venerdì 10 luglio 2015

Mr. Ciak: 5 to 7, Ted II, While We're Young, Burying The Ex, Woman in Gold, Duri si diventa

Brian vive in un monolocale e, alle pareti, tiene appese le prove dei suoi fallimenti. Ma ha ventiquattro anni appena e, fuori dalla finestra, la città più stimolante del mondo: New York. E succede così che, durante una delle sue lunghe passeggiate, dall'altra parte della strada vede Arielle, all'angolo fumatori di un ristorante di lusso: si innamora a prima vista. Lei – francese, felicemente sposata, di dieci anni più grande – per qualche motivo ricambia; tuttavia, nel suo matrimonio aperto, c'è posto per un giovane amore adulterino una volta a settimana, per due ore. Ma se lui, ragazzo di sani principi, non capisse cos'è questa storia che i francesi, civili e libertini, sono disposti a condividere l'anima gemella con un terzo incomodo? E se a quell'adulta che si chiama come un sirena – e delle sirene ha il potere di sedurre poveri marinai e confusi scribacchini – a un certo punto non sapesse più rinunciare? 5 to 7, ai più sconosciuto, è una delizia di commedia romantica che, in tutta sincerità, mi aveva incantato sin dalla copertina. Ho potuto giurargli un po' d'amore nell'ora e mezza in cui, spensierato, mi sono goduto coi protagonisti lo spettacolo raro del cielo in una stanza. Bizzarri amici di letto, il romanziere e la sua esotica Mrs. Robinson passano il tempo che hanno a disposizione a braccetto, nelle suite degli hotel, passeggiando a Central Park, andando a pranzo con il marito di lei e a cena con i genitori di lui. Intraprendono conversazioni lunghissime e, prima e dopo il sesso, si confrontano sugli americani moralisti e sugli europei spregiudicati, progettando nuovi sogni e scrivendo nuovi racconti. Creando inconsapevolmente, insieme, un gioiellino di parole e fatti, un po' newyorkese e un po' parigino, ma comunque tanto malinconico. I sentimenti secondo Victor Levin flirtano con Allen e Truffaut, e coinvolgono con uno di quegli amori sospesi e un epilogo limone e vaniglia che incrina il cuore. Arguto, loquace, colto. Classe sconfinata che fischia appresso ai taxi gialli, degusta vini rinomati e fa ridere chi, smaliziato, sa che “baiser” non significa quel che tutti pensano. Avvenenti e naturali, i proprietari di queste due anime trasognate – e di questi visi che fanno centro - danzano su melodie da gourmet. Anton Yelchin, mite e dalla voce bellissima, che fa gli stessi film che farei io se fossi un attore avvenente e naturale, mite e dalla voce bellissima, ovviamente; e – nel suo letto, al suo braccio – la soprannaturale Bérénice Marlohe. Una che quando sorride ferma il traffico. (7,5)

Il caro Ted è tornato. Dopo averci parlato di come la magia del Natale avesse regalato un migliore amico a un bambino solitario, adesso l'orso sporcaccione di MacFarlane è pronto a diventare papà. Come dimostrare di essere umano? Mentre perde lavoro e moglie, un'avvocatessa rampante e l'inseparabile amico John lo aiuteranno nella lunga battaglia per i diritti (in)civili. Il primo film, divertentissimo, aveva messo d'accordo tutti. L'estate scorsa, poi, il regista – lì anche attore in carne e ossa – ci aveva riprovato con Un milione di modi per morire nel west, e anche in quell'occasione – tra crossover, momenti da musical e cameo folli – aveva centrato il besaglio. Il successo cerca successo e un sequel non poteva mancare. Da parte mia, l'accoglienza era delle più favorevoli. Però, come nel caso di Pitch Perfect e 21 Jump Street, ecco un altro seguito sì atteso, ma poco necessario. Una delle famose volte in cui si ride più con il trailer che con il lungometraggio in sé. Fatto di quella comicità nonsense poco familiare agli italiani, strappa risate nelle poche scene non contemplate negli spot tivù – ad esempio, riferimenti scorretti a personaggi noti e a tragedie mondiali cinicamente scomodate. Sensibile forse senza volerlo, funziona paradossalmente più nei momenti da film per famiglie – riposte via droghe e birre – mentre la sua comicità bostoniana lascia freddini. Per il resto, tralasciando una capatina al Comic Con, sono poche le soddisfazioni legate al vecchio cast – nuovo ingresso, giusto la solare Amanda Seyfried – ma c'è il tema, in compenso, a fare pensare. Ted 2, infatti, a modo suo, mi è sembrato anticipasse il giorno in cui Facebook si è colorato d'arcobaleno e gli hashtag, su Twitter, hanno celebrato un altro passo avanti della civiltà. (5,5)

Quando ci si accorge di essere diventati adulti? La vecchiaia, per Cornelia e Josh, è un'invenzione borghese: loro – ben oltre i quarant'anni – si sentono reattivi, innamorati, così diversi dalle coppie di amici che, vuoi i figli, vuoi la famiglia tradizionale, sono cresciute in un giorno solo. Ma si sentono fuori luogo accanto ai loro coetanei, dotati di una voglia di diventare genitori che loro non sentono particolarmente, proprio come non si sentono di stare al passo con Jamie e Darby, venticinque anni e tutto il tempo per rivoluzionare il mondo del documentario. Più deprimente chiudersi in casa, rassegnati, o tentare la via, tra pattini e lezioni di danza, di una seconda e impossibile gioventù? While we're young – da noi, Giovani si diventa – parla della vana ricerca del tempo perduto e, con un colpo di scena che colpo di scena non è, della spietatezza del rinnovo generazionale: quella coppia hypster tanto affabile sta dando loro un'altra possibilità, in nome di una strana amicizia, o sta cercando di strappare via dai due – soprattutto da lui, competitivo e geloso - la soddisfazione delle ultime volte, con relazioni “usa e getta” e bugie su bugie? La commedia scritta e diretta da Noah Baumach – di cui mi tocca recuperare quel Frances Ha acclamato come capolavoro – è profonda, intelligente, bene interpretata. Prevedibilmente riuscita, nel bene e nel male. Nel bene, perché fa sempre piacere vedere uno Stiller più serio del solito, una Watts che si scatena, gli occhi da bambola della Seyfried e il viso indefinibile del promettente Adam Driver; nel male, perché Giovani si diventa è profondo, intelligente, bene interpretato proprio come immaginavi fosse prima di vederlo. Cosa va ad aggiungere ai Peter Pan del primo Muccino – ma qui senza strepiti, fortunatamente -, che inevitabilmente sentivamo anche più vicini a noi? Niente, o così mi è parso. Ma è un niente, il mio, che non sottintende disprezzo. Fa molto più che compagnia e, in definitiva, molto meno che rumore. (6,5)

Lo scorso anno, a un Festival di Venezia più serioso che mai, veniva proiettato Burying the Ex. Ventata d'aria fresca e ritorno alla regia di Joe Dante – regista di commedie horror come Gremlins; anche per me, che all'epoca non ero neanche nella mente dei miei genitori, must. Dopo averci provato con gli spauracchi per ragazzi e il 3D, eccolo con una storia divertente e sanguinosa. Max ama Olivia a cui è legato da una forte attrazione fisica e dal comune amore per i film di serie B; non molto tempo fa, però, nella sua vita c'era Evelyn. Vegana convinta, dispotica: come lasciarla senza spezzarle il cuore? A quello che dovrebbe essere l'ultimo appuntamento, Evelyn attraversa di fretta e l'urto con un autobus le spezza il collo. Il cuore, in compenso, è sano e salvo. L'accanita non morta sbuca dalla tomba e getta le basi per un'infernale convivenza. Il risultato è una commedia più che discreta, sulla persistenza dei ricordi e lo stalking da parte di splendide ex. E beato il sempre in parte Anton Yelchin, da me odiatissimo: cioè, in Like Crazy aveva Felicity Jones e qui, in meno di novanta minuti, sia Ashley Greene – e con lei, prima vampira e adesso zombie, neanche la necrofilia pare così strana – che quello schianto di Alexandra Daddario? La mano di quello che un tempo è stato un regista culto si nota palesemente nei dettagli: i poster italiani appesi ai muri, il cinema all'aperto e le proiezioni di Romero, le citazioni sparse; ma a metà tra Warm Bodies e La sposa fantasma c'è un territorio piuttosto arido in quanto a fantasia. Poteva essere più spassoso, folle, originale: arriva in ritardo. Ma gli si perdona tutto, in fondo, per il glamour del trio e perché Joe, sessantottenne, sa ancora il fatto suo. George Miller – di due anni più anziano – però ha diretto una cosetta come Fury Road: tanto per dire. (6+)

