Brian
vive in un monolocale e, alle pareti, tiene appese le prove dei suoi
fallimenti. Ma ha ventiquattro anni appena e,
fuori dalla finestra, la città più stimolante del mondo: New York.
E succede così che, durante una delle sue lunghe passeggiate,
dall'altra parte della strada vede Arielle, all'angolo fumatori di un
ristorante di lusso: si innamora a prima vista. Lei – francese,
felicemente sposata, di dieci anni più grande – per qualche motivo
ricambia; tuttavia, nel suo matrimonio aperto, c'è posto per un giovane
amore adulterino una volta a settimana, per due ore. Ma se lui,
ragazzo di sani principi, non capisse cos'è
questa storia che i francesi, civili e libertini, sono disposti a
condividere l'anima gemella con un terzo incomodo? E se
a quell'adulta che si chiama come un sirena – e delle sirene ha il
potere di sedurre poveri marinai e confusi scribacchini –
a un certo punto non sapesse più rinunciare? 5 to 7,
ai più sconosciuto, è una delizia di commedia romantica che, in
tutta sincerità, mi aveva incantato sin dalla copertina. Ho potuto giurargli un po' d'amore nell'ora e
mezza in cui, spensierato, mi sono goduto coi protagonisti lo
spettacolo raro del cielo in una stanza. Bizzarri amici di letto, il
romanziere e la sua esotica Mrs. Robinson passano il tempo che hanno
a disposizione a braccetto, nelle suite degli hotel, passeggiando a
Central Park, andando a pranzo con il marito di lei e a cena con i
genitori di lui. Intraprendono conversazioni lunghissime e, prima e
dopo il sesso, si
confrontano sugli americani moralisti e sugli europei spregiudicati,
progettando nuovi sogni e scrivendo nuovi racconti. Creando
inconsapevolmente, insieme, un gioiellino di parole e fatti, un po'
newyorkese e un po' parigino, ma comunque tanto malinconico. I sentimenti
secondo Victor Levin flirtano con Allen e Truffaut, e coinvolgono con uno di quegli amori sospesi e un epilogo limone e vaniglia che incrina il
cuore. Arguto, loquace, colto. Classe sconfinata che fischia appresso
ai taxi gialli, degusta vini rinomati e fa ridere chi, smaliziato, sa
che “baiser” non significa quel che tutti pensano. Avvenenti e
naturali, i proprietari di queste due anime trasognate – e di questi
visi che fanno centro - danzano su melodie da gourmet. Anton Yelchin, mite e dalla voce bellissima,
che fa gli stessi film che farei io se fossi un attore avvenente e
naturale, mite e dalla voce bellissima, ovviamente; e – nel suo
letto, al suo braccio – la soprannaturale Bérénice Marlohe. Una che quando sorride ferma il traffico. (7,5)
Il
caro Ted è tornato. Dopo averci parlato di come la magia del Natale
avesse regalato un migliore amico a un bambino solitario,
adesso l'orso sporcaccione di MacFarlane è pronto a diventare papà. Come dimostrare di essere
umano? Mentre perde lavoro e moglie, un'avvocatessa rampante e
l'inseparabile amico John lo aiuteranno nella lunga battaglia per i
diritti (in)civili. Il primo film, divertentissimo, aveva messo
d'accordo tutti. L'estate scorsa, poi, il regista – lì anche
attore in carne e ossa – ci aveva riprovato con Un milione di
modi per morire nel west, e anche in quell'occasione – tra
crossover, momenti da musical e cameo folli – aveva centrato il
besaglio. Il successo cerca successo e un sequel non poteva
mancare. Da parte mia, l'accoglienza era delle più favorevoli. Però,
come nel caso di Pitch Perfect e21 Jump Street, ecco
un altro seguito sì atteso, ma poco necessario. Una delle
famose volte in cui si ride più con il trailer che con il
lungometraggio in sé. Fatto di quella comicità nonsense poco familiare
agli italiani, strappa risate nelle poche scene non contemplate negli
spot tivù – ad esempio, riferimenti scorretti a personaggi noti e
a tragedie mondiali cinicamente scomodate. Sensibile forse senza
volerlo, funziona paradossalmente più nei momenti da film per
famiglie – riposte via droghe e birre – mentre la sua comicità
bostoniana lascia freddini. Per il resto, tralasciando una capatina al
Comic Con, sono poche le soddisfazioni legate al vecchio cast –
nuovo ingresso, giusto la solare Amanda Seyfried – ma c'è il tema,
in compenso, a fare pensare. Ted 2, infatti, a modo suo, mi è
sembrato anticipasse il giorno in cui Facebook si è colorato
d'arcobaleno e gli hashtag, su Twitter, hanno celebrato un altro
passo avanti della civiltà. (5,5)
Quando
ci si accorge di essere diventati adulti? La vecchiaia, per Cornelia
e Josh, è un'invenzione borghese: loro – ben oltre i quarant'anni
– si sentono reattivi, innamorati, così diversi dalle coppie di
amici che, vuoi i figli, vuoi la famiglia tradizionale, sono
cresciute in un giorno solo. Ma si sentono fuori luogo accanto ai
loro coetanei, dotati di una voglia di diventare genitori che loro
non sentono particolarmente, proprio come non si sentono di stare al
passo con Jamie e Darby, venticinque anni e tutto il tempo per
rivoluzionare il mondo del documentario. Più deprimente chiudersi in
casa, rassegnati, o tentare la via, tra pattini e lezioni di danza,
di una seconda e impossibile gioventù? While we're young –
da noi, Giovani si diventa – parla della vana ricerca del
tempo perduto e, con un colpo di scena che colpo di scena non è,
della spietatezza del rinnovo generazionale: quella coppia hypster
tanto affabile sta dando loro un'altra possibilità, in nome di una
strana amicizia, o sta cercando di strappare via dai due –
soprattutto da lui, competitivo e geloso - la soddisfazione delle
ultime volte, con relazioni “usa e getta” e bugie su bugie? La
commedia scritta e diretta da Noah Baumach – di cui mi tocca
recuperare quel Frances Ha acclamato come capolavoro – è
profonda, intelligente, bene interpretata. Prevedibilmente riuscita,
nel bene e nel male. Nel bene, perché fa sempre piacere vedere uno
Stiller più serio del solito, una Watts che si scatena, gli occhi da
bambola della Seyfried e il viso indefinibile del promettente Adam
Driver; nel male, perché Giovani si diventa è profondo,
intelligente, bene interpretato proprio come immaginavi fosse prima
di vederlo. Cosa va ad aggiungere ai Peter Pan del primo Muccino –
ma qui senza strepiti, fortunatamente -, che inevitabilmente
sentivamo anche più vicini a noi? Niente, o così mi è parso. Ma è
un niente, il mio, che non sottintende disprezzo. Fa molto più che
compagnia e, in definitiva, molto meno che rumore. (6,5)
Lo
scorso anno, a un Festival di Venezia più serioso che mai,
veniva proiettato Burying the Ex. Ventata d'aria fresca
e ritorno alla regia di Joe Dante – regista di commedie
horror come Gremlins; anche per me, che
all'epoca non ero neanche nella mente dei miei genitori, must. Dopo averci provato con gli spauracchi per ragazzi e il 3D,
eccolo con una storia divertente e sanguinosa. Max ama Olivia a cui è legato da una forte
attrazione fisica e dal comune amore per i film di serie B; non molto tempo
fa, però, nella sua vita c'era Evelyn. Vegana convinta, dispotica:
come lasciarla senza spezzarle il cuore? A quello che dovrebbe essere
l'ultimo appuntamento, Evelyn attraversa di fretta e l'urto con un
autobus le spezza il collo. Il cuore, in compenso, è sano e salvo.
L'accanita non morta sbuca dalla tomba e getta le basi per
un'infernale convivenza. Il risultato è una commedia più che
discreta, sulla persistenza dei ricordi e lo stalking da parte di
splendide ex. E beato il sempre in parte Anton
Yelchin, da me odiatissimo: cioè, in Like Crazy aveva
Felicity Jones e qui, in meno di novanta minuti, sia Ashley Greene –
e con lei, prima vampira e adesso zombie, neanche la necrofilia pare
così strana – che quello schianto di Alexandra Daddario?
