without You
 

venerdì 25 luglio 2025

I mai recensiti di metà 2025: Queer | Sinners | La città proibita | L'amore che non muore | Io sono ancora qui

Guadagnino torna a filmare l'infilmabile. Non mancano certamente i corpi, in quest'odissea tra le bettole di Città del Messico. Corpi in vetrina, che entrano ed escono nella routine di Lee: ebreo di mezza età che, dietro il fare predatorio, nasconde una sessualità mai metabolizzata. Sappiamo poco del suo passato — plasmato sulla vita di William Burroughs —, che lo perseguita in incubi e visioni. Non si accontenta più del sesso, non con Eugene: il suo ultimo amante è un'ossessione. Può un allucinogeno svelarci i pensieri più inaccessibili del partner? Dietro la patina untuosa e impolverata, al di là dei simbolismi e delle stranezze, Queer è un film di un romanticismo decadente e disperatissimo che racconta — anzi: mostra — la frustrante, compulsiva, struggente tensione verso l'altro. Craig vorrebbe soltanto fondersi con Starkey, formando uno splendido mostro a due teste. Ma non gli resta, invece, che tendere una mano verso la sua schiena nuda e immaginare di carezzargli le costole, di intrecciare le gambe alle sue. Per fortuna, Guadagnino si conferma un maestro indiscusso in materia di desiderio, e perfino quello di questo povero diavolo, inappagato, prende corpo in un cinema dove l'impossibile diventa visibile. Nella solitudine siderale dei dipinti di Hopper, così, puoi affondarci le mani come nel marmo del Bernini. (8)

Sul delta del Mississipi, negli anni Trenta, si mescolano razzismo, superstizione e musica. Influenzato dal cinema di Peele, Ryan Coogler fa dell'horror lo strumento per uno spaccato sociale vivo e palpitante. E ci regala il piano sequenza più memorabile dell'anno, dove passato, presente e futuro si mescolano sulle note di un blues. Ambientato nell'arco di una notte come Dal tramonto all'alba, mostra un gruppo di afroamericani sotto assedio — tra di loro un doppio Michael B. Jordan e un giovane diviso tra fede e chitarra. Fuori: i vampiri capeggiati da Jack O'Connell. Spietati, ma meno del Ku Klux Klan, promettono che la morte sarà il termine di ogni persecuzione. Una festa senza fine. Dolente e scatenato, Coogler commette qualche passo falso. Ma perfino quando inciampa, il suo bel mappazzone — futuro protagonista ai prossimi Oscar — si rialza e balla. La musica è un ponte con l'aldilà e l'invidia dei non-morti, che vorrebbero attardarsi per assistere allo spettacolo dell'alba. Il cinema ha lo stesso potere. E allora ben vengano diavoli e vampiri: che si accomodino in platea, assetati di vite e storie — Sinners ne offre a fiotti. (7,5)

Mainetti fa centro. Di nuovo a Roma, sempre in equilibrio tra comicità e violenza, confeziona uno spettacolo che ha il respiro del cinema internazionale e il sapore della favola. Lungo e ambizioso, mette troppa carne al fuoco. Più che presunzione, però, dietro sembra esserci la stessa generosità che animava Lo chiamavano Jeeg Robot. Quali traffici si nascondono dietro il ristorante cinese del titolo? Cos'hanno in comune un cuoco e un'immigrata che domanda vendetta? A metà tra Kill Bill e Borotalco, tra la Cina del figlio unico e l'Italia multietnica dove i ristoranti stranieri scalzano le trattorie, Mainetti racconta una tenera storia d'amore e l'eterno scontro genitori-figli. Qui, però, ogni conflitto è una coreografia esaltante in cui Yaxi Liu picchia come Jackie Chan. Accanto a lei il dolce Borello, schiavo dell'attività di famiglia, e la coppia Ferilli-Giallini, alle prese con un microcosmo da salvaguardare con mezzi leciti e non. Strabordante e delizioso, La città proibita è un mix che fa tesoro delle differenze culturali e faville con gli ingredienti del suo cast. Chi immaginava che gli spaghetti all'amatriciana potessero mangiarsi anche con le bacchette? Noi, fan della prima ora, sì. (7,5)