La storia vera dietro un capolavoro e quella della donna che per riaverlo – dopo le razzie naziste – chiamò in giudizio l'intera Austria. Giusto privare Vienna della sua splendida Monnalisa e lasciare che trionfi una giustizia senza prezzo? L'apparenza suggerisce un prolisso polpettone, no? Invece la durata contenuta, la compresenza del dramma delle persecuzioni – visto, qui, da una prospettiva nuova – e della parentesi giudiziare, fanno sì che il lungometraggio scorra, tocchi e, soprattutto, intrattenga grazie all'ennesima prova maiuscola di Helen Mirren. Maria Altman era pungente, severa e volitiva e aveva ingaggiato, sapendo di perdere in partenza, il figlio di amici di famiglia – qui, un bravo Ryan Reynolds – per tentare, rimasta sola al mondo, la carta disperata della giustizia. Quando il passato prende vita e si passa dalla Los Angeles degli anni novanta alla Vienna assediata, la Mirren ringiovanisce e diventa la nostra Tatiana Maslany – talento puro, alle prese con un'altra sfida: l'accento tedesco – e, accanto a lei, si ritagliano ruoli minori il giovane marito Max Irons e Daniel Bruhl, uno dei pochi austriaci disposti a non dimenticare i crimini dei padri. Ma Woman in Gold, oltre a parlare di arte e di donne, è anche la storia di un giovane uomo –  americano, ma con il cognome di uno dei più grandi musicisti del secolo scorso – che, commosso, fa pace con le sue origini. Inedito come Philomena e sotto sotto fiaba come Saving Mr. Banks, il dramma di Simon Curtis si dipana tra passato e presente, con la sua struttura tradizionalissima, un solido rigore, un po' di retorica e, a sprazzi, tocchi d'umorismo che contribuiscono a renderlo una visione non imprescindibile, ma degna. Anche se qualcosa andava evitata – un flashback alla Titanic di troppo -, qualcosa approfondita – il rapporto tra la piccola Maria e zia Adele, la musa di Klimt – e non è tutto oro quel che luccica. (6,5)

Chi ha tutto ha tutto da perdere. Così James, imprenditore, finisce nei guai: andrà in un carcere di quelli infernali. Come proteggere, in quel covo di criminali, la sua virtù? Ha trenta giorni per imparare le regole del vivere selvaggio, così si affida all'afroamericano Darnell – quieto padre di famiglia che, in cambio di una somma da capogiro, insegnerà al protagonista a essere una belva. Duri si diventa ha la tipica comicità che, in estate, il cinema ha da offrire: o ti accontenti di horror che non spaventano o, come è già successo con Affare fatto, di linguaggio coloritissimo e facce simpatiche. Nel dubbio, meglio farsi due risate con questi due tipi qui, quando la giornata è lunga, lo stress uccide e sorridere – per parolacce e chiappe (o peggio) al vento – alleggerisce il male di vivere. Si sa inizio, svolgimento e fine, ma questa Poltrona per due al contrario – e senza Landis e repliche a Natale – non le manda molto a dire e, fisico e invadente, con sparatorie, sessioni di sollevamento peso e disgustosi tentativi di imparare l'arte del sesso orale – perché se non puoi batterli, almeno fatteli amanti, i carcerati – è fresco e funzionale. Soprattutto grazie a un istrionico Will Ferrell – lo stesso che spesso e volentieri trovo irritante – che qui gigioneggia alla grandissima e regge ogni singolo sketch, tra una battuta razzista e un pianto da ragazzina. (6)

mercoledì 8 luglio 2015

Recensione: L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome, di Alice Basso

Sei acida e sarcastica e lucida e critica e odi tutto e tutti. Ma questa tua capacità di vedere le cose con gli occhi della altre persone, di interpretare il mondo da dentro la loro testa... o il loro cuore. Questa che a te può sembrare una mera abilità professionale, be', si chiama empatia. E tu puoi fingere con tutte le tue forze che sia il contrario, ma la verità è che fa di te la persona più comprensiva, più tollerante, e persino più clemente, che io abbia mai conosciuto.