La mano di quello che un tempo è stato un regista culto si nota
palesemente nei dettagli: i poster italiani appesi ai muri, il cinema
all'aperto e le proiezioni di Romero, le citazioni sparse; ma a metà
tra Warm Bodies e La
sposa fantasma c'è un
territorio piuttosto arido in quanto a fantasia. Poteva essere più
spassoso, folle, originale: arriva in ritardo. Ma gli si perdona
tutto, in fondo, per il glamour del trio e perché Joe,
sessantottenne, sa ancora il fatto suo. George Miller – di due anni
più anziano – però ha diretto una cosetta come Fury
Road: tanto per dire.(6+)
La
storia vera dietro un capolavoro e quella della donna che per
riaverlo – dopo le razzie naziste –
chiamò in giudizio l'intera Austria. Giusto privare Vienna
della sua splendida Monnalisa e lasciare che trionfi una
giustizia senza prezzo? L'apparenza suggerisce un prolisso
polpettone, no? Invece la durata contenuta, la compresenza del dramma
delle persecuzioni – visto, qui, da una prospettiva nuova – e
della parentesi giudiziare, fanno sì che il lungometraggio scorra,
tocchi e, soprattutto, intrattenga grazie all'ennesima prova
maiuscola di Helen Mirren. Maria Altman era
pungente, severa e volitiva e aveva ingaggiato, sapendo di perdere in
partenza, il figlio di amici di famiglia – qui, un bravo Ryan
Reynolds – per tentare, rimasta sola al mondo, la carta disperata
della giustizia. Quando il passato prende vita e si passa dalla Los
Angeles degli anni novanta alla Vienna assediata, la Mirren
ringiovanisce e diventa la nostra Tatiana Maslany – talento puro,
alle prese con un'altra sfida: l'accento tedesco – e,
accanto a lei, si ritagliano ruoli minori il giovane marito Max Irons
e Daniel Bruhl, uno dei pochi austriaci disposti a non dimenticare i
crimini dei padri. Ma Woman in
Gold, oltre a parlare di arte e di
donne, è anche la storia di un giovane uomo – americano, ma
con il cognome di uno dei più grandi musicisti del secolo scorso –
che, commosso, fa pace con le sue origini. Inedito come Philomena e sotto sotto fiabacome Saving
Mr. Banks, il
dramma di Simon Curtis si dipana tra passato e presente, con la sua
struttura tradizionalissima, un solido rigore, un po' di retorica e,
a sprazzi, tocchi d'umorismo che contribuiscono a renderlo una
visione non imprescindibile, ma degna. Anche se qualcosa
andava evitata – un flashback alla Titanicdi
troppo -, qualcosa approfondita – il rapporto tra la piccola Maria
e zia Adele, la musa di Klimt – e non è tutto oro quel
che luccica. (6,5)
Chi
ha tutto ha tutto da perdere. Così James, imprenditore, finisce nei guai: andrà in un carcere di quelli
infernali. Come proteggere, in quel covo di criminali, la sua virtù?
Ha trenta giorni per imparare le regole del vivere selvaggio,
così si affida all'afroamericano Darnell – quieto padre di
famiglia che, in cambio di una somma da capogiro, insegnerà al
protagonista a essere una belva. Duri si diventa ha
la tipica comicità che, in estate, il cinema ha da offrire: o ti
accontenti di horror che non spaventano o, come è già successo con
Affare fatto,
di linguaggio coloritissimo e facce simpatiche.
Nel dubbio, meglio farsi due risate con questi due tipi qui, quando
la giornata è lunga, lo stress uccide e sorridere – per
parolacce e chiappe (o peggio) al vento – alleggerisce il male di vivere. Si sa inizio,
svolgimento e fine, ma questa Poltrona
per due
al contrario – e senza Landis e repliche a Natale – non le manda
molto a dire e, fisico e invadente, con sparatorie, sessioni di
sollevamento peso e disgustosi tentativi di imparare l'arte del sesso
orale – perché se non puoi batterli, almeno fatteli amanti,
i carcerati – è fresco e funzionale. Soprattutto
grazie a un istrionico Will Ferrell – lo stesso che
spesso e volentieri trovo irritante – che qui gigioneggia alla
grandissima e regge ogni singolo sketch, tra una battuta razzista e
un pianto da ragazzina. (6)
Sei
acida e sarcastica e lucida e critica e odi tutto e tutti. Ma questa
tua capacità di vedere le cose con gli occhi della
altre persone, di interpretare il mondo da dentro la loro testa... o
il loro cuore. Questa che a te può sembrare una mera abilità
professionale, be', si chiama empatia. E
tu puoi fingere con tutte le tue forze che sia il contrario, ma la
verità è che fa di te la persona più comprensiva, più tollerante,
e persino più clemente, che io abbia mai conosciuto.
Titolo:
L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome
Autrice:
Alice Basso
Editore:
Garzanti
Numero
di pagine: 270
Prezzo:
€ 14,90
Sinossi:
Dietro
un ciuffo di capelli neri e vestiti altrettanto scuri, Vani nasconde
un viso da ragazzina e una innata antipatia verso il resto del mondo.
Eppure proprio la vita degli altri è il suo pane quotidiano. Perché
Vani ha un dono speciale: coglie l'essenza di una persona da piccoli
indizi e riesce a pensare e reagire come avrebbe fatto lei.
Un'empatia profonda e un intuito raffinato sono le sue
caratteristiche. E di queste caratteristiche ha fatto il suo
mestiere: Vani è una ghostwriter per un'importante casa editrice.
Scrive libri per altri. L'autore le consegna la sua idea, e lei
riempie le pagine delle stesse parole che lui avrebbe utilizzato. Un
lavoro svolto nell'ombra. E a Vani sta bene cosi. Anzi, preferisce
non incontrare gli scrittori per cui lavora. Fino al giorno in cui il
suo editore non la obbliga a fare due chiacchiere con Riccardo,
autore di successo in preda a una crisi di ispirazione. I due si
capiscono al volo e tra loro nasce una sintonia inaspettata fatta di
citazioni tratte da Hemingway, Fitzgerald, Steinbeck. Una sintonia
che Vani non credeva più possibile con nessuno. Per questo sa di
doversi proteggere, perché, dopo aver creato insieme un libro che
diventa un fenomeno editoriale senza paragoni, Riccardo sembra
essersi dimenticato di lei. E quando il destino fa incrociare di
nuovo le loro strade, Vani scopre che le relazioni, come i libri,
spesso nascondono retroscena insospettabili.
La recensione
Dopo
la lettura dell'Ombra del vento, che nel passaggio dalla terza
media al quarto ginnasio avevo amato così tanto ma così tanto da
lanciare una domanda su Yahoo Answers per mettere le mani su
qualcos'altro di simile, ero andato in fissa coi libri che parlano di
libri – oltretutto, è la seconda volta in dieci giorni che nomino
il mio primo Zafòn: segno che dovrei risfogliarlo, dite? La famosa
domanda su Yahoo Answers, di cui ovviamente ho eliminato ogni traccia,
tutta abbreviazioni, smile e
gnè gnè, faceva – senza però abbreviazioni, smile e gnè gnè:
Ho amato così tanto ma così tanto L'ombra
del vento da lanciare una domanda su Yahoo Answers. Chi mi
consiglia altri libri che parlano di libri? Quanta
sagacia, ebbene sì. Questo per dire che quando tutti leggevano i
vampiri della Meyer – dovrei vegognarmi nell'ammettere che io già
li avevo letti, prima che diventassero moda e mi accorgessi di
odiarli per moda? - io mi perdevo in storie dentro storie, nella
metaletteratura, alla scoperta di narratori di secondo grado e di
personaggi di personaggi. Immaginateli come una di quelle espressioni
piene di parentesi, insomma: graffe, quadre, tonde. All'inizio
sgomitavo come un matto per trovarne di nuovi, poi quando grandi
editori avevano investito in testi che parlavano di libraie, botteghe
vintage e pittoresche redazioni giornalistiche, improvvisamente, il
mio interesse era entrato in coma. A portata di mano: sputtanato.
Sputtanato: male. Perché inizio da qui? Ma per dire che davanti
all'Imprevedibile piano della scrittrice senza nome
avevo pensato di imbattermi, per l'ennesima volta, in una cosa di
quelle – con queste donne dai visi enormi in primo piano e un
cane che, nel frattempo, sniffava il suo stesso sedere e il sentore
di cellulosa in decadimento negli anfratti oscuri della copertina.