Come molte parole della nostra lingua, anche “cinema” ha un'etimologia greca: significa “movimento”. E il secondo film di Lellouche — incompreso a Cannes, ma protagonista di uno straordinario successo in Francia — non arresta mai la sua corsa. Convulso, sanguinoso, romanticissimo, segue il rincorrersi di due protagonisti belli e maledetti. Si conoscono al liceo, ma il loro amore viene interrotto da dieci anni di carcere. Al pari di The Brutalist, L'amore che non muore non soltanto ci ricorda in ogni fotogramma l'energia dell'arte, ma è soprattutto l'ennesimo grande romanzo popolare. Di una generosità strabordante, parte come commedia romantica, sfocia nell'heist movie e sconfina nel musical: merito di una trascinante colonna sonora anni Ottanta e di movimenti di macchina così coreografici da trasformare l'euforia di Exarchopoulos e Civil — questa volta, meno memorabili delle loro controparti giovanili — in danza. A sorpresa, Lellouche trova armonia tra gli opposti e, come il suo protagonista taciturno, si impegna a combinare le parole più belle del dizionario per dichiarare il suo amore a un cinema di nostalgie e pallottole. (8)

Cinque figli, un cane, una domestica, una casa vista mare. I Paiva sono fortunati, e lo sanno. Colti, affiatati, un po' chiassosi, vivono in una Rio de Janeiro dall'aria cosmopolita in cui i cinema danno i capolavori del nostro Antonioni e i giradischi cantano i Beatles. L'idillio, duraturo nonostante la dittatura, finisce quando il capofamiglia viene arrestato: l'ex deputato diventa l'ennesimo desaparecido. Per ottenere il certificato di morte ci vorranno quarant'anni. Nominato a tre Oscar, Io sono ancora qui avrebbe dovuto vincerne il più possibile. Perché quello di Walter Salles è un atto d'accusa dal valore universale. Ma è soprattutto il dramma classico, accorato, magnifico, di una famiglia in cerca di un nuovo ménage domestico mentre l'età dell'innocenza giunge al capolinea. Peggio dei blitz armati, peggio degli interrogatori, c'è soltanto l'attesa di notizie — perfino brutte. Magico il ruolo della matriarca. Fernanda Torres ha la forza di tutte le madri del mondo e, a differenza dello spettatore, non versa mai una lacrima. Aggiusta le bambole delle figlie, cucina perfino per gli aguzzini di suo marito, bandisce la tristezza dalle foto. Mamma-coraggio, fino all'ultimo conserverà la ricetta del perfetto soufflé, i denti da latte dell'ultimogenita e i segreti fondanti dell'esistenza, della resistenza e della gioia. Le famiglie felici si somigliano: chi lo dice? (9)

martedì 15 luglio 2025

Recensione: La radice del male, di Adam Rapp

| La radice del male, di Adam Rapp. NN Editore, € 22, pp. 544 |

Anni Cinquanta. Elmira, New York. Una modesta casetta costruita all'ombra di un sicomoro, gli infissi verde pisello e l'eco delle campane della vicina chiesa di San Giovanni. Una famiglia come tante. Numerosi, repubblicani, cattolici, i Larkin —un padre silenzioso, una madre devota, sei figli — cenano con un ritratto di Gesù in cucina. Molti dei protagonisti perderanno comunque la retta via. Come nelle grandi saghe familiari, seguiamo i loro trionfi e le loro sciagure fino ai giorni nostri. Dalla presidenza di Roosevelt al secondo mandato di Obama, passando per la guerra in Vietnam, l'AIDS, l'abolizione della sedia elettrica. Ogni capitolo, a punti di vista alterni, è una finestra aperta sulle loro esistenze. A scandirle sono la musica, il football, la cronaca nera.

Siamo tutti qui per poco più che un battito di ciglia, come i polli e le termiti, e se davvero c'è un Dio, è che che se ne frega di noi.