Titolo: L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome
Autrice: Alice Basso
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 270
Prezzo: € 14,90
Sinossi: Dietro un ciuffo di capelli neri e vestiti altrettanto scuri, Vani nasconde un viso da ragazzina e una innata antipatia verso il resto del mondo. Eppure proprio la vita degli altri è il suo pane quotidiano. Perché Vani ha un dono speciale: coglie l'essenza di una persona da piccoli indizi e riesce a pensare e reagire come avrebbe fatto lei. Un'empatia profonda e un intuito raffinato sono le sue caratteristiche. E di queste caratteristiche ha fatto il suo mestiere: Vani è una ghostwriter per un'importante casa editrice. Scrive libri per altri. L'autore le consegna la sua idea, e lei riempie le pagine delle stesse parole che lui avrebbe utilizzato. Un lavoro svolto nell'ombra. E a Vani sta bene cosi. Anzi, preferisce non incontrare gli scrittori per cui lavora. Fino al giorno in cui il suo editore non la obbliga a fare due chiacchiere con Riccardo, autore di successo in preda a una crisi di ispirazione. I due si capiscono al volo e tra loro nasce una sintonia inaspettata fatta di citazioni tratte da Hemingway, Fitzgerald, Steinbeck. Una sintonia che Vani non credeva più possibile con nessuno. Per questo sa di doversi proteggere, perché, dopo aver creato insieme un libro che diventa un fenomeno editoriale senza paragoni, Riccardo sembra essersi dimenticato di lei. E quando il destino fa incrociare di nuovo le loro strade, Vani scopre che le relazioni, come i libri, spesso nascondono retroscena insospettabili.   
                                       La recensione
Dopo la lettura dell'Ombra del vento, che nel passaggio dalla terza media al quarto ginnasio avevo amato così tanto ma così tanto da lanciare una domanda su Yahoo Answers per mettere le mani su qualcos'altro di simile, ero andato in fissa coi libri che parlano di libri – oltretutto, è la seconda volta in dieci giorni che nomino il mio primo Zafòn: segno che dovrei risfogliarlo, dite? La famosa domanda su Yahoo Answers, di cui ovviamente ho eliminato ogni traccia, tutta abbreviazioni, smile e gnè gnè, faceva – senza però abbreviazioni, smile e gnè gnè: Ho amato così tanto ma così tanto L'ombra del vento da lanciare una domanda su Yahoo Answers. Chi mi consiglia altri libri che parlano di libri? Quanta sagacia, ebbene sì. Questo per dire che quando tutti leggevano i vampiri della Meyer – dovrei vegognarmi nell'ammettere che io già li avevo letti, prima che diventassero moda e mi accorgessi di odiarli per moda? - io mi perdevo in storie dentro storie, nella metaletteratura, alla scoperta di narratori di secondo grado e di personaggi di personaggi. Immaginateli come una di quelle espressioni piene di parentesi, insomma: graffe, quadre, tonde. All'inizio sgomitavo come un matto per trovarne di nuovi, poi quando grandi editori avevano investito in testi che parlavano di libraie, botteghe vintage e pittoresche redazioni giornalistiche, improvvisamente, il mio interesse era entrato in coma. A portata di mano: sputtanato. Sputtanato: male. Perché inizio da qui? Ma per dire che davanti all'Imprevedibile piano della scrittrice senza nome avevo pensato di imbattermi, per l'ennesima volta, in una cosa di quelle – con queste donne dai visi enormi in primo piano e un cane che, nel frattempo, sniffava il suo stesso sedere e il sentore di cellulosa in decadimento negli anfratti oscuri della copertina. Perché questi libri – mi viene in mente Lo strano casa dell'apprendista libraia, che mi assicurano sia un'atrocità – parlano di donne cinofile e lettrici sognatrici. E io, che sono maschio? E io, che ho un gatto che si chiama Ciro e tengo i romanzi tutti sparsi per casa, senza una di quelle librerie da sogno che – ditelo ai miei, su – mi meriterei proprio? Convinto che appartenesse a quel filone che, su questo blog, si evita con cura da qualche anno a questa parte, lo avevo visto in giro e subito scordato. Naaa. Finché, complici la recensioni di colleghi fidati, gli ho dato una chance: pareva non essere così (serio, scontato, alla moda) ma cosà (spassoso, originale, da scoprire). La frase magica: Vani come Alice Allevi. Ed è stato quando ho saputo che, forse, il prossimo anno l'avventura di Alessia Gazzola si concluderà con il quinto volume e che tra me e il terzo capitolo di un'altra mia compagna di risate, la Geek Girl di Holly Smale, c'è un lungo inverno di mezzo, ho cercato – e mi ci sono miracolosamente ritrovato – l'esordio di Alice Basso. 
Uno di quei romanzi pimpanti, veloci, da tenere a portata di mano per le emergenze. Quando il lunedì ti traumatizza, la Sessione Estiva ti assassina, i tuoi piccoli dolori reclamano grandi attenzioni e tutto ciò di cui hai bisogno è un'aiutante, una mano alla fine di un braccio che, per una volta, non sia il tuo; di una come lei, Vani. Che è pungente, burbera, di poche parole, ma forniscile un foglio, una penna – anche il test per l'esame di Informatica funzionerà? -, e lei ti solleverà il mondo. Peccato che nessuno lo saprà mai. Eroina in incognito come Clark Kent, ma abbigliata come l'indimenticabile Lisbeth Salander, presta tempo e fantasia a romanzi che, una volta arrivati in libreria, acclami come capolavori certi. Lei ha scritto il libro che ha vinto il Premio Strega, ma tutti lo ignorano: applausi e riconoscimenti solo per Riccardo, bello e corteggiato, che aveva bisogno del fiuto della camaleontica protagonista per tornare sotto le luci della ribalta. Lei, in cambio di un pot pot sulla testa spettinata e di una paga misera, fa la ghostwriter: in poche parole, lei scrive e gli altri ci mettono il nome. Succede che, chissà perché, l'autore di punta di Edizioni L'Erica si innamora di lei e, con un corteggiamento spietato, vince il naturale odio per il prossimo di Vani. Che, per una frase di troppo scambiata in ascensore, si trova a fare da tata all'adolescente Morgana in un night club di satanassi rock. Soprattutto, che la scrittrice a cui dovrà prestare il suo ingegno – un'imbrogliona che scrive di angeli e armonie cosmiche – scompare nel nulla. Amori, grattacapi, misteri. 
Una galleria di personaggi speciali, in un mondo – quello editoriale – che già nel telefilm Younger si è da poco rivelato pieno di disonestà e pasticci. Voce narrante, sardonica e impietosa, questa divertentissima lei che vive nell'ombra; il tono leggero degli chick lit internazionali e fiumi di parole pesate con malagrazia, pronunciate da una che non ama lo shopping sfrenato – nero su nero: forse fa rifornimento alle pompe funebri? – e probabilmente nel tempo libero, oltre a nutrirsi di schifezze confezionate, mangia bambini come i comunisti delle leggende. Il confronto con L'allieva della Gazzola, centratissimo, non va a discapito né dell'una né dell'altra protagonista: Alice Allevi – che mentre va a fare compere inciampa in un cadavere e simili – ha un posto nelle mie pause relax da più tempo, ma occhio a Vani, che dalla sua ha preoccupanti affinità con il sottoscritto. Non che io, fac simile di un giornalista titolato, sia imparentato con Vani, angelo custode di scrittori titolati. Non che Roman Polanski, in L'uomo nell'ombra – The Ghost Writer, abbia mostrato una storia che un po' parla di me. Ma, vedete, lei parla citando romanzi, è una misantropa nel sangue, conia risposte sgarbate così come respira. Ha la capacità, con un po' di sforzo, di spaccare in quattro un capello e di argomentarti il nulla. C'è, poi, la questione della solidarietà tra quei pazzi che si scrivono a Lettere, perché il loro sogno è vivere di scrittura – e dire che potevamo tutti iscriverci ad Architettura, così da poterci costruire personalmente il ponte sotto cui fare i barboni, tutti insieme disoccupatamente. L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome va letto se sei giù, se vuoi un libro dispettoso che ti faccia aumente il numero dei libri in wishlist – voglio farmi una cultura, per colpa dei ritmati battibecchi tra Vani e Riccardo, di narrativa americana -, se la protezione che hai promesso a fine giugno alla folgorante debuttante Lavinia Petti va necessariamente estesa anche a Alice Basso, che firma un brillante giallo che non pesa ma che, pur nella sua voglia di leggerezza, è abbastanza stimolante da meritarsi una recensione di quelle lunghe, vere. E io che, quando fa caldo, spero sempre di potermela cavare con commenti in pillole. Con questa nuova voce narrante anche la pillola più amara però va giù, e le lamentele di me, povero blogger letterario che per farsi qualche spicciolo si darebbe o alla macchia o, peggio, alla carriera pagata di fescion blogger – se non fosse che sono altro un metro e un po' e l'unica tartaruga di cui sono dotato si chiama Lauretta e, in questo esatto momento, sta nuotando nel suo acquario mentre Ciro scambia la sua piscinetta per un delizioso abbeveratoio, e che schifezza - trovano ascolto.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Daniele Silvestri – Le cose che abbiamo in comune

sabato 4 luglio 2015

Recensione: La ragazza del treno, di Paula Hawkins

La vita non è un paragrafo, e la morte non è una parentesi.