Perché questi libri – mi viene in mente Lo
strano casa dell'apprendista libraia,
che mi assicurano sia un'atrocità – parlano di donne cinofile e
lettrici sognatrici. E io, che sono maschio? E io, che ho un gatto
che si chiama Ciro e tengo i romanzi tutti sparsi per casa, senza una
di quelle librerie da sogno che – ditelo ai miei, su – mi
meriterei proprio? Convinto che appartenesse a quel filone che, su
questo blog, si evita con cura da qualche anno a questa parte, lo
avevo visto in giro e subito scordato. Naaa.
Finché, complici la recensioni di colleghi fidati, gli ho dato una chance: pareva non essere così (serio,
scontato, alla moda) ma cosà (spassoso, originale, da scoprire). La
frase magica: Vani come Alice Allevi. Ed è stato quando ho saputo
che, forse, il prossimo anno l'avventura di Alessia Gazzola si
concluderà con il quinto volume e che tra me e il terzo capitolo di
un'altra mia compagna di risate, la Geek Girl di
Holly Smale, c'è un lungo inverno di mezzo, ho cercato – e mi ci
sono miracolosamente ritrovato – l'esordio di Alice Basso.
Uno di
quei romanzi pimpanti, veloci, da tenere a portata di mano per le
emergenze. Quando il lunedì ti traumatizza, la Sessione Estiva ti
assassina, i tuoi piccoli dolori reclamano grandi attenzioni e tutto
ciò di cui hai bisogno è un'aiutante, una mano alla fine di un
braccio che, per una volta, non sia il tuo; di una come lei, Vani. Che è
pungente, burbera, di poche parole, ma forniscile un foglio, una
penna – anche il test per l'esame di Informatica funzionerà? -, e
lei ti solleverà il mondo. Peccato che nessuno lo saprà mai. Eroina
in incognito come Clark Kent, ma abbigliata come l'indimenticabile
Lisbeth Salander, presta tempo e fantasia a romanzi che, una volta
arrivati in libreria, acclami come capolavori certi. Lei ha scritto
il libro che ha vinto il Premio Strega, ma tutti lo ignorano:
applausi e riconoscimenti solo per Riccardo, bello e corteggiato, che
aveva bisogno del fiuto della camaleontica protagonista per tornare
sotto le luci della ribalta. Lei, in cambio di un pot pot
sulla testa spettinata e di una paga misera, fa la ghostwriter: in
poche parole, lei scrive e gli altri ci mettono il nome. Succede che,
chissà perché, l'autore di punta di Edizioni L'Erica si innamora di
lei e, con un corteggiamento spietato, vince il naturale odio per il
prossimo di Vani. Che, per una frase di troppo scambiata in
ascensore, si trova a fare da tata all'adolescente Morgana in un
night club di satanassi rock. Soprattutto, che la scrittrice a cui
dovrà prestare il suo ingegno – un'imbrogliona che scrive di
angeli e armonie cosmiche – scompare nel nulla. Amori, grattacapi,
misteri.
Una galleria di personaggi speciali, in un mondo – quello
editoriale – che già nel telefilm Younger si
è da poco rivelato pieno di disonestà e pasticci. Voce narrante,
sardonica e impietosa, questa divertentissima lei che vive
nell'ombra; il tono leggero degli chick lit internazionali e fiumi di
parole pesate con malagrazia, pronunciate da una che non ama lo
shopping sfrenato – nero su nero: forse fa rifornimento alle pompe
funebri? – e probabilmente nel tempo libero, oltre a nutrirsi di
schifezze confezionate, mangia bambini come i comunisti delle
leggende. Il confronto con L'allieva della Gazzola, centratissimo, non va a discapito né dell'una né
dell'altra protagonista: Alice Allevi – che mentre va a fare
compere inciampa in un cadavere e simili – ha un posto nelle mie
pause relax da più tempo, ma occhio a Vani, che dalla sua ha
preoccupanti affinità con il sottoscritto. Non che io, fac simile
di un giornalista titolato, sia imparentato con Vani, angelo custode
di scrittori titolati. Non che Roman Polanski, in L'uomo
nell'ombra – The Ghost Writer,
abbia mostrato una storia che un po' parla di me. Ma, vedete, lei parla citando
romanzi, è una misantropa nel sangue, conia risposte sgarbate così
come respira. Ha la capacità, con un po' di sforzo, di spaccare in
quattro un capello e di argomentarti il nulla. C'è, poi, la
questione della solidarietà tra quei pazzi che si scrivono a
Lettere, perché il loro sogno è vivere di scrittura – e dire che
potevamo tutti iscriverci ad Architettura, così da poterci costruire
personalmente il ponte sotto cui fare i barboni, tutti insieme
disoccupatamente.
L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome va
letto se sei giù, se vuoi un libro dispettoso che ti faccia aumente
il numero dei libri in wishlist – voglio farmi una cultura, per colpa dei ritmati battibecchi tra Vani e Riccardo, di narrativa americana -, se la protezione che hai promesso a fine giugno alla folgorante debuttante Lavinia Petti va
necessariamente estesa anche a Alice Basso, che firma un brillante
giallo che non pesa ma che, pur nella sua voglia di leggerezza, è
abbastanza stimolante da meritarsi una recensione di quelle lunghe,
vere. E io che, quando fa caldo, spero sempre di potermela cavare con
commenti in pillole. Con questa nuova voce narrante anche la pillola
più amara però va giù, e le lamentele di me, povero blogger
letterario che per farsi qualche spicciolo si darebbe o alla
macchia o, peggio, alla carriera pagata di fescion blogger – se non
fosse che sono altro un metro e un po' e l'unica
tartaruga di cui sono dotato si chiama Lauretta e, in questo esatto
momento, sta nuotando nel suo acquario mentre Ciro scambia la sua
piscinetta per un delizioso abbeveratoio, e che schifezza - trovano
ascolto.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Daniele Silvestri – Le cose che abbiamo in
comune
La
vita non è un paragrafo, e la morte non è una parentesi.
Titolo:
La ragazza del treno
Autrice:
Paula Hawkins
Editore:
Piemme
Numero
di pagine: 306
Prezzo:
€ 19,90
Sinossi:
La
vita di Rachel non è di quelle che vorresti spiare. Vive sola, non
ha amici, e ogni mattina prende lo stesso treno, che la porta dalla
periferia di Londra al suo grigio lavoro in città. Quel viaggio
sempre uguale è il momento preferito della sua giornata. Seduta
accanto al finestrino, può osservare, non vista, le case e le strade
che scorrono fuori e, quando il treno si ferma puntualmente a uno
stop, può spiare una coppia, un uomo e una donna senza nome che ogni
mattina fanno colazione in veranda. Un appuntamento cui Rachel, nella
sua solitudine, si è affezionata. Li osserva, immagina le loro vite,
ha perfino dato loro un nome: per lei, sono Jess e Jason, la coppia
perfetta dalla vita perfetta. Non come la sua. Ma una mattina Rachel,
su quella veranda, vede qualcosa che non dovrebbe vedere. E da quel
momento per lei cambia tutto. La rassicurante invenzione di Jess e
Jason si sgretola, e la sua stessa vita diventerà inestricabilmente
legata a quella della coppia. Ma che cos'ha visto davvero Rachel?
La recensione
Fino
a due anni fa, non avevo mai preso i mezzi pubblici – se non in
gita, lontano da casa. Camminare mi piace e, con le cuffie nelle
orecchie, potrei fare chilometri senza stancarmi; ho la fortuna di
vivere in una realtà ristretta e il mio condominio, costruito chissà
quante generazioni fa in una zona strategica della città, è un po'
vicino a tutto – le poste, il centro commerciale, il liceo e, a un
chilometro scarso, c'è anche il mare. Alle superiori, sono
andato per cinque anni a piedi. Sulle mie gambe. Misurando il
tragitto col numero delle canzoni che ascoltavo strada facendo. Ho
scoperto quanti ritardi si concede Trenitalia e quanto poco la gente
tenga alla propria igiene personale nei miei primi mesi da matricola.