Myra, la primogenita, è un'infermiera impiegata nel braccio della morte: cresce da sola il figlio Ronan e non perde mai la grazia struggente con cui, a tredici anni, scriveva lettere d'amore al Giovane Holden. Fiona, spregiudicata e sessualmente promiscua, si oppone all'accudimento di Joan — la sorella disabile — per inseguire la carriera di attrice. Alec, la pecora nera con un passato da chierichetto, fugge per tutto il Midwest — mai dall'oscurità annidata in sé stesso — lasciandosi alle spalle cartoline macabre e altre briciole nella speranza di essere trovato. Nel frattempo, succede la vita. Splendida e imprevedibile, a volte beffarda, diventa materia viva nelle mani di Adam Rapp. Subito paragonato a leggende della scrittura, possiede la quiete grandezza della grande narrativa americana. La prosa è senza fronzoli. L'intreccio, epico e semplice al tempo stesso, è un gioco di prestigio dove le figurine di football e le prime edizioni del capolavoro di Salinger vengono trasmesse di madre in figlio. Cosa erediteremo, invece, dai nostri padri?

Siamo tutti condannati a essere quello che siamo.

Se lo domanda proprio Ronan, aspirante drammaturgo a New York, che ha ereditato dagli uomini della famiglia gli occhi infossati e i lupi nella testa. La criminalità è una tara genetica? Il serial killer John Wayne Gacy potremmo essere noi? Come nella Derry di Stephen King, qualcosa di malvagio si annida nel sottosuolo americano. La violenza è dappertutto. Nel ragazzo che flirta con te alla tavola calda. Nell'ubriacone molesto della lavanderia a gettoni. Nel prete che paga il tuo silenzio a furia di regali costosi. Nella luce del garage, che ti ordina di sterminate i tuoi cari con un martello. In mezzo a tutto questo male, tuttavia, è impossibile non volere a queste tre generazioni di Larkin tutto il bene del mondo. Anche se, a guardare bene, negli occhi infossati dei figli si intravede ancora il riflesso di quel martello. Sempre lì, sotto il lavandino della cucina. In attesa.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Simon & Garfunkel – The Sound of Silence

giovedì 10 luglio 2025

Recensione: Donnaregina, di Teresa Ciabatti

|Donnaregina, di Teresa Ciabatti. Mondadori, € 19, pp. 228 |

Chi è Giuseppe Misso, detto 'O Nasone? Ex camorrista, ha quasi ottant'anni e vive in una località segreta, lontano dalla sua amata Napoli. Carismatico, colto, bugiardo, descrive al “Corriere della Sera” un'esistenza dai toni picareschi, fatta di lussi sfacciati (gli orologi costosi e le Jaguar), hobby peculiari (l'allevamento di colombi) e relazioni improbabili (la presunta parentela con Leonardo DiCaprio; l'antagonismo con Lovigino, amico divenuto rivale; gli amori per Antonietta, Adele, Teresa, da cui sono nati due figli). Ormai invecchiato, si racconta all'alter-ego di Teresa Ciabatti.

Uno non ci pensa mai che i cattivi hanno una normalità, e a forza di pensarli lontani, a forza di relegarli in una dimensione remota, oltre a semplificare, proteggiamo noi stessi, credo.

Cos'hanno in comune un superboss e una scrittrice al centro di una dolorosa crisi familiare e creativa? La narratrice ne sa poco di cronaca, e soprattutto non è napoletana. Più interessata a raccontare l'uomo che il mostro, più concentrata sul privato che sui delitti, instaura con Misso un dialogo tenero e peculiare — è presente perfino all'ultimo matrimonio di lui, intrappolata in un discutibile tailleur arancione. Intanto, però, è costretta a fare i conti con le resistenze dell'editore, con un gemello litigioso e una migliore amica morente, ma soprattutto con Camilla: la figlia tredicenne, nella quale scorge il riverbero delle sofferenza di Bruna, la primogenita transgender di Misso.

Chiunque è un'invenzione di qualcun altro.