Titolo: La ragazza del treno
Autrice: Paula Hawkins
Editore: Piemme
Numero di pagine: 306
Prezzo: € 19,90
Sinossi: La vita di Rachel non è di quelle che vorresti spiare. Vive sola, non ha amici, e ogni mattina prende lo stesso treno, che la porta dalla periferia di Londra al suo grigio lavoro in città. Quel viaggio sempre uguale è il momento preferito della sua giornata. Seduta accanto al finestrino, può osservare, non vista, le case e le strade che scorrono fuori e, quando il treno si ferma puntualmente a uno stop, può spiare una coppia, un uomo e una donna senza nome che ogni mattina fanno colazione in veranda. Un appuntamento cui Rachel, nella sua solitudine, si è affezionata. Li osserva, immagina le loro vite, ha perfino dato loro un nome: per lei, sono Jess e Jason, la coppia perfetta dalla vita perfetta. Non come la sua. Ma una mattina Rachel, su quella veranda, vede qualcosa che non dovrebbe vedere. E da quel momento per lei cambia tutto. La rassicurante invenzione di Jess e Jason si sgretola, e la sua stessa vita diventerà inestricabilmente legata a quella della coppia. Ma che cos'ha visto davvero Rachel?
                                          La recensione
Fino a due anni fa, non avevo mai preso i mezzi pubblici – se non in gita, lontano da casa. Camminare mi piace e, con le cuffie nelle orecchie, potrei fare chilometri senza stancarmi; ho la fortuna di vivere in una realtà ristretta e il mio condominio, costruito chissà quante generazioni fa in una zona strategica della città, è un po' vicino a tutto – le poste, il centro commerciale, il liceo e, a un chilometro scarso, c'è anche il mare. Alle superiori, sono andato per cinque anni a piedi. Sulle mie gambe. Misurando il tragitto col numero delle canzoni che ascoltavo strada facendo. Ho scoperto quanti ritardi si concede Trenitalia e quanto poco la gente tenga alla propria igiene personale nei miei primi mesi da matricola. Sono distante un centinaio di chilometri dal mio passato di studente liceale – non quanti vorrei, purtroppo – e quando i contratti d'affitto scadono, in questo periodo, mi arrangio e faccio il pendolare. Un'ora in treno – con il regionale, che costa di meno e fa tappa presso paesini fantasma sull'Adriatico – e venti minuti, mezz'ora, in circolare. L'eccezione è l'estate, che mette a dura prova chi fa questi sali e scendi; altrimenti, da universitario, mi sono accorto che viaggiare mi piace pure. Leggo un sacco, porto a zonzo la mente e, quando l'mp3 esaurisce le sue energie, tengo imperterrito le cuffie – così nessuno mi disturba – e mi soffermo sulle chiacchiere dei passeggeri, sulle loro storie di cui mi parlano le occhiaie della mattina presto e le telefonate a voce alta. Guardo anche dal finestrino, c'è scritto non sporgersi, e fuori il mondo va veloce, oppure resta fermo? Il ragazzo del treno non poteva lasciarsi sfuggire, per ovvi motivi, dunque, La ragazza del treno. Pubblicizzatissimo e così richiesto che, quando mi è arrivato, omaggio della premurosa casa editrice, non ci credevo: avevo tra le mani quello che annunciavano come il giallo dell'anno, e io che ero convinto lo avrei comprato su Libraccio, chissà quando, aspettando il cinquanta per cento. Curiosità alle stelle. Sarà che in mesi in cui tutti vanno in ferie, anche gli uffici stampa, un simile dispendio di energia per il lancio di un nuovo titolo non lo avevo mai visto. E, sul retro di copertina, a presentare l'esordiente Paula Hawkins c'erano due padrini illustri: S.J Watson – reduce dal successone di Non ti addormentare – e soprattutto Stephen King – che giurava che la Hawkins, con la sua storia imprevedibile, gli avesse rubato ore di sonno. 
L'intreccio, complicato, affascinante, seguiva tre campane, tre vie, tre voci di donna. Parlava, a me curioso, dei rischi della curiosità: come dicono i proverbi, è quella a uccidere il gatto. Ucciderà anche Rachel, reduce da un divorzio burrascoso con il fedifrago Tom, che nell'arco di un paio d'anni ha perso casa, forma fisica, lavoro? Pigra e apatica, infatti, vive paradossalmente di corsa: ogni giorno raggiunge Londra e, sbirciando la pace della periferia dal solito treno, con una bottiglia di vino in borsa, a un punto del tragitto deve confrontarsi con puntualità con tutto ciò che ha perso. Non può fare a meno di soffermarsi sulla sua vecchia villetta confinante con la ferrovia – occupata adesso dalla bella Anna, che da amante occasionale è stata promossa a compagna di Tom – e su un immobile vicino, abitato da una giovane coppia che – immagina, sbagliando – vive una favola moderna. Non sa che quella donna si chiama Megan e che non è così felice, e così fedele, come pensa: i telegiornali annunciano la sua scomparsa e Rachel, alcolista mai vigile, potrebbe essere stata testimone di un gesto, un bacio rubato, capace di scagionare il misterioso Scott, accusato della scomparsa della consorte. 
La polizia le crederà, nonostante l'insana gelosia che mostra, le bugie avventate e le amnesie dell'acol? Trama accattivante, capitoli belli e snelli, un triplice sguardo su un comune mistero. Eppure La ragazza del treno è tutto una lunga, monotona nota dolente. Trecento pagine quando potevano essere la metà – ma poi come fare pagare il libro venti euro, che già così sono spropositati? -, esiti prevedibili e uno stile anonimo. La Hawkins non è una maestra di eleganza e la scelta coraggiosa di adottare tre voci narranti, per lei che non è una cima, porta il romanzo a deragliare. Fastidiose all'inverosimile, le tre donne hanno lo stesso timbro scostante e – nevrotiche perché vittime del diffuso mal d'amore – fanno apparire ogni uomo traditore e inutile la tripartizione del romanzo: storie diverse raccontate palesemente da una persona sola. E ripensandoci, man mano che i difetti diventano lapalissiani, neanche la trama si rivela tutta questa novità: scomodiamo Hitchcock, con La finestra sul cortile, ma anche il modesto Derailed, con un'attrazione fatale tra Clive Owen e la Aniston scoppiata come un proiettile proprio in una selva di pendolari. Gonfiato da caso editoriale e travestito in maniera convincente, La ragazza del treno – sotto altre forme, sotto altre maschere – si classifica come l'ennesimo aspirante epigono di L'amore bugiardo. Ma tra la Flynn e la Hawkins – nonostante la solidarietà femminile – c'è lo stesso baratro che passa tra l'ultimo Fincher e i gialli di Rai Due. In quanto a te, mio caro Stephen King, quella volta non sarai riuscito a dormire perché l'età si fa sentire, nel cuore della notte ti scappa a più non posso e Tabitha, cuoca provetta, avrà cucinato la peperonata. Confidavo nel finale ma, incapace di cattiveria, anche quello si rivela lampante come il resto: i personaggi sono così pochi che anch'io, più abile col greco che con la matematica, ho fatto due più due. In realtà, nei miei primi anni di lettore non ho letto che thriller – tascabili in economica, sempre targati Piemme – e se appartengono a un genere che di rado ospito sul blog è perché mi sono bastati; letti tanti, letti tutti. Si aspetta, perciò, la rivelazione folgorante. Quest'anno – dopo La verità e altre bugie, che comunque resta scritto meglio, e non è cosa da poco – La ragazza del treno è il secondo romanzo che le fascette presentano come il giallo del 2015. Se così stanno le cose, tocca adeguarsi. Un'estate attaccati al condizionatore, se i brividi di freddo sono i soli concessi. Fino a quando, almeno, il controllore – o un grande editore – non ci timbrerà l'abbonamento alle patacche, sponsorizzando l'ennesima promessa mancata. Meta: delusione. Meglio scendere prima del capolinea?
Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Kelly Sweet – In The Air Tonight (Phil Collins)

venerdì 3 luglio 2015

Mr. Ciak: Suite Francese, Poltergeist, Una nuova amica, Les Combattans, La risposta è nelle stelle, Affare fatto

Un capolavoro rimasto in una valigia. Una figlia che lo riscopre per caso e Suite Francese improvvisamente sulla bocca di tutti. Come uno schiaffo al nazismo. Mi ci sono avvicinato quando al cinema arrivava il film: lieve, di un bello che non fa rumore. Mentre il romanzo si articola per racconti, la pellicola si concentra su uno dei pochi momenti in cui puoi vedere i protagonisti quasi felici: la campagna francese, l'illusoria quiete, tempo d'amore. Ma questo Suite Francese è l'ultimo dei tre tempi che il lettore ha già sperimentato, eppure non è solo quello. In un'ora e mezza sanno trovare spazio trame amorose, sottotrame spionistiche e alcune delle figure marginali che erano contemplate nei capitoli che precedevano quello monografico sulla dimezzata famiglia Angellier. Ovunque, l'eleganza, la pudicizia, la discrezione. Lo sguardo benevolo sulla guerra che, sono certo, non avrebbe reso fastidiosa all'autrice la licenza poetica dello sceneggiatore: la suite incompiuta di lei, ebrea, paragonata alla suite incompiuta di Bruno, nazista. Saul Dibb, dopo The Duchess, torna alla regia – e al dramma storico – e questa volta è più abile nel dare voce ai personaggi e ai loro silenzi, anziché al gusto di una Knightley che, in quell'occasione, i cultori della moda avevano amato e gli spettatori insensibili a nastri e cappellini assai meno. Suite Francese, delicato e laconico come i suoi appasionati personaggi, non è il polpettone che chi cerca singhiozzi si aspetta. Controllato, alla maniera dei britannici, ha questi Michelle Williams e Matthias Shoenaerst, splendidi, che si corteggiano come col linguaggio dei segni. Puntuale e oroglioso, pensa più alla coerenza dell'operazione che ai nostri dotti lacrimali e, anche se non un'autentica trasposizione, con tutte le sue variazioni sul tema, si rivela un sentito omaggio, una vendetta. Una specie di tardiva vittoria. (7)