Sono distante un centinaio di chilometri dal mio passato di studente
liceale – non quanti vorrei, purtroppo – e quando i contratti
d'affitto scadono, in questo periodo, mi arrangio e faccio il
pendolare. Un'ora in treno – con il regionale, che costa di meno e
fa tappa presso paesini fantasma sull'Adriatico – e venti minuti,
mezz'ora, in circolare. L'eccezione è l'estate, che mette a dura
prova chi fa questi sali e scendi; altrimenti, da universitario, mi
sono accorto che viaggiare mi piace pure. Leggo un sacco, porto a
zonzo la mente e, quando l'mp3 esaurisce le sue energie, tengo
imperterrito le cuffie – così nessuno mi disturba – e mi
soffermo sulle chiacchiere dei passeggeri, sulle loro storie di cui
mi parlano le occhiaie della mattina presto e le telefonate a voce
alta. Guardo anche dal finestrino, c'è scritto non sporgersi, e
fuori il mondo va veloce, oppure resta fermo? Il ragazzo del treno
non poteva lasciarsi sfuggire, per ovvi motivi, dunque, La ragazza
del treno. Pubblicizzatissimo e così richiesto che, quando mi è
arrivato, omaggio della premurosa casa editrice, non ci credevo:
avevo tra le mani quello che annunciavano come il giallo dell'anno, e
io che ero convinto lo avrei comprato su Libraccio, chissà quando,
aspettando il cinquanta per cento. Curiosità alle stelle. Sarà che
in mesi in cui tutti vanno in ferie, anche gli uffici stampa, un
simile dispendio di energia per il lancio di un nuovo titolo non lo
avevo mai visto. E, sul retro di copertina, a presentare l'esordiente
Paula Hawkins c'erano due padrini illustri: S.J Watson – reduce dal
successone di Non ti addormentare – e soprattutto Stephen
King – che giurava che la Hawkins, con la sua storia imprevedibile,
gli avesse rubato ore di sonno.
L'intreccio, complicato, affascinante,
seguiva tre campane, tre vie, tre voci di donna. Parlava, a me
curioso, dei rischi della curiosità: come dicono i proverbi, è
quella a uccidere il gatto. Ucciderà anche Rachel, reduce da un
divorzio burrascoso con il fedifrago Tom, che nell'arco di un paio
d'anni ha perso casa, forma fisica, lavoro? Pigra e apatica, infatti,
vive paradossalmente di corsa: ogni giorno raggiunge Londra e,
sbirciando la pace della periferia dal solito treno, con una
bottiglia di vino in borsa, a un punto del tragitto deve confrontarsi
con puntualità con tutto ciò che ha perso. Non può fare a meno di
soffermarsi sulla sua vecchia villetta confinante con la ferrovia –
occupata adesso dalla bella Anna, che da amante occasionale è stata
promossa a compagna di Tom – e su un immobile vicino, abitato da
una giovane coppia che – immagina, sbagliando – vive una favola
moderna. Non sa che quella donna si chiama Megan e che non è così
felice, e così fedele, come pensa: i telegiornali annunciano la sua
scomparsa e Rachel, alcolista mai vigile, potrebbe essere stata
testimone di un gesto, un bacio rubato, capace di scagionare il
misterioso Scott, accusato della scomparsa della consorte.
La polizia
le crederà, nonostante l'insana gelosia che mostra, le bugie
avventate e le amnesie dell'acol? Trama accattivante, capitoli belli
e snelli, un triplice sguardo su un comune mistero. Eppure La
ragazza del treno è tutto una lunga, monotona nota dolente.
Trecento pagine quando potevano essere la metà – ma poi come fare
pagare il libro venti euro, che già così sono spropositati? -,
esiti prevedibili e uno stile anonimo. La Hawkins non è una maestra
di eleganza e la scelta coraggiosa di adottare tre voci narranti, per
lei che non è una cima, porta il romanzo a deragliare. Fastidiose
all'inverosimile, le tre donne hanno lo stesso timbro scostante e –
nevrotiche perché vittime del diffuso mal d'amore – fanno apparire
ogni uomo traditore e inutile la tripartizione del romanzo: storie
diverse raccontate palesemente da una persona sola. E ripensandoci,
man mano che i difetti diventano lapalissiani, neanche la trama si
rivela tutta questa novità: scomodiamo Hitchcock, con La finestra
sul cortile, ma anche il
modesto Derailed, con
un'attrazione fatale tra Clive Owen e la Aniston scoppiata come un
proiettile proprio in una selva di pendolari. Gonfiato da caso
editoriale e travestito in maniera convincente, La ragazza
del treno – sotto altre forme,
sotto altre maschere – si classifica come l'ennesimo aspirante
epigono di L'amore bugiardo.
Ma tra la Flynn e la Hawkins – nonostante la solidarietà femminile
– c'è lo stesso baratro che passa tra l'ultimo Fincher e i gialli
di Rai Due. In quanto a te, mio caro Stephen King, quella volta non
sarai riuscito a dormire perché l'età si fa sentire, nel cuore
della notte ti scappa a più non posso e Tabitha, cuoca provetta,
avrà cucinato la peperonata. Confidavo nel finale ma, incapace di
cattiveria, anche quello si rivela lampante come il resto: i
personaggi sono così pochi che anch'io, più abile col greco che con
la matematica, ho fatto due più due. In realtà, nei miei primi anni
di lettore non ho letto che thriller – tascabili in economica,
sempre targati Piemme – e se appartengono a un genere che di rado
ospito sul blog è perché mi sono bastati; letti tanti, letti tutti.
Si aspetta, perciò, la rivelazione folgorante. Quest'anno – dopo
La verità e altre bugie,
che comunque resta scritto meglio, e non è cosa da poco – La
ragazza del treno è il secondo
romanzo che le fascette presentano come il giallo del 2015. Se così
stanno le cose, tocca adeguarsi. Un'estate attaccati al
condizionatore, se i brividi di freddo sono i soli concessi. Fino a
quando, almeno, il controllore – o un grande editore – non ci timbrerà l'abbonamento alle patacche, sponsorizzando l'ennesima promessa mancata. Meta: delusione. Meglio scendere prima del capolinea?