Come mai ho letto Donnaregina, lettura a metà tra l'inchiesta e l'autofiction, io che solitamente prediligo la narrativa? Merito della voce di Ciabatti. Empatica ed egocentrica, sprezzante e fragilissima — un'autrice, insomma, che c'entra tutto e niente con le doglianze del camorrista che si credeva Robin Hood. Benché sia lei stessa intrusa nel rione Sanità, mi ha condotto tra i vicoli e le contraddizioni di una storia che esce spesso fuori traccia e proprio per questo risulta irresistibile. Tra lunghi audio su WhatsApp e appuntamenti alla Rinascente, Misso tenta di soggiogare la protagonista per veicolarne le opinioni. Ma, in un lungo braccio di ferro, è lei a imporre la sua personale versione dei fatti — umana e incoerente, surreale a tratti, ma assolutamente vincente. È più temibile fronteggiare un criminale, d'altronde, o convivere con una figlia iscritta in seconda media? Il mistero dell'adolescenza: più impenetrabile della camorra.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Nada – Amore Disperato

martedì 1 luglio 2025

Recensione: L'università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, di Goliarda Sapienza

|Autobiografia delle contraddizioni, di Goliarda Sapienza. Einaudi, € 20 |

È stata allevata in casa per sfuggire alla propaganda fascista. Staffetta partigiana, attrice, scrittrice, aspirante suicida, icona femminista, Goliarda Sapienza ha vissuto mille vite e flirtato spesso con la morte. A cent'anni dalla sua nascita, il mondo la sta riscoprendo tra letteratura e cinema. Dopo l'amore sconfinato per L'arte della gioia, ho recuperato L'università di Rebibbia e Le certezze del dubbio — entrambi hanno ispirato il film di Mario Martone presentato a Cannes.

Chi non sa che la bellezza è anche protezione dai mali della vita e dagli incubi della notte?

Due racconti autobiografici, brevi e armoniosi, guidati dallo sguardo acuto di Goliarda. In carcere per furto, descrive il suo soggiorno dietro le sbarre. Il silenzio innaturale dell'isolamento iniziale, il latte col brumoro, ma soprattutto la ritualità e i colori di un microcosmo femminile che sembra uscito da un salottino del sud. Le carcerate fumano, giocano a carte, parlano di amori e di delitti. Sciantose come uccelli esotici, si fondono in una voce sola. Disparate — disperate mai —, accolgono volentieri questa sofisticata cinquantenne che indossa camicie di seta e ringrazia per tutto. Il corso accelerato di vita di Goliarda, senza distinzioni di età né di censo, dura poco. Tornata presto in libertà, lotta contro il caldo romano e la nostalgia del “dentro”, dove le convenzioni sociali non contano e tutto è istinto. Tutto è natura. Può l'esperienza del carcere rivelarsi liberatoria? A partire da questa contraddizione, Goliarda — fuori posto nei salotti letterari italiani — rievoca con calore commovente l'intimità con le compagne di cella, la fame delle loro storie, gli andirivieni con Roberta: una detenuta politica sensuale e ipercinetica, molto simile all'indimenticabile modesta.

Perché scrivi, Goliarda?” “Per allungare di qualche attimo la vita delle persone che amo.” “E con loro anche la tua, eh, volpona?” “Certo. Chi odia a tal punto la vita da non desiderare di vederla allungata almeno per un po'?”

Benché attento al materiale di partenza, Martone ha costruito un biopic troppo lirico e frammentario, in cui la bravissima Golino interpreta una versione ben più arrendevole e naïf dell'autrice. Goliarda, invece, era ironica, indocile, a proprio agio sia con l'italiano aulico che col romanesco. Subito dopo l'arresto, dichiara la fantasia sua nemica: in cella, meglio non avere troppi grilli per la testa. Per fortuna, era bugiarda come nessuno. Innamorata della vita, innamorata degli altri, fantastica per tutto il tempo e immortala tra queste pagine un apprendistato lungo un verdetto. Ha rubato una collana. O, semplicemente, la sua parte di gioia?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mina – Città vuota

