sabato 15 gennaio 2022

Biografie da Oscar: Spencer | Belfast | King Richard | Being the Ricardos

A che serve l'ennesimo biopic, per di più con The Crown in corso d'opera, sull'icona più famosa al mondo? Ultimo ritratto di signora per Pablo Larraín, Spencer racconta i tre giorni di agonia di un matrimonio lungo dieci anni; la donna in pezzi prima del mito inscalfibile. Diana festeggia il Natale in un castello stregato in cui i riscaldamenti sono sempre spenti, le ceneri dei vecchi regnanti ricoprono ogni cosa e i servitori, invitati al silenzio, sono schierati come un esercito. Ma, aggrappata alla tazza in ghingheri come una sposa, Diana vomita, disobbedisce e semina dissensi: il suo tormento si manifesta con l'autolesionismo. In una scena già cult, si strappa la collana e ingoia le perle insieme a una zuppa immangiabile. Favola nera o forse horror dell'anima, il film è una psichedelia di danze, spettri e fagiani dove tutto, fatta eccezione per l'epilogo, è gelo. In questo inferno di ghiaccio, Kristen Stewart si rivela una scelta tanto azzardata quanto vincente: sorprendente con accento british, presta gli occhi malinconici e il temperamento nervoso a una figura in tensione perenne, in grado di sciogliersi soltanto al cospetto dei figli e di Sally Hawkins; i costumi da Oscar fanno il resto. Si può fuggire a un destino segnato? C'è spazio per i miracoli, in un mondo in cui perfino i bambini sono educati alla violenza della caccia? Per fortuna il buon cinema tutto può. Il qui e ora non esistono, sussurra Diana: passato, presente e futuro sono la stessa cosa. Il tempo si fonde come in Dalì, allora, e attraverso questo magma Diana Spencer può andare incontro alla vita (e alla morte) nei luoghi in cui è stata bambina spensierata. È possibile la stessa felicità? Basta lasciare in pegno il vestito buono agli spaventapasseri e, fanculo il mondo, inseguire «gli amori, lo shock e le risate». (8)

Dopo Cuarón, Almodóvar e Sorrentino (anche Spielberg è atteso al varco con un'operazione simile), è il turno di Kenneth Branagh: riacciuffare una carriera ondivaga al suono di ricordi agrodolci. Il tutto rigorosamente in bianco e nero, con una fotografia talmente incantevole da essere degna del cinema Pawlikowski. Siamo nell'Irlanda degli anni Sessanta. Il piccolo alter-ego del regista si difende con uno scudo di latta dai draghi, dai drammi familiari, dagli sconvolgimenti politici. Benché molto preso dalle scorribande e da una coetanea, è impensierito da una serie tematiche: i genitori, sommersi dai debiti, meditano di andare altrove; i nonni, anziani, seminano perle di