Il
mio voto: ★★
Il
mio consiglio musicale: Kelly Sweet – In The Air Tonight (Phil
Collins)
Un
capolavoro rimasto in una valigia. Una figlia che lo
riscopre per caso e Suite Francese improvvisamente sulla bocca di tutti. Come uno schiaffo al nazismo. Mi ci sono
avvicinato quando al cinema arrivava il film: lieve,
di un bello che non fa rumore. Mentre il romanzo si articola per
racconti, la
pellicola si concentra su uno dei pochi momenti in cui puoi vedere i
protagonisti quasi felici: la campagna francese, l'illusoria quiete,
tempo d'amore. Ma questo Suite Francese è l'ultimo dei tre tempi che
il lettore ha già sperimentato, eppure non è solo quello. In un'ora
e mezza sanno trovare spazio trame amorose, sottotrame spionistiche e
alcune delle figure marginali che erano
contemplate nei capitoli che precedevano quello monografico sulla
dimezzata famiglia Angellier. Ovunque, l'eleganza, la pudicizia, la discrezione. Lo sguardo benevolo sulla guerra che, sono certo, non avrebbe reso
fastidiosa all'autrice la licenza poetica dello sceneggiatore: la suite
incompiuta di lei, ebrea, paragonata alla suite incompiuta di Bruno,
nazista. Saul Dibb, dopo The Duchess, torna alla
regia – e al dramma storico – e questa volta è più abile nel
dare voce ai personaggi e ai loro silenzi, anziché al gusto di una Knightley che, in quell'occasione, i cultori della
moda avevano amato e gli spettatori insensibili a nastri e cappellini
assai meno. Suite Francese, delicato e laconico come i suoi
appasionati personaggi, non è il polpettone che chi cerca singhiozzi
si aspetta. Controllato, alla maniera dei britannici, ha questi
Michelle Williams e Matthias Shoenaerst, splendidi, che si
corteggiano come col linguaggio dei segni. Puntuale e oroglioso,pensa più alla
coerenza dell'operazione che ai nostri dotti lacrimali e, anche se
non un'autentica trasposizione, con tutte le sue variazioni sul tema, si rivela un sentito omaggio, una vendetta. Una specie di tardiva vittoria. (7)
Poltergeist
non è un titolo familiare a chi è della mia generazione. Se l'ho visto – e non so dirvelo con
certezza, perché ho in testa una compilation di scene famose che
forse avevo occhieggiato nel reale lungometraggio, forse in
Scary Movie 2 – non l'ho venerato. Questo remake di dubbia utlità non sarà il peggiore horror che in estati
in cerca di vani brividi passeranno dalle nostre sale. Scorre e ripropone con autoironia le sequenze cult, viaggiando
maggiormente dalle parti del cinema fantastico che di quello che
dovrebbe farci strizza. La storie come tante dei
Bowen è al centro di un horror da bollino verde, dunque, che non dispiacerà
alle famiglie. Si scontra con
quello che pare una specie di capolavoro, ma con così tanto candore
– e leggerezza – che con questo horror buono dentro, alla fine,
non puoi essere cattivo. Si accontenta dell'essenziale e, poco
dark e con effetti speciali rigorosamente al computer, con il suo
cast non di primissima scelta, è una visione carina e senza pretese,
con presenze poco demoniache e, al contrario, angioletti di pargoli,
tra cui spicca il bravo Kyle Catlett – che quale anno fa o solo il
mese scorso? - è stato T.S Pivet per Jeunet. Si prende come
modello più la storia firmata trent'anni fa da Spielberg che la cupezza del prodotto di Hooper:
i bambini sono in pericolo ma si sa che non succederà loro niente di
grave; il lieto fine arriverà; la casa è infestata, ma con il
mercato che langue, tanto, sai quante ne trovi all'ombra dei tralicci
dell'alta tensione. (5,5)
Qualcuno
dice che è il primo amore che non si scorda, ma Claire ha sempre
avuto in testa Laura, sua migliore amica dai tempi dell'asilo. E' per
questo che quando muore, si prende
una pausa dal lavoro e si chiude in casa, preda di un dolore
incomprensibile ai cuori altrui. Quando Claire, ospite non invitata,
becca l'inconsolabile vedovo a indossare i vestiti della moglie
defunta reagisce prima con la ragionevole confusione, poi con la
curiosità che solo le donne hanno. Perché David sente il bisogno di vestirsi come la Laura che hanno entrambi amato? Omossesualità taciuta o
un modo per superare il lutto? Una nuova amica potrebbe sembrare l'Hitchcock più celebre o un
Almodòvar in crisi di identità; un noir sui disturbi della
personalità oppure un'esuberante racconto sopra le righe. Non è né
l'una né l'altra cosa, o forse entrambe. Come lo
sconsolato David che, una parrucca bionda e i tacchi, diventa la
querula Virginia; sostituto perfetto della migliore amica e dell'anima gemella. Una fuga dalla realtà, un compromesso,
quando per dire addio c'è tempo e l'atto di guardarsi dentro
– adesso che si è accasati –
crea tragicommedie. Una nuova amica ha i meccanismi
del thriller psicologico, la brillantezza della migliore commedia
sofisticata e l'indefinito erotismo di una drammatica indagine sulle
cose che più sfuggono e affascinano:
la sessualità, il desiderio. Ma altro non è che opera del bravissimo Ozon. Dunque l'eleganza – e l'ambiguità, e una regia
impeccabile, e personaggi cesellati con la cura che avrebbe
un analista - è compresa nel
pacchetto. Non ci sono dissonanze, solo una credibilità forte, e non
ha sbavature il trucco di questo Romain Duris che recita en travesti, mentre la seducente Anais
Demoustier gioca a fingersi sua amica, amante e perfino rivale, nella sequenza immaginata in cui Duris, sotto la doccia,
tocca il marito di lei. Con il cervello e l'anima che litigano, le
membra che cercano un inammissibile tipo di abbraccio e i guardaroba,
invece, che preferirebbero l'altra parte – quella sbagliata – del negozio di abbigliamento all'angolo. (7,5)
Lui, muratore, conosce
lei, annoiata figlia unica di una coppia borghese. Partono col
piede sbagliato: può da una lotta corpo a corpo nascere la
scintilla? Lui, che è segretamente romantico, segue perciò lei, che è un
pezzo di ghiaccio, a un campo di addestramento: le ragazze di oggi sognano di entrare
nell'esercito. Così, tra una corsa a ostacoli e la levataccia al
mattino, vivere tutt'uno con l'ambiente e scoprirsi più alti di una
spanna. Questa, in parole semplici, la trama del semplice Les
Combattans, che da noi si becca un titolo anglofono e il sottotitolo Addestramento di vita.
Opera prima rinfrescante e dotata di spunti mai sfiorati prima dalla
romcom tradizionale, forse non meritava tutti i premi che ha vinto qui e
lì – per nulla impegnata, non abbastanza chic da essere
sopravvalutata -, ma ha dialoghi aciduli, due protagonisti abbastanza
bislacchi da risultare memorabili e un'aria tutt'altro che
perfettina. Eccolo, il suo segreto, insieme a un romanticismo che
meno romantico non si può e alla giunonica Adèle Haenel,
divertentissima e adorabile nella sua impassibilità di soldato fatto
e finito (e poi, diciamolo, con “quella sua maglietta fina” tutta
bagnata sta benissimo). Battute mirate, colonna sonora che gasa e un epilogo ahimè un
po' così - tu chiamalo sospeso, io inconcludente –
anticipato da una ansiogena scena da survival horror. Sono
abituato alla commedia francese che sa di roselline di campo, Chanel
n°5 e altri luoghi comuni, ma anche questa – che odora di napalm
al mattino – non è mica male. (7)
Una
studentessa incontra un cowboy: è colpo di fulmine. Un novantenne,
nel frattempo, prende in pieno un guardrail: il suo, invece, è colpo
di sonno. Una storia che nasce e una che finisce si incrociano
nell'ennesima trasposizione di Nicholas Sparks.La
risposta è nelle stelle però
non funziona, e lo dico da spettatore saltuariamente tollerante al
suo saccarosio che, senza pregiudizio, si è sorbito queste due ore –
tante – in compagnia di una vicenda doppio strato – da un lato la
gioventù oggi, dall'altro il matrimonio ieri, sull'abusato sfondo
della guerra. Young adult più melò: un polpettone alla Rai Uno
sconsigliato agli insofferenti cronici che tra scontatezze, morti
tragiche che latitano – Sparks, qui non uccidi nessuno?-
e dialoghi tremendi sembra la casa terremotata delle fiabe coi
mattoncini del meglio di The
Notebook e
del peggio di The
Last Song.
E' che più di uno Sparks all'anno non si tollera e che quest'anno ho
già visto l'accettabile The
Best of me,
o che questo film è prolisso e dolciastro da non credere? Ma occhio
a Britt Roberts – io l'ho già adocchiata e sono un suo stalker
convinto – e a Scott Eastwood, che dalla sua ha un padre leggendario e una faccia straordinaria. Mistero le
recensioni, a sorpresa, positive. Mistero ancora più misterioso il
titolo italiano: penserei a una strizzata d'occhio aColpa
delle stelle,
se non fosse che il romanzo – con il titolo uguale – ha ormai
qualche anno. Al massimo, tra buoi, cavalli e vaccate varie, alcune
perdonabili e altre no, inThe
Longest Ridela
risposta agognata sarà nelle stalle?
(5-)
Dopo
il buon Starbuck – paradossale storia di un donatore di
sperma che si scopre padre di un migliaio di figli sparsi per il
mondo – e il remake americano che avevo evitato, immaginandolo
uguale all'originale, il canadese Ken Scott torna alla commedia a
stelle e strisce: rumorosa, volgarotta, canonica, simpatica. Piacevole abbastanza. Si ridacchia, infatti, nel seguire
tre perdenti – un padre assente, un venticinquenne con la testa tra
le nuvole, un anziano che vorrebbe divorziare – e il tentativo
rocambolesco di siglare un vantagioso accordo, anche se la spietata Sienna Miller trama loro conto. Si vola a Berlino nella
stagione clou e si pensa alla famiglia lontana, alla prima volta, alla
giovinezza persa. L'avventura europea di tre che hanno probabilmente
visto troppe volte Jerry Maguire – e American
Pie – nel suo piccolo sembra funzionare, soprattutto grazie a
un cast calibratissimo, con un comprimario come Nick Frost, grasso
campione della risata grassa. Vince Vaughn e i suoi soliti ruoli; il
due volte candidato all'Oscar Tom Wilkinson, che ha la leggerezza dei
giovani; Dave Franco, fratello minore di James, che ci meraviglia con
tempi comici notevoli, la timidezza dei nerd e la sbadataggine che
lui, belloccio, di certo non conosce in prima persona. Affidati a
lui, tra visite ai glory hole e posizioni del kamasutra non meglio
idenficate, i momenti in cui si ride, non si pensa a niente e
svanisce così, magicamente, l'ansia da Estiva. (6)
Come
si può convivere con il fantasma di ciò che è stato e lo
spettro di ciò che non sarà mai? Non si può, ecco perché si
muore. Non invecchiamo a forza di vivere la vita, ma a furia di
ricordarla.