venerdì 13 giugno 2025

Recensione: Amarsi in una casa infestata, di Matteo Cardillo

| Amarsi in una casa infestata, di Matteo Cardillo. Mercurio, € 19, pp. 264 |

In X, primo capitolo della trilogia cinematografica di Ti West, c'è una sequenza in cui la terrificante Pearl — ormai anziana, ma non per questo meno sanguinaria — si intrufola nel letto della pornodiva Maxine. È attratta dal suo calore, dalle sue carni sode ed elastiche, dalla sua giovinezza. Gli spettri del romanzo d'esordio di Matteo Cardillo provano la stessa fame struggente verso la vita che hanno lasciato. È per questo che si concentrano a Bologna, la città universitaria per antonomasia, al piano terra di un palazzone in stile Liberty aperto agli studenti. Mentre un'estate implacabile svuota le strade della città e i mandarini imputridiscono sui rami, nell'appartamento di Viale XII giugno si snodano le esistenze e le relazioni degli inquilini. Storie di sesso e tradimenti, di crisi personali e lavorative, che ben presto rianimano dal sonno eterno gli antichi abitatori. Il risveglio sensoriale di Amarsi in una casa intestata, a confine tra il romanzo di formazione e la ghost story, tra il desiderio e l'orrore, contagia anche i morti.

Ci saremmo di nuovo baciati con affetto come facevamo un tempo, sulle spalle, sulle clavicole, dicendoci ti amo, rispondendoci ti amo anch'io, perché in quello spazio fuori dal tempo, quel luogo della notte, nel tempo dei morti, tutto vale e tutto esiste ancora e non esiste più, e così anche i noi due di una volta.

Aggrappato a quel che resta dei vent'anni e a una relazione ormai al capolinea, il protagonista — per tutto il tempo senza nome — diventa un diapason per gli spiriti intrappolati dietro le pareti e, soprattutto, la voce di una generazione in cerca di risposte: la mia. Alle pareti ci sono poster di Argento. Le sorelle Morelli, le enigmatiche proprietarie di casa, somigliano alle dame velate dei film di Plaza e Balagueró. La campagna emiliana della medium Beniamina è la stessa del capolavoro di Avati. Con una scrittura personale e magmatica, Cardillo attinge a piene mani al cinema di genere, di cui è dichiaratamente fan, ma non dimentica che il linguaggio dell'horror ben si presta alla metafora. Tra le pagine, così, l'autore pugliese ospita un dolente giro di vite dove presente, passato e futuro si confondono e gli amanti abbandonati, insieme ai traumi rimossi, scivolano inesorabilmente nell'intercapedine dei nostri ricordi. Esiste forse tragedia peggiore della bellezza sciupata? I fantasmi ci spiano dalle porte a vetri, scavano nella carta da parati, picchiano contro i muri. Un po' ci tormentano e un po' ci consolano — vittime come siamo del precariato, della schiavitù delle app d'incontri, degli strascichi fisici e psicologici del Covid-19. Sarà proprio il loro fiato gelido a ricordarci che siamo caldi. E vivissimi. Tanto vale, allora, lasciare che i lamenti si confondano coi gemiti di piacere. E dormire insieme, popolando il buio di carezze, per scoprirsi meno estranei e spaventati di quanto non fossimo la notte prima.

Il mio voto:  ★★★★
Il mio consiglio musicale: Matia Bazar – Elettochoc

martedì 3 giugno 2025

Per trenta minuti: Dying for Sex | The Studio | Overcompensating | The Four Seasons

Può una miniserie sulla morte scoppiare di vita? È la scommessa, vinta, di Shannon Murphy. Già premiata a Venezia per Babyteeth, la regista torna a declinare la malattia in chiave umoristica trasponendo la storia vera di Molly Kochan: quarant'anni, due tumori, nessun orgasmo, abbandona il marito imbelle pur di realizzare i suoi desideri più inconfessabili. In francese, d'altronde, chiamano l'orgasmo così: petit mort. Dovremmo quindi stupirci se assisteremo al sesso più libero e pazzo dell'anno in Dying for Sex, storia di una malata al quarto stadio, anziché nel patinato Babygirl? Tragici e spregiudicati, gli otto episodi seguono l'odissea della protagonista dalla diagnosi fino all'ultimo respiro, senza mai staccarsi dal viso di una Michelle Williams radiosa come non mai — sarà colpa della radioterapia? In scena: l'assoluta centralità del corpo femminile. Nel piacere. Nel dolore. Vittima di abusi da bambina, continuamente in balia dei medici da adulta, Molly esercita il pieno dominio di sé stessa soltanto nelle vesti di mistress. Tutto è scoperta, perfino i kink più assurdi, ma potrebbero esserci effetti collaterali: rompersi il femore prendendo a calci gli attribuiti del vicino di casa, ad esempio, o finire per innamorarsi di lui. Ma quella diretta da Murphy è soprattutto una grande storia di sorellanza: l'amicizia tra Williams e l'inseparabile Jenny Slate si candida a rimanere la storia d'amore più struggente dell'anno. (8,5)