Poltergeist non è un titolo familiare a chi è della mia generazione. Se l'ho visto – e non so dirvelo con certezza, perché ho in testa una compilation di scene famose che forse avevo occhieggiato nel reale lungometraggio, forse in Scary Movie 2 – non l'ho venerato. Questo remake di dubbia utlità non sarà il peggiore horror che in estati in cerca di vani brividi passeranno dalle nostre sale. Scorre e ripropone con autoironia le sequenze cult, viaggiando maggiormente dalle parti del cinema fantastico che di quello che dovrebbe farci strizza. La storie come tante dei Bowen è al centro di un horror da bollino verde, dunque, che non dispiacerà alle famiglie. Si scontra con quello che pare una specie di capolavoro, ma con così tanto candore – e leggerezza – che con questo horror buono dentro, alla fine, non puoi essere cattivo. Si accontenta dell'essenziale e, poco dark e con effetti speciali rigorosamente al computer, con il suo cast non di primissima scelta, è una visione carina e senza pretese, con presenze poco demoniache e, al contrario, angioletti di pargoli, tra cui spicca il bravo Kyle Catlett – che quale anno fa o solo il mese scorso? - è stato T.S Pivet per Jeunet. Si prende come modello più la storia firmata trent'anni fa da Spielberg che la cupezza del prodotto di Hooper: i bambini sono in pericolo ma si sa che non succederà loro niente di grave; il lieto fine arriverà; la casa è infestata, ma con il mercato che langue, tanto, sai quante ne trovi all'ombra dei tralicci dell'alta tensione. (5,5)

Qualcuno dice che è il primo amore che non si scorda, ma Claire ha sempre avuto in testa Laura, sua migliore amica dai tempi dell'asilo. E' per questo che quando muore, si prende una pausa dal lavoro e si chiude in casa, preda di un dolore incomprensibile ai cuori altrui. Quando Claire, ospite non invitata, becca l'inconsolabile vedovo a indossare i vestiti della moglie defunta reagisce prima con la ragionevole confusione, poi con la curiosità che solo le donne hanno. Perché David sente il bisogno di vestirsi come la Laura che hanno entrambi amato? Omossesualità taciuta o un modo per superare il lutto? Una nuova amica potrebbe sembrare l'Hitchcock più celebre o un Almodòvar in crisi di identità; un noir sui disturbi della personalità oppure un'esuberante racconto sopra le righe. Non è né l'una né l'altra cosa, o forse entrambe. Come lo sconsolato David che, una parrucca bionda e i tacchi, diventa la querula Virginia; sostituto perfetto della migliore amica e dell'anima gemella. Una fuga dalla realtà, un compromesso, quando per dire addio c'è tempo e l'atto di guardarsi dentro – adesso che si è accasati – crea tragicommedie. Una nuova amica ha i meccanismi del thriller psicologico, la brillantezza della migliore commedia sofisticata e l'indefinito erotismo di una drammatica indagine sulle cose che più sfuggono e affascinano: la sessualità, il desiderio. Ma altro non è che opera del bravissimo Ozon. Dunque l'eleganza – e l'ambiguità, e una regia impeccabile, e personaggi cesellati con la cura che avrebbe un analista  - è compresa nel pacchetto. Non ci sono dissonanze, solo una credibilità forte, e non ha sbavature il trucco di questo Romain Duris che recita en travesti, mentre la seducente Anais Demoustier gioca a fingersi sua amica, amante e perfino rivale, nella sequenza immaginata in cui Duris, sotto la doccia, tocca il marito di lei. Con il cervello e l'anima che litigano, le membra che cercano un inammissibile tipo di abbraccio e i guardaroba, invece, che preferirebbero l'altra parte – quella sbagliata – del negozio di abbigliamento all'angolo. (7,5)

Lui, muratore, conosce lei, annoiata figlia unica di una coppia borghese. Partono col piede sbagliato: può da una lotta corpo a corpo nascere la scintilla? Lui, che è segretamente romantico, segue perciò lei, che è un pezzo di ghiaccio, a un campo di addestramento: le ragazze di oggi sognano di entrare nell'esercito. Così, tra una corsa a ostacoli e la levataccia al mattino, vivere tutt'uno con l'ambiente e scoprirsi più alti di una spanna. Questa, in parole semplici, la trama del semplice Les Combattans, che da noi si becca un titolo anglofono e il sottotitolo Addestramento di vita. Opera prima rinfrescante e dotata di spunti mai sfiorati prima dalla romcom tradizionale, forse non meritava tutti i premi che ha vinto qui e lì – per nulla impegnata, non abbastanza chic da essere sopravvalutata -, ma ha dialoghi aciduli, due protagonisti abbastanza bislacchi da risultare memorabili e un'aria tutt'altro che perfettina. Eccolo, il suo segreto, insieme a un romanticismo che meno romantico non si può e alla giunonica Adèle Haenel, divertentissima e adorabile nella sua impassibilità di soldato fatto e finito (e poi, diciamolo, con “quella sua maglietta fina” tutta bagnata sta benissimo). Battute mirate, colonna sonora che gasa e un epilogo ahimè un po' così - tu chiamalo sospeso, io inconcludente – anticipato da una ansiogena scena da survival horror. Sono abituato alla commedia francese che sa di roselline di campo, Chanel n°5 e altri luoghi comuni, ma anche questa – che odora di napalm al mattino – non è mica male. (7)

Una studentessa incontra un cowboy: è colpo di fulmine. Un novantenne, nel frattempo, prende in pieno un guardrail: il suo, invece, è colpo di sonno. Una storia che nasce e una che finisce si incrociano nell'ennesima trasposizione di Nicholas Sparks. La risposta è nelle stelle però non funziona, e lo dico da spettatore saltuariamente tollerante al suo saccarosio che, senza pregiudizio, si è sorbito queste due ore – tante – in compagnia di una vicenda doppio strato – da un lato la gioventù oggi, dall'altro il matrimonio ieri, sull'abusato sfondo della guerra. Young adult più melò: un polpettone alla Rai Uno sconsigliato agli insofferenti cronici che tra scontatezze, morti tragiche che latitano – Sparks, qui non uccidi nessuno? - e dialoghi tremendi sembra la casa terremotata delle fiabe coi mattoncini del meglio di The Notebook e del peggio di The Last Song. E' che più di uno Sparks all'anno non si tollera e che quest'anno ho già visto l'accettabile The Best of me, o che questo film è prolisso e dolciastro da non credere? Ma occhio a Britt Roberts – io l'ho già adocchiata e sono un suo stalker convinto – e a Scott Eastwood, che dalla sua ha un padre leggendario e una faccia straordinaria. Mistero le recensioni, a sorpresa, positive. Mistero ancora più misterioso il titolo italiano: penserei a una strizzata d'occhio a Colpa delle stelle, se non fosse che il romanzo – con il titolo uguale – ha ormai qualche anno. Al massimo, tra buoi, cavalli e vaccate varie, alcune perdonabili e altre no, in The Longest Ride la risposta agognata sarà nelle stalle? (5-)

Dopo il buon Starbuck – paradossale storia di un donatore di sperma che si scopre padre di un migliaio di figli sparsi per il mondo – e il remake americano che avevo evitato, immaginandolo uguale all'originale, il canadese Ken Scott torna alla commedia a stelle e strisce: rumorosa, volgarotta, canonica, simpatica. Piacevole abbastanza. Si ridacchia, infatti, nel seguire tre perdenti – un padre assente, un venticinquenne con la testa tra le nuvole, un anziano che vorrebbe divorziare – e il tentativo rocambolesco di siglare un vantagioso accordo, anche se la spietata Sienna Miller trama loro conto. Si vola a Berlino nella stagione clou e si pensa alla famiglia lontana, alla prima volta, alla giovinezza persa. L'avventura europea di tre che hanno probabilmente visto troppe volte Jerry Maguire –American Pie – nel suo piccolo sembra funzionare, soprattutto grazie a un cast calibratissimo, con un comprimario come Nick Frost, grasso campione della risata grassa. Vince Vaughn e i suoi soliti ruoli; il due volte candidato all'Oscar Tom Wilkinson, che ha la leggerezza dei giovani; Dave Franco, fratello minore di James, che ci meraviglia con tempi comici notevoli, la timidezza dei nerd e la sbadataggine che lui, belloccio, di certo non conosce in prima persona. Affidati a lui, tra visite ai glory hole e posizioni del kamasutra non meglio idenficate, i momenti in cui si ride, non si pensa a niente e svanisce così, magicamente, l'ansia da Estiva. (6)

martedì 30 giugno 2015

Recensione: Il ladro di nebbia, di Lavinia Petti

Come si può convivere con il fantasma di ciò che è stato e lo spettro di ciò che non sarà mai? Non si può, ecco perché si muore. Non invecchiamo a forza di vivere la vita, ma a furia di ricordarla.