Titolo:
Il ladro di nebbia
Autrice:
Lavinia Petti
Editore:
Longanesi
Numero
di pagine: 426
Prezzo:
€ 14,90
Sinossi:
Antonio
M. Fonte è uno scrittore di enorme successo, ma per lui fama e
ricchezza non hanno alcun significato. Stralunato e sociopatico, vive
in una vecchia casa dei Quartieri Spagnoli di Napoli con la gatta
Calliope, e se non ci fosse il suo agente letterario a ricordargli
scadenze e doveri sarebbe incapace di distinguere ciò che è reale
da ciò che forse non lo è. Ma un giorno, in mezzo alle migliaia di
lettere dei suoi ammiratori, Antonio ne riceve una che non può
ignorare. Datata quindici anni prima, è indirizzata a una donna che
Antonio non crede di avere mai conosciuto. Solo il nome del mittente
gli è familiare, perché è il suo. Quella lettera l'ha scritta lui,
senza alcun dubbio. Quelle parole accennano a un ricordo smarrito e a
un uomo che è stato ucciso, forse da lui stesso. Ma Antonio di tutto
questo non ricorda nulla. Il giorno del suo cinquantesimo compleanno,
si perde nei vicoli di Napoli e in un palazzo mai visto prima
incontra uno strano personaggio che ha la mania di raccogliere tutto
ciò che gli uomini perdono: nel suo Ufficio Oggetti Smarriti non si
trovano solo mazzi di chiavi, libri o calzini spaiati, ma anche
ricordi di giochi infantili, amori giovanili, speranze e sogni
dimenticati. Antonio intuisce che è da lì che deve partire per
ritrovare il filo del suo passato e risolvere l'enigma della lettera.
Ma quell'enigma nasconde arcani ancora più insondabili: il segreto
di una città che cambia forma e aspetto, l'avventura di un viaggio
imprevedibile...
La recensione
Mi
è sempre piaciuto mettermi nei panni degli altri: sarà per questo
che ho cominciato a leggere. Da bambino, ad esempio, mi immaginavo
dall'altra parte della cattedra quando arrivava la bella stagione e,
a scuola, ci si doveva dire arrivederci. A volte buona estate, a
volte buona vita. Si sentivano tristi per un po', gli insegnanti,
quando una classe - e gli alunni che avevano conosciuto attraverso
quei pensieri segreti messi a nudo nelle tracce libere - abbandonava
le medie per le superiori o, ancora, le superiori per l'università,
sempre che la voglia di studiare non si fosse esaurita strada
facendo? Soffiavano spifferi o vento di tempesta all'alba di un
altro rinnovo generazionale? Ma sapete poi che noia imparare i nomi e
i cognomi, decifrare le calligrafie, aguzzare i sensi per conoscere i
ritmi e i tempi di ogni testa pensante? Ma sapete che gioia
passeggera, eppure, quando il dubbio ti faceva sognare e, al momento
dell'appello, cominciavi ad associare i nomi ai volti - e se quel
Simone aveva tutta l'aria di un Paolo, pazienza - e a fantasticare su
chi avesse la stoffa giusta per farcela? Mi sono sempre piaciuti i
primi giorni per la magia delle cose che nascono. Bisogna esserci col
brutto anatroccolo, il girino, il bruco, il primo passo mosso su un
pianeta ritrovato: sarà per questo che, da quando c'è il blog, ho
cominciato a seguire come un'ombra amica gli esordienti italiani. Se
mi piacciono, mi ci affeziono e non li mollo più. Come è successo
con Carrisi (che mi inquieta), la D'Urbano (che mi ferisce) e la
Gazzola (che mi fa bene), di cui ho parlato così tanto, ma così
tanto che alla fine neanche loro hanno saputo ignorarmi più. A
partire da oggi, succederà lo stesso con Lavinia Petti (che se in
futuro ci regalerà un libro bello anche solo la metà di Il
ladro di nebbia avrà le mie
attenzioni, purtroppo per lei, fino alla pensione). E dire che ero
scettico sul romanzo che, per dispetto, mi avrebbe strappato, di lì
a qualche giorno, le prime cinque stelle dell'anno corrente. Troppo
presente l'ombra di Zafòn - e del vento - nel titolo e in quella
copertina rosa antico con gli stormi in volo e i ladri di storie in
fuga; troppa pubblicità, e io che non sono mai stato bravo a distinguire se c'è l'imbroglio oppure no; devo sbatterci la
testa per accorgermene. Invece, sin da quando l'ho iniziato a
sfogliare in treno e per un pelo non stavo per scendere alla fermata
sbagliata, Il ladro di nebbia
mi si è piantato qui, nella mia testa perdutamente tra le nuvole.
Uno scrittore misantropo, il ritratto di una donna misteriosa, una
Napoli labirinto splendida come nell'ultimo Garrone, una torre
campanaria che compare dal nulla quando perdiamo la memoria insieme
alla retta via: cinquanta pagine e la fascinazione aveva già avuto
la meglio. Anche se per il meglio c'erano ancora quattrocento pagine
d'avventure e un mondo straordinario da scoprire al capitolo
successivo. Stravedevo per i piccoli dettagli sul brusco Antonio M.
Fonte, quando non avevo ancora visto la grandezza sorprendente del
disegno finale. Come quella volta in cui avevo perso la scatola del
puzzle e avevo assemblato le tessere alla cieca: tanta fatica per
scoprire che non era un pezzo dell'impressionismo francese, ma era
stato emozionante uguale il lento arrivo alla conclusione che
fosse una natura morta da niente e non un capolavoro da museo. Un po'
succede così con Il ladro di nebbia,
però al contrario. Partire dal pregiudizio che sia il lavoro di una
brava falsaria e approdare alla conclusione che di Zafòn – per
anni, tra i miei scrittori preferiti – ci sia la benedizione e poco
altro; il fantasy della Città delle Sirene, come quel caffè che
sul a Napule sanno fa', ha un gusto da
provare. Nei Quartieri Spagnoli, al sesto piano di un palazzo che ne
ha solo cinque, c'è il portale per il regno di Tirnaìl. Un
ascensore che conduce sulla terrazza che non c'è e conoscere Edgar,
un pittore in cerca d'ispirazione che dipinge le sue tele con tutte
le sfumature del bianco.
Un salto a Vanesia, città in cui si vendono
e acquistano sogni, e cercare di comprare all'Asta delle Illusioni
l'amore di una ragazza dai capelli verdi conosciuta in un'altra vita,
Gèneve: quando sul bordo di un fiume la notte dei cristalli
produceva il suono più struggente e ci si era lasciati al tramonto,
prima della scelta consapevole dell'oblio. E, mi raccomando, occhi
aperti: i Nox del Conte Vampiro – con l'ausilio della notte –
potrebbero desiderare il tuo sangue dolce e i tuoi ricordi felici! Ma
i numeri sull'orologio stanno svanendo, il tempo sta per finire: e,
con lui, stai per finire
anche tu. Gatti che spiano i nostri sogni, nomi barattati per un
sorriso, pescatori in cerca dell'odore del mare, ballerine che hanno
scordato i passi base, treni da prendere al volo e vite che – in
girotondi che non finiscono più – tornano a bussare alla porta
travestite da quello che non sono. Rincontrarsi, se tutto va bene,
alla fine del mondo. Dirsi ti amo
ma anche buon viaggio.