Immaginate di poter conoscere i meccanismi produttivi di un immaginario studio cinematografico a Los Angeles. Il responsabile, un Seth Rogen strepitoso come non mai, è un sognatore sprovveduto  e pasticcione che vorrebbe conciliare cinema d'autore e film commerciali. È possibile, però, tra acquisizioni, problemi di budget e pressioni crescenti da parte di pubblico e media? Il cinema è cambiato. È in crisi? Se sì, quanto è grave? A metà tra Boris e Call my Agent, Apple produce una delizia metacinematografica sui retroscena più folli del microcosmo hollywoodiano. Se i Continental Studios contano in squadra anche gli iconici Bryan Cranston, Catherine O'Hara e Kathyn Hahn, il resto del cast vanta cameo non da meno: registi (Scorsese, Howard, Polley, Wilde, Snyder) e attori (Kravitz, Franco, Lee, Efron) sulla cresta dell'onda, infatti, si prestano con autoironia a una satira che si prende estremamente sul serio. Senza mai dimenticare i fasti dei Golden Globe e del CinemaCon, The Studio mostra la frustrazione dei piani sequenza, gli inconvenienti della pellicola, i casting al tempo del politicamente corretto, le guerriglie interne e le mancata riconoscenza. Il tutto con dialoghi fluviali e una regia elettrizzante, che somiglia a un'improvvisazione jazz di Damien Chazelle. (8)

Tornate indietro a quindici anni fa. Su MTV andavano in onda Blue Mountain State, Hard Times, Faking It. Eravamo felici e lo sapevamo. Coprodotta da Amazon e A24, la serie scritta e interpretata dal brillante Benito Skinner è un atto d'amore alle commedie universitarie di quegli anni. Qui aggiornate, però, in una versione immancabilmente più gentile, inclusiva, queer. Tante le partecipazione delle icone televisive del passato: James Van Der Beek, Connie Britton, Kyle MacLachlan. Immancabili, ma questa volta con autoironia, gli attori trentenni chiamati a impersonare un gruppo di matricole. Ambientata all'incirca nel 2014, vanta poster di Megan Fox alle pareti e una colonna spudorata dove Britney, Lady Gaga e Charli XCX guidano i protagonisti tra feste, sesso e segreti. Per quanta lieve ed esilarante, la serie ha un titolo che è tutto un programma: sovracompensazione. Chi non ha mai mentito per aderire alle aspettative del prossimo? Tutti, non soltanto il protagonista gay, nascondono non detti e fragilità private. Tutti, perfino i cattivi di turno, sono vittime delle pressioni sociali e degli stereotipi. Riusciranno, tra una risata e l'altra, a liberarsi delle maschere superflue – e dei vestiti? E noi, riusciremo? (7,5)

Dopo l'esageratissima Unbreakable Kimmy Schmidt, Tina Fey torna come sceneggiatrice e interprete di una nuova dramedy approdata su Netflix sotto silenzio – almeno in Italia. Questa volta più amara e misurata che in passato, vicina alle atmosfere del cinema di Woody Allen, raduna tre coppie di amici di mezza età mostrate in quattro diverse stagioni dell'anno e della vita. Nonostante vantino matrimoni longevi, nessuno è al sicuro: la crisi dei cinquant'anni minaccia di mettere in forse vacanze, relazioni, amicizie. Fey patisce l'apatia del marito, Will Forte; Colman Domingo trova soffocanti le moine dell'iperprotettivo Marco Calvani – che rivelazione, quest'ultimo –; e poi c'è Steve Carell, sempre immancabile, sempre più fascinoso, che all'indomani di un anniversario in pompa magna abbandona la moglie Kerri Kenney-Silver per una trentenne. La trama non è tra le più originali: anzi, si ispira all'omonimo film degli anni Ottanta. Tutto è estremamente classico, ma altrettanto ben scritto. Tutti sono privilegiati, annoiati, ciarlieri, come nei migliori romanzi di Peter Cameron, eppure è matematicamente impossibile non volere loro bene. Occhio all'episodio finale, però: dopo tanta leggerezza, un colpo di scena da crepacuore è in agguato. (7)