Titolo: Il ladro di nebbia
Autrice: Lavinia Petti
Editore: Longanesi
Numero di pagine: 426
Prezzo: € 14,90
Sinossi: Antonio M. Fonte è uno scrittore di enorme successo, ma per lui fama e ricchezza non hanno alcun significato. Stralunato e sociopatico, vive in una vecchia casa dei Quartieri Spagnoli di Napoli con la gatta Calliope, e se non ci fosse il suo agente letterario a ricordargli scadenze e doveri sarebbe incapace di distinguere ciò che è reale da ciò che forse non lo è. Ma un giorno, in mezzo alle migliaia di lettere dei suoi ammiratori, Antonio ne riceve una che non può ignorare. Datata quindici anni prima, è indirizzata a una donna che Antonio non crede di avere mai conosciuto. Solo il nome del mittente gli è familiare, perché è il suo. Quella lettera l'ha scritta lui, senza alcun dubbio. Quelle parole accennano a un ricordo smarrito e a un uomo che è stato ucciso, forse da lui stesso. Ma Antonio di tutto questo non ricorda nulla. Il giorno del suo cinquantesimo compleanno, si perde nei vicoli di Napoli e in un palazzo mai visto prima incontra uno strano personaggio che ha la mania di raccogliere tutto ciò che gli uomini perdono: nel suo Ufficio Oggetti Smarriti non si trovano solo mazzi di chiavi, libri o calzini spaiati, ma anche ricordi di giochi infantili, amori giovanili, speranze e sogni dimenticati. Antonio intuisce che è da lì che deve partire per ritrovare il filo del suo passato e risolvere l'enigma della lettera. Ma quell'enigma nasconde arcani ancora più insondabili: il segreto di una città che cambia forma e aspetto, l'avventura di un viaggio imprevedibile...
                                          La recensione
Mi è sempre piaciuto mettermi nei panni degli altri: sarà per questo che ho cominciato a leggere. Da bambino, ad esempio, mi immaginavo dall'altra parte della cattedra quando arrivava la bella stagione e, a scuola, ci si doveva dire arrivederci. A volte buona estate, a volte buona vita. Si sentivano tristi per un po', gli insegnanti, quando una classe - e gli alunni che avevano conosciuto attraverso quei pensieri segreti messi a nudo nelle tracce libere - abbandonava le medie per le superiori o, ancora, le superiori per l'università, sempre che la voglia di studiare non si fosse esaurita strada facendo? Soffiavano spifferi o vento di tempesta all'alba di un altro rinnovo generazionale? Ma sapete poi che noia imparare i nomi e i cognomi, decifrare le calligrafie, aguzzare i sensi per conoscere i ritmi e i tempi di ogni testa pensante? Ma sapete che gioia passeggera, eppure, quando il dubbio ti faceva sognare e, al momento dell'appello, cominciavi ad associare i nomi ai volti - e se quel Simone aveva tutta l'aria di un Paolo, pazienza - e a fantasticare su chi avesse la stoffa giusta per farcela? Mi sono sempre piaciuti i primi giorni per la magia delle cose che nascono. Bisogna esserci col brutto anatroccolo, il girino, il bruco, il primo passo mosso su un pianeta ritrovato: sarà per questo che, da quando c'è il blog, ho cominciato a seguire come un'ombra amica gli esordienti italiani. Se mi piacciono, mi ci affeziono e non li mollo più. Come è successo con Carrisi (che mi inquieta), la D'Urbano (che mi ferisce) e la Gazzola (che mi fa bene), di cui ho parlato così tanto, ma così tanto che alla fine neanche loro hanno saputo ignorarmi più. A partire da oggi, succederà lo stesso con Lavinia Petti (che se in futuro ci regalerà un libro bello anche solo la metà di Il ladro di nebbia avrà le mie attenzioni, purtroppo per lei, fino alla pensione). E dire che ero scettico sul romanzo che, per dispetto, mi avrebbe strappato, di lì a qualche giorno, le prime cinque stelle dell'anno corrente. Troppo presente l'ombra di Zafòn - e del vento - nel titolo e in quella copertina rosa antico con gli stormi in volo e i ladri di storie in fuga; troppa pubblicità, e io che non sono mai stato bravo a distinguire se c'è l'imbroglio oppure no; devo sbatterci la testa per accorgermene. Invece, sin da quando l'ho iniziato a sfogliare in treno e per un pelo non stavo per scendere alla fermata sbagliata, Il ladro di nebbia mi si è piantato qui, nella mia testa perdutamente tra le nuvole. 
Uno scrittore misantropo, il ritratto di una donna misteriosa, una Napoli labirinto splendida come nell'ultimo Garrone, una torre campanaria che compare dal nulla quando perdiamo la memoria insieme alla retta via: cinquanta pagine e la fascinazione aveva già avuto la meglio. Anche se per il meglio c'erano ancora quattrocento pagine d'avventure e un mondo straordinario da scoprire al capitolo successivo. Stravedevo per i piccoli dettagli sul brusco Antonio M. Fonte, quando non avevo ancora visto la grandezza sorprendente del disegno finale. Come quella volta in cui avevo perso la scatola del puzzle e avevo assemblato le tessere alla cieca: tanta fatica per scoprire che non era un pezzo dell'impressionismo francese, ma era stato emozionante uguale il lento arrivo alla conclusione che fosse una natura morta da niente e non un capolavoro da museo. Un po' succede così con Il ladro di nebbia, però al contrario. Partire dal pregiudizio che sia il lavoro di una brava falsaria e approdare alla conclusione che di Zafòn – per anni, tra i miei scrittori preferiti – ci sia la benedizione e poco altro; il fantasy della Città delle Sirene, come quel caffè che sul a Napule sanno fa', ha un gusto da provare. Nei Quartieri Spagnoli, al sesto piano di un palazzo che ne ha solo cinque, c'è il portale per il regno di Tirnaìl. Un ascensore che conduce sulla terrazza che non c'è e conoscere Edgar, un pittore in cerca d'ispirazione che dipinge le sue tele con tutte le sfumature del bianco. 
Un salto a Vanesia, città in cui si vendono e acquistano sogni, e cercare di comprare all'Asta delle Illusioni l'amore di una ragazza dai capelli verdi conosciuta in un'altra vita, Gèneve: quando sul bordo di un fiume la notte dei cristalli produceva il suono più struggente e ci si era lasciati al tramonto, prima della scelta consapevole dell'oblio. E, mi raccomando, occhi aperti: i Nox del Conte Vampiro – con l'ausilio della notte – potrebbero desiderare il tuo sangue dolce e i tuoi ricordi felici! Ma i numeri sull'orologio stanno svanendo, il tempo sta per finire: e, con lui, stai per finire anche tu. Gatti che spiano i nostri sogni, nomi barattati per un sorriso, pescatori in cerca dell'odore del mare, ballerine che hanno scordato i passi base, treni da prendere al volo e vite che – in girotondi che non finiscono più – tornano a bussare alla porta travestite da quello che non sono. Rincontrarsi, se tutto va bene, alla fine del mondo. Dirsi ti amo ma anche buon viaggio. Riuscirà lo scrittore più scorbutico, Antonio, a salvare la storia più importante, la sua? L'erba della collina di Mnemosia quale doloroso ricordo gli sussurrerà? Quante domande, quante storie in una e, soprattutto, quanta bravura. L'arzigogolata e romantica “storia infinita” di Lavinia ha i toni surreali - e i capelli multicolore, e i "se mi lasci ti cancello" - del cinema di Gondry; i mondi fatati di papà geniali, come in Big Fish e Al di là dei sogni; paesi delle meraviglie e maghi di Oz in gran quantità. Viaggia un po' sulle ali del buio, un po' sua una Fiat Panda scassata, quando è stanca. Dovrebbe essere, perciò, uno di quei romanzi con all'interno una cartina disegnata a mano. Una favola di libro - in tutti i sensi - con bambini di cinquant'anni come protagonisti. E se la dimenticanza di chi in un anno legge troppo dovesse minacciarlo, sarei pronto – come Orlando sulla luna, con il suo senno disperso – a cercarlo nell'Ufficio Oggetti Smarriti; oltre le mie colonne d'Ercole.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Paolo Conte – Vieni via con me (It's Wonderful)

venerdì 26 giugno 2015

I ♥ Telefilm: Sense8, Orphan Black III, What Lives Inside

Sense8
Stagione I
Serie che spuntavano come funghi nel mio periodo di reclusione forzata. E, tra queste, serie che non immaginavo neanche di avere il bisogno di seguire. Nello specifo, questa qui, scritta – e, per qualche episodio, diretta – dai fratelli Wachowski. Amati e odiati creatori del cult Matrix, da poco reduci dal fiasco Jupiter Ascending, qui cento passi avanti e uno indietro. La Netflix a produrre, storie dentro storie e – all'inizio - l'ombra di quel povero Cloud Atlas tanto messo al vaglio per il quale avevo invece straveduto. Sense8, per leggerezza, piglio autoironico, giusta misura, è senz'altro migliore. Non ha momenti morti. Nella sua fantasiosa coralità, non ha una storia che ti piace e un'altra no. Risulta talmente ben pensato che gli otto personaggi – nati nello stesso giorno, connessi, in pericolo mortale – a turno promettono di diventare i tuoi preferiti. Un giorno preferisci Riley, deejay islandese che sta tornando a casa; un altro, invece, Sun, imprenditrice koreana dai colpi segreti, in una prigione di massima sicurezza per colpe non sue; Nomi, che un tempo si chiamava Michael; Lito, star messicana, che nella vita privata vive un comico mènage a tre; Wolfgang, duro e selvaggio, ai ferri corti con mezza Berlino per un furto di diamanti; Will, sbirro provetto nella pericolosa Chicaco; Kala, bellissima indiana alle prese con un matrimonio combinato; ancora, Capheus – africano – con un pulmino sgangherato che ha il nome di Van Damme e una propensione per i guai. Personaggi in divenire che, sfidando fusi orari, latitudini e paradossi, a volte vengono a trovarsi nella medesima inquadratura grazie a splendide sequenze d'insieme – è il caso di What's Up che passa al karaoke, di un'orgia impossibile in cui all'unisono si raggiunge il piacere, del ricordo della miracolosa notte delle loro nascite. L'intreccio, a volte, può ricordare i prodotti commerciali di una The CW – ad esempio Heroes, che alle medie adoravo: voi avevate l'album di figurine, sì? - ma si sposa a momenti di pura bellezza – e personalità, e passione - indiscutibilmente autoriali. E Sense8 è lì che è fantastico, nella normalità di un giorno qualunque; quando non succede granché. Ti prendi il tempo per conoscerli e comprenderli – e non so raccontarvi, adesso, quanto sia intenso il nono episodio, ad esempio, in cui gli inseguimenti vanno a nanna par lasciare pace ai due diversi, Nomi e Lito, che in un museo vuoto danno vita a un dialogo mentale in cui parlano delle loro relazioni. Lei che prima era un lui, che poi è diventato una lei, che poi si è innamorato di un'altra lei; lui – sempre stato convinto della propria mascolinità, al contrario – che al primo appuntamento, già cotto, faceva un pompino a quello sconosciuto che parlava d'arte in uno squallido bagno pubblico, eppure non c'era squallore alcuno. A Sense8 credi e subito giureresti di credere nel prossimo, vincendo la tua diffidenza da misantropo; contagiato dall'intensità, sconquassato dall'empatia. C'era il video di questa canzone pop, un pezzo per l'estate della Minogue, mi pare, di cui non ricordo ora come ora neanche il ritornello; alla base, comunque, aveva una gran bella idea. Gli amanti di New York si spogliavano e, in mezzo a strade vuote, rimanevano solo in biancheria intima: si baciavano, si mischiavano, formavano una piramide umana. Un corpo solo. Non si sapeva dove iniziassero e finissero le bocche. Di chi fossero le mani, le braccia, la pelle esposta. Gli uomini e le donne - i bianchi, i neri, i gialli e le incredibili sfumature che stanno a metà, frutto di una splendida mescolanza di razze - condividevano il cuore. Si amavano i maschi con i maschi, le femmine con le femmine, in ogni alternativa possibile, e - sarà che erano tutti così belli e di quella bellezza che non fa spavento, sarà che mi piace pensare che anche allora la tolleranza fosse di casa - avevano l'aspetto che immagino abbia l'armonia. L'ordine, sulla terra, era una forma geometrica tutta nuda e senza vergogna. Pensieri – e immagini – che mi sono tornati in mente anni dopo, quando di quella canzone mi è sfuggito di mente il titolo e, dalla tivù della mia stanza, è arrivato e se ne è andato, in un paio di giorni, l'impensato Sense8: per me, attualmente, serie dell'anno. Il minimo comune divisore di un grande amore (o otto?), e tutto il caos trova così un senso. (9)

Orphan Black
Stagione III
Questo sembra essere l'anno in cui le serie che seguivo o finiscono o, puntualmente, mi deludono. Che posso farci? Due anni fa ho conosciuto una rivelazione di nome Tatiana Maslany – santificatela subito – e ho consigliato la sua serie a parte del mondo conosciuto, probabilmente. Orphan Black era bellissimo, originale, a tratti divertente: andava recuperato per forza. Già la seconda stagione, similissima alla prima e con poca voglia di fare, mi avrebbe lasciato un po' così, appeso all'incertezza più totale, se non fosse stato per quel colpo di scena finale che, come nella migliore tradizione degli ultimi episodi, mi aveva lasciato con la curiosità a mille. Non c'erano solo le “sorelle” del misterioso Progetto Leda: accanto a quelle donne baciate dalla scienza – una casalinga disperata, una detective, una hacker, un'ucraina omicida e via dicendo – c'erano anche, a sorpresa, cloni uomini. Il Progetto Castor e i suoi spietati assassini dalla stessa faccia: l'altro lato del medesimo esperimento. Si parte da loro, subdoli e manovrati dall'alto, e sono tutti Ari Millen: uno che è bravo, ha una faccia pure interessante, ma vuoi paragonarlo forse al camaleonte – e uragano - Tatiana? Consideriamo comprimari, e aspiranti villain, che sanguinano a volontà, ma non hanno il carisma sperato. Consideriamo che il parlare di fantascienza-fantascienza risulta incomprensibile, e che il succo della vicenda – clonazioni e compagnia bella – almeno io non lo seguo affatto bene, quando dovrebbe essere il fondamento di tutti e dieci gli episodi, da patti. Consideriamo una parte centrale – con le sestra Sarah e Helena intrappolata nella base dei cattivi – che non vedevo davvero l'ora finisse. Cosa resta? Una protagonista straordinaria che tutto può, e vabbè, e i siparietti comici messi in atto dagli amici giulivi, dalle massaie che si danno allo spaccio di stupefacenti causa Breaking Bad, dai karaoke intonati nei fumosi bar londinesi. Una terza serie, dunque, che si ricorda più per l'ordinario che per lo straordinario. Se laboratori e intrighi organizzati da menti superiori non mi hanno coinvolto a dovere – con Sarah, autentica protagonista, che appare sottotono e Cosima che, alla Nolan Ross, ci intrattiene con triangoli in rosa di cui importa poco, nonostante lo splendore delle due pretendenti al suo cuore -, hanno saputo farlo l'impresa di famiglia di Alison e Donnie – e quell'ex che spunta dal passato non è forse il Justin Chatwin di Shameless? - e gli scleri della pazza Helena che a volte si rivela un agnellino, a volte un leone, ma è sempre e comunque una forza. Soprattutto se condivide lo stesso tetto, per un arco di episodi, con la mia spacciatrice – e madre di famiglia - preferita: a quanto, ci chiediamo tutti, una sit-com sulle due? (7-)

What Lives Inside
miniserie tv
Uno scrittore amato da generazioni di bambini muore all'improvviso. Al suo funerale, quel figlio con cui non ha mai avuto un gran rapporto – lui che è stato padre metaforico di tanti ragazzini, ma non del sangue del suo sangue. Tra le chiacchiere di circostanza e le condoglianze non sentite fino in fondo, quel bambino solitario diventato uomo e, nel laboratorio del genitore, in mezzo a modellini e bozze, scorge una porta segreta. Quella che porta al mondo interiore del papà. Sarà realtà o immaginazione? Nel cast, Colin Hanks – figlio di un padre che non troppo tempo fa è stato amatissimo come quello del protagonista -, mamma Catherine O'Hara e, in una comparsata delle sue, il fresco vincitore dell'Oscar per Whiplash, J.K Simmons. What Lives Inside – strano prodotto di cui mi sfugge la definizione: come li chiamate quattro episodi totali di dieci minuti ciascuno? - è una colorata e malinconica creatura fatata, che ha qualcosa di Big Fish e qualcosa di Alice in Wonderland. Le ispirazioni e l'affetto del Burton migliore, gli effetti speciali di quello peggiore – nonostante un budget altissimo e un lato grafico ottimo. Quaranta minuti sono un po' pochi per appassionarcisi davvero, ma visivamente, questo, è un gioiello che non lascia indifferenti. Il trionfo dello schermo verde, l'ennesimo, che arriva a modo suo anche dalle parti del cuore. Per forza di cose, si ferma prima di appassionare, ma guardato come un esperimento – un inedito buona la prima – lascia confusi perché è già finito, e come è possibile?, ma incantati perché raramente sul piccolo schermo del nostro computer, almeno che non si parlasse di un film piratato, sono passati sprazzi di luce - e note - tanto suggestivi. (6,5)

martedì 23 giugno 2015

Pillole di recensioni: Geek Girl II, Qualunque cosa significhi amore

Titolo: Geek Girl – Modella fuori posto
Autrice: Holly Smale
Editore: Il Castoro
Numero di pagine: 329
Prezzo: € 15,50
Il mio voto: ★★★½
La mia recensione: Non amo i romanzi in serie, salvo casi eccezionali. Il personaggio principale, indipendentemente da dove la trama andrà a parare, deve farmi divertire. Ecco perché la Alice Allevi di Alessia Gazzola – presto anche in tivù, avete saputo? - è ospite fissa sul mio comodino, quando fa freddo; ecco perché, almeno per altri due libri, potrei sfruttare a volontà la compagnia della strampalata Harriet Manners – modella, secchiona, disastro – quando avrò bisogno di una lettura da spiaggia e di quattro risate. Dopo un anno, la mia Geek Girl preferità è tornata sulle passerelle – e nei laboratori di chimica – ma la aspetta un lungo apprendistato. La prima volta, notata da un mostro di stilista mentre lei era tutta intenta a nascondersi, ha scoperto che i suoi capelli sono rosso carota e non biondo fragola, che sulle nevi russe è impossibile camminare coi tacchi e che tutto può succedere. In questo secondo volume, con professionisti che chissà perché rimpongono in lei fiducia, vola in Giappone – per servizi all'ombra del monte Fuji, coinquiline così dolci da fare venire il diabete e principi azzurri che hanno abbandonato la nave – e si prepara a sbocciare. Mentre i suoi amici sono via per le vacanze, la sua matrigna sta scodellando una sorellina e per la povera Harriet nel futuro ci sono cadute clamorose, insospettabili tranelli e fidanzati che a volte, come nelle fiabe e negli horror, ritornano, Tokio – caotica, sempre in festa, così colorata da fare male agli occhi – assisterà alla più vivace tra le estati di una che, pian piano, si sta abituando a essere stordita dai flash e che, ancora più lentamente, se possibile, sta cercando di aprirsi all'idea irrazionale che anche in un Paese straniero sola non è mai. Holly Smale, dopo un frizzante esordio, firma un frizzante seguito: divertente, secchione, okeissimo – per citare la stessa Harriet. Dalle parti di Diario di una schiappa e New Girl. Una lunga barzelletta, di quelle educate, con ambientazione esotica annessa. E, nonostante gli occhi a mandorla e il trucco da geisha, c'è una tipa, al comando, che è impossibile confondere con altre spilungone. Anche in una folla di giapponesi in smoking, che si affrettano per le strade perché è scattato il verde, tu la riconosceresti. Harriet Manners è quella che, appresso, ha un signore sovrappeso vestito di fucsia che apostrofa i passanti a suon di complimenti nuovi di pacca, un boss che è un incrocio tra un nano da giardino e Satana, una nonna acquisita che sembra reduce da una notte brava in discoteca, e forse è proprio così. Harriet Manners è quella lì che inciampa, cade, si fa rossa e scoppia a ridere. Tu, contagiato, la imiti – nella risata e, se sei un po' così, geek, anche nel pubblico capitombolo.

Titolo: Qualunque cosa significhi amore
Autrice: Guia Soncini
Editore: Giunti
Numero di pagine: 260
Prezzo: € 14,00
Il mio voto: ★★★
La mia recensione:Tornavo vittorioso da un esame durante la preparazione del quale avevo scoperto che leggere testi teatrali mi piaceva molto. Anche obbligato dalle circostanze, non potevo infatti non notare quanto mi appassionassero gli elementi che, prima di allora, avevo sperimentato solo con la compagnia di qualche film di nicchia che avevo visto da solo, con la paura di annoiare il prossimo – pochi personaggi, dialoghi, uno spazio chiuso. Ecco perché, davanti alle ultime uscite della Giunti, la mia scelta era ricaduta sul romanzo di Guia Soncini – che dalla sua ha copertina e sinossi bellissime. Storia di matrimoni e segreti sullo sfondo della Milano da bere. Location: la festa di compleanno dell'aspirante sindaco, che non ha la vita da sogno che tutti invidiano. Il Vanni mondano – di origini molisane – è frutto del matrimonio con Elsa, tutta xanax e strategie, a cui Lady Macbeth fa un baffo. In Qualunque cosa significhi amore tutti lavorano per televisione e stampa; tutti conoscono – e disconoscono – tutti; tutti – le amanti senza arte né parte, le psicologhe da strapazzo, i cameraman – sono figli delle scelte di tutti. Esempio estremo, dunque, della sinistra estrema – che non guarda Mediaset, al massimo Fazio – sotto sotto ridicola quanto un salotto di Uomini e Donne, con i toni radical chic che fanno più ridere dei capelli della Cipollari, gli articoli determinativi davanti ai nomi propri, le librerie con gli Adelphi disposti in certo modo meno tollerabili, forse, dei troni di cartone dei pomeriggi trash di Canale Cinque. La commedia umana della Soncini – che ha la stronzaggine della Lucarelli nelle poche volte in cui dice cose giuste – è scritta bene e piace, per quanto possa piacere una cosa di cui detesti i personaggi dal primo all'ultimo. Ha segreti-non segreti, finali-non finali, scandali-non scaldalosi che la rendono, insieme alle comparse della De Filippi e di Alessio Vinci, però della materia di cui sono fatti i rotocalchi. Antipatico, chiacchierone, ma capace di stuzzicare la curiosità legata a un mondo che tu non conoscerai mai - e chi vuole conoscerlo? C'è che dopo un po' anche le frecce velenose del suo arco vengono a mancare e in trecento pagine si esauriscono. Cinquanta in meno e avrebbe guadagnato ritmo, freschezza: avrebbe avuto un colpo segreto da scoccare. L'amore, invece, è una sudata partita di tennis e tutti i personaggi, inquadrati in matrimoni infelici, giocano contro un muro di cemento, anziché sfidare un rivale dolcemente (in)degno di loro. La convivenza è più un monologo o un dialogo?