Riuscirà lo scrittore più scorbutico, Antonio, a salvare la storia
più importante, la sua? L'erba della collina di Mnemosia quale
doloroso ricordo gli sussurrerà? Quante domande, quante storie in
una e, soprattutto, quanta bravura. L'arzigogolata e romantica “storia
infinita” di Lavinia ha i toni surreali - e i capelli multicolore,
e i "se mi lasci ti cancello" - del cinema di Gondry; i mondi
fatati di papà geniali, come in Big Fish
e Al di là dei sogni;
paesi delle meraviglie e maghi di Oz in gran quantità. Viaggia un
po' sulle ali del buio, un po' sua una Fiat Panda scassata, quando è
stanca. Dovrebbe
essere, perciò, uno di quei romanzi con all'interno una cartina
disegnata a mano. Una favola di libro - in tutti i sensi - con bambini di cinquant'anni come protagonisti. E se la dimenticanza di chi in
un anno legge troppo dovesse minacciarlo, sarei pronto – come Orlando sulla luna, con il suo senno disperso – a cercarlo
nell'Ufficio Oggetti Smarriti; oltre le mie colonne d'Ercole.
Il
mio voto: ★★★★★
Il
mio consiglio musicale: Paolo Conte – Vieni via con me (It's
Wonderful)
Serie
che spuntavano come funghi nel mio periodo di reclusione forzata. E,
tra queste, serie che non immaginavo neanche di avere il bisogno di
seguire. Nello specifo, questa qui, scritta – e, per qualche
episodio, diretta – dai fratelli Wachowski. Amati e odiati creatori
del cult Matrix,
da poco reduci dal fiasco Jupiter
Ascending, qui
cento passi avanti e uno indietro. La Netflix a produrre, storie
dentro storie e – all'inizio - l'ombra di quel povero Cloud
Atlas tanto
messo al vaglio per il quale avevo invece straveduto. Sense8,
per leggerezza, piglio autoironico, giusta misura, è senz'altro
migliore. Non ha momenti morti. Nella sua fantasiosa coralità, non
ha una storia che ti piace e un'altra no. Risulta talmente ben
pensato che gli otto personaggi – nati nello stesso giorno,
connessi, in pericolo mortale – a turno promettono di diventare i
tuoi preferiti. Un giorno preferisci Riley, deejay islandese che sta
tornando a casa; un altro, invece, Sun, imprenditrice koreana dai
colpi segreti, in una prigione di massima sicurezza per colpe non
sue; Nomi, che un tempo si chiamava Michael; Lito, star messicana,
che nella vita privata vive un comico mènage a tre; Wolfgang, duro e
selvaggio, ai ferri corti con mezza Berlino per un furto di diamanti; Will, sbirro provetto nella pericolosa Chicaco; Kala, bellissima indiana alle prese con un matrimonio combinato;
ancora, Capheus – africano – con un pulmino sgangherato che ha il
nome di Van Damme e una propensione per i guai. Personaggi in
divenire che, sfidando fusi orari, latitudini e paradossi, a volte
vengono a trovarsi nella medesima inquadratura grazie a splendide
sequenze d'insieme – è il caso di What's
Up che
passa al karaoke, di un'orgia
impossibilein
cui all'unisono si raggiunge il piacere, del ricordo della miracolosa
notte delle loro nascite.
L'intreccio, a volte, può ricordare i prodotti commerciali di una
The CW – ad esempio Heroes,
che alle medie adoravo: voi avevate l'album di figurine, sì? - ma si
sposa a momenti di pura bellezza – e personalità, e passione -
indiscutibilmente autoriali. E Sense8è
lì che è fantastico, nella normalità di un giorno qualunque;
quando non succede granché. Ti prendi il tempo per conoscerli e
comprenderli – e non so raccontarvi, adesso, quanto sia intenso il
nono episodio, ad esempio, in cui gli inseguimenti vanno a nanna
par lasciare pace ai due diversi,
Nomi e Lito, che in un museo vuoto danno vita a un dialogo mentale in
cui parlano delle loro relazioni. Lei che prima era un lui, che poi è
diventato una lei, che poi si è innamorato di un'altra lei; lui –
sempre stato convinto della propria mascolinità, al contrario –
che al primo appuntamento, già cotto, faceva un pompino a quello
sconosciuto che parlava d'arte in uno squallido bagno pubblico,
eppure non c'era squallore alcuno. A Sense8 credi
e subito giureresti di credere nel prossimo, vincendo la tua
diffidenza da misantropo; contagiato dall'intensità, sconquassato
dall'empatia. C'era il video di questa canzone pop, un pezzo per
l'estate della Minogue, mi pare, di cui non ricordo ora come ora
neanche il ritornello; alla base, comunque, aveva una gran bella
idea. Gli amanti di New York si spogliavano e, in mezzo a strade
vuote, rimanevano solo in biancheria intima: si baciavano, si
mischiavano, formavano una piramide umana. Un corpo solo. Non si
sapeva dove iniziassero e finissero le bocche. Di chi fossero le
mani, le braccia, la pelle esposta. Gli uomini e le donne - i
bianchi, i neri, i gialli e le incredibili sfumature che stanno a
metà, frutto di una splendida mescolanza di razze - condividevano il
cuore. Si amavano i maschi con i maschi, le femmine con le femmine,
in ogni alternativa possibile, e - sarà che erano tutti così belli
e di quella bellezza che non fa spavento, sarà che mi piace pensare
che anche allora la tolleranza fosse di casa - avevano l'aspetto che
immagino abbia l'armonia. L'ordine, sulla terra, era una forma
geometrica tutta nuda e senza vergogna. Pensieri – e immagini –
che mi sono tornati in mente anni dopo, quando di quella canzone mi è
sfuggito di mente il titolo e, dalla tivù della mia stanza, è
arrivato e se ne è andato, in un paio di giorni,
l'impensato Sense8: per
me, attualmente, serie dell'anno.Il
minimo comune divisore di un grande amore (o otto?), e tutto il caos
trova così un senso. (9)
Orphan Black
Stagione III
Questo sembra
essere l'anno in cui le serie che seguivo o finiscono o,
puntualmente, mi deludono. Che posso farci? Due anni fa ho conosciuto
una rivelazione di nome Tatiana Maslany – santificatela subito –
e ho consigliato la sua serie
a parte del mondo conosciuto, probabilmente. Orphan Black
era bellissimo, originale, a
tratti divertente: andava recuperato per forza. Già la seconda
stagione, similissima alla prima e con poca voglia di fare, mi
avrebbe lasciato un po' così, appeso all'incertezza più totale, se
non fosse stato per quel colpo di scena finale che, come nella
migliore tradizione degli ultimi episodi, mi aveva lasciato con la
curiosità a mille. Non c'erano solo le “sorelle” del misterioso
Progetto Leda: accanto a quelle donne baciate dalla scienza – una
casalinga disperata, una detective, una hacker, un'ucraina omicida e
via dicendo – c'erano anche, a sorpresa, cloni uomini. Il Progetto
Castor e i suoi spietati assassini dalla stessa faccia: l'altro lato
del medesimo esperimento. Si parte da loro, subdoli e manovrati
dall'alto, e sono tutti Ari Millen: uno che è bravo, ha una faccia
pure interessante, ma vuoi paragonarlo forse al camaleonte – e
uragano - Tatiana? Consideriamo comprimari, e aspiranti villain, che
sanguinano a volontà, ma non hanno il carisma sperato. Consideriamo
che il parlare di fantascienza-fantascienza risulta incomprensibile,
e che il succo della vicenda – clonazioni e compagnia bella –
almeno io non lo seguo affatto bene, quando dovrebbe essere il
fondamento di tutti e dieci gli episodi, da patti. Consideriamo una
parte centrale – con le sestra Sarah
e Helena intrappolata nella base dei cattivi – che non vedevo
davvero l'ora finisse. Cosa resta? Una protagonista straordinaria che
tutto può, e vabbè, e i siparietti comici messi in atto dagli amici
giulivi, dalle massaie che si danno allo spaccio di stupefacenti
causa Breaking Bad,
dai karaoke intonati nei fumosi bar londinesi. Una terza serie,
dunque, che si ricorda più per l'ordinario che per lo straordinario.
Se laboratori e intrighi organizzati da menti superiori non mi hanno
coinvolto a dovere – con Sarah, autentica protagonista, che appare
sottotono e Cosima che, alla Nolan Ross, ci intrattiene con triangoli
in rosa di cui importa poco, nonostante lo splendore delle due
pretendenti al suo cuore -, hanno saputo farlo l'impresa di famiglia
di Alison e Donnie – e quell'ex che spunta dal passato non è forse
il Justin Chatwin di
Shameless? - e gli scleri della pazza Helena che a volte si rivela un
agnellino, a volte un leone, ma è sempre e comunque una forza.
Soprattutto se condivide lo stesso tetto, per un arco di episodi, con
la mia spacciatrice – e madre di famiglia - preferita: a quanto, ci
chiediamo tutti, una sit-com sulle due? (7-)
What Lives Inside
miniserie tv
Uno
scrittore amato da generazioni di bambini muore all'improvviso. Al
suo funerale, quel figlio con cui non ha mai avuto un gran rapporto –
lui che è stato padre metaforico di tanti ragazzini, ma non del
sangue del suo sangue. Tra le chiacchiere di circostanza e le
condoglianze non sentite fino in fondo, quel bambino solitario
diventato uomo e, nel laboratorio del genitore, in mezzo a modellini
e bozze, scorge una porta segreta. Quella che porta al mondo
interiore del papà. Sarà realtà o immaginazione? Nel cast, Colin
Hanks – figlio di un padre che non troppo tempo fa è stato
amatissimo come quello del protagonista -, mamma Catherine O'Hara e,
in una comparsata delle sue, il fresco vincitore dell'Oscar per
Whiplash, J.K Simmons.
What Lives Inside –
strano prodotto di cui mi sfugge la definizione: come li chiamate
quattro episodi totali di dieci minuti ciascuno? - è una colorata e
malinconica creatura fatata, che ha qualcosa di Big Fish e
qualcosa di Alice in Wonderland.
Le ispirazioni e l'affetto del Burton migliore, gli effetti speciali
di quello peggiore – nonostante un budget altissimo e un lato
grafico ottimo. Quaranta minuti sono un po' pochi per appassionarcisi
davvero, ma visivamente, questo, è un gioiello che non lascia
indifferenti. Il trionfo dello schermo verde, l'ennesimo, che arriva
a modo suo anche dalle parti del cuore. Per forza di cose, si ferma
prima di appassionare, ma guardato come un esperimento – un inedito
buona la prima – lascia confusi perché è già finito, e come è
possibile?, ma incantati perché raramente sul piccolo schermo del
nostro computer, almeno che non si parlasse di un film piratato, sono
passati sprazzi di luce - e note - tanto suggestivi. (6,5)
La
mia recensione: Non
amo i romanzi in serie, salvo casi eccezionali. Il personaggio
principale, indipendentemente da dove la trama andrà a parare, deve
farmi divertire. Ecco perché la Alice Allevi di Alessia Gazzola –
presto anche in tivù, avete saputo? - è ospite fissa sul mio
comodino, quando fa freddo; ecco perché, almeno per altri due libri,
potrei sfruttare a volontà la compagnia della strampalata Harriet
Manners – modella, secchiona, disastro – quando avrò bisogno di
una lettura da spiaggia e di quattro risate. Dopo un anno, la mia
Geek Girl preferità è tornata sulle passerelle – e nei
laboratori di chimica – ma la aspetta un lungo apprendistato. La
prima volta, notata da un mostro di stilista mentre lei era tutta
intenta a nascondersi, ha scoperto che i suoi capelli sono rosso
carota e non biondo fragola, che sulle nevi russe è impossibile
camminare coi tacchi e che tutto può succedere.
In questo secondo volume, con professionisti che chissà perché
rimpongono in lei fiducia, vola in Giappone – per servizi all'ombra
del monte Fuji, coinquiline così dolci da fare venire il diabete e
principi azzurri che hanno abbandonato la nave – e si prepara a
sbocciare. Mentre i suoi amici sono via per le vacanze, la sua
matrigna sta scodellando una sorellina e per la povera Harriet nel
futuro ci sono cadute clamorose, insospettabili tranelli e fidanzati
che a volte, come nelle fiabe e negli horror, ritornano, Tokio –
caotica, sempre in festa, così colorata da fare male agli occhi –
assisterà alla più vivace tra le estati di una che, pian piano, si
sta abituando a essere stordita dai flash e che, ancora più
lentamente, se possibile, sta cercando di aprirsi all'idea
irrazionale che anche in un Paese straniero sola non è mai. Holly
Smale, dopo un frizzante esordio, firma un frizzante seguito:
divertente, secchione, okeissimo – per citare la stessa Harriet.
Dalle parti di Diario di una schiappa e New Girl. Una lunga barzelletta, di quelle educate, con
ambientazione esotica annessa. E, nonostante gli occhi a mandorla e
il trucco da geisha, c'è una tipa, al comando, che è impossibile
confondere con altre spilungone. Anche in una folla di giapponesi in
smoking, che si affrettano per le strade perché è scattato il
verde, tu la riconosceresti. Harriet Manners è quella che, appresso,
ha un signore sovrappeso vestito di fucsia che apostrofa i passanti a
suon di complimenti nuovi di pacca, un boss che è un incrocio tra un
nano da giardino e Satana, una nonna acquisita che sembra reduce da
una notte brava in discoteca, e forse è proprio così. Harriet
Manners è quella lì che inciampa, cade, si fa rossa e scoppia a
ridere. Tu, contagiato, la imiti – nella risata e, se sei un po'
così, geek, anche nel pubblico capitombolo.
Titolo:
Qualunque cosa significhi amore
Autrice:
Guia Soncini
Editore:
Giunti
Numero
di pagine: 260
Prezzo:
€ 14,00
Il
mio voto: ★★★
La
mia recensione:Tornavo vittorioso da un esame durante la
preparazione del quale avevo scoperto che leggere testi teatrali mi
piaceva molto. Anche obbligato dalle circostanze, non potevo infatti
non notare quanto mi appassionassero gli elementi che, prima di
allora, avevo sperimentato solo con la compagnia di qualche film di
nicchia che avevo visto da solo, con la paura di annoiare il prossimo
– pochi personaggi, dialoghi, uno spazio chiuso. Ecco perché,
davanti alle ultime uscite della Giunti, la mia scelta era ricaduta
sul romanzo di Guia Soncini – che dalla sua ha
copertina e sinossi bellissime. Storia di matrimoni e segreti sullo
sfondo della Milano da bere. Location: la festa di compleanno
dell'aspirante sindaco, che non ha la vita da sogno che tutti
invidiano. Il Vanni mondano – di origini molisane – è frutto del
matrimonio con Elsa, tutta xanax e strategie, a cui Lady Macbeth fa
un baffo. In Qualunque cosa significhi amore tutti
lavorano per televisione e stampa; tutti conoscono – e disconoscono
– tutti; tutti – le amanti senza arte né parte, le psicologhe da
strapazzo, i cameraman – sono figli delle scelte di tutti. Esempio
estremo, dunque, della sinistra estrema – che non guarda Mediaset,
al massimo Fazio – sotto sotto ridicola quanto un salotto di Uomini
e Donne, con i toni radical chic
che fanno più ridere dei capelli della Cipollari, gli articoli
determinativi davanti ai nomi propri, le librerie con gli Adelphi disposti in
certo modo meno tollerabili, forse, dei troni di cartone dei
pomeriggi trash di Canale Cinque. La commedia umana della Soncini –
che ha la stronzaggine della Lucarelli nelle poche volte in cui dice
cose giuste – è scritta bene e piace, per quanto possa piacere una
cosa di cui detesti i personaggi dal primo all'ultimo. Ha segreti-non
segreti, finali-non finali, scandali-non scaldalosi che la rendono,
insieme alle comparse della De Filippi e di Alessio Vinci, però
della materia di cui sono fatti i rotocalchi. Antipatico,
chiacchierone, ma capace di stuzzicare la curiosità legata a un
mondo che tu non conoscerai mai - e chi vuole conoscerlo? C'è che dopo un po' anche le frecce velenose del suo arco vengono a mancare e in
trecento pagine si esauriscono. Cinquanta in meno e avrebbe guadagnato ritmo, freschezza: avrebbe avuto un colpo
segreto da scoccare. L'amore, invece, è una sudata partita di tennis e
tutti i personaggi, inquadrati in matrimoni infelici, giocano
contro un muro di cemento, anziché sfidare un rivale dolcemente
(in)degno di loro. La convivenza è più un monologo o un dialogo?