martedì 27 maggio 2025

Recensione: Le sorelle Blue, di Coco Mellors

| Le sorelle Blue, di Coco Mellors. Einaudi, € 20, pp. 432 |

Con alcune storie, forse, tocca soltanto litigare per entrarci in sintonia. Mi è successo con il nuovo romanzo di Coco Mellors. Da me attesissimo, si è lasciato leggere per buona parte in perfetto silenzio: non riuscivo ad ammettere nemmeno a me stesso, infatti, quanto mi stesse deludendo. Colpa di dinamiche familiari non sempre credibili — i genitori, all'indomani di un lutto terribile, sono completamente assenti —, di dialoghi talmente verbosi da rubare la scena al cordoglio, di un gruppo di protagoniste descritte tutte con i superlativi assoluti delle donne toste, forti, indipendenti. Per fortuna, ci ho fatto la pace nella seconda metà. Cresciute nel Upper West Side, Le sorelle Blue sembrano le figlie di Cleopatra e Frankenstein.

Ti voglio bene anch'io. Senza “anche”.

Nate da una coppia di genitori inseparabili e disfunzionali, ne hanno ereditato le dipendenze. Fuggite da un capo all'altro del mondo per scappare al dolore e ai rimorsi, si ritrovano nella casa in cui sono state bambine per l'anniversario della morte di Nicky. Da quando una overdose di antidolorifici l'ha portata via, le superstiti si sono trovate a fare i conti con una nuova formazione. Come funziona un terzetto? Avery, la primogenita, si è costruita una vita perfetta in un sobborgo inglese alla giusta distanza dal suo passato di eroinomane: da sempre punto di riferimento per le sorelle, si scopre pietrificata all'evenienza di diventare madre, rischiando di ricascare nelle antiche abitudini. Bonnie, la meno memorabile, è un'ex campionessa di boxe: l'attrazione segreta verso il suo allenatore l'ha spinta a trasferirsi in California, dove lavora come buttafuori. Lucky, la più piccola, è una modella a Parigi nella settimana della moda: dedita alle notti in bianco e agli eccessi, è cresciuta troppo in fretta in un mondo dove gli uomini sono predatori e alle donne è richiesta la massima frivolezza. Rotta per sempre l'armonia di un'infanzia di letti a castello e Spice Girls, possono riuscire a innamorarsi nuovamente della vita?

Si erano scritte pagine e pagine sull'amore romantico, sul legame profondo che unisce gli amanti. Ma anche quest'altro tipo di amore meritava estasi, meritava canzoni. Prima ancora di conoscere il corpo di un amante, lei conosceva già quello delle sorelle: si era specchiata nei loro piedi lunghi, negli occhi chiari, nelle membra eleganti e nelle orecchie arrotondate.

Di gran lunga più convenzionale del romanzo d'esordio, per me malinconico ed effervescente come alcune commedie newyorkesi di Woody Allen, l'opera seconda di Mellors è una parabola esistenziale imperfetta ma vivissima, che la speranza incrollabile e le simmetrie sottili trasformano in una versione contemporanea di Piccole donne. Peccato che protagoniste pretendano tutte indistintamente di essere Jo March. Alleate contro il mondo, ma per il resto acerrime rivali, serbano i peggiori segreti per loro stesse pur di proteggersi. Il rischio: isolarsi. Toccherà salvare un frigorifero rosa dalla nettezza urbana, convertire una lite in piena regola in una toccante occasione di confronto, per rivalutarsi. E rivalutarle. È una storia che parla di rapporti di sangue, d'altronde. Era necessario prima azzuffarsi un po' per diventare parte della famiglia.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Billie Eilish - Birds of a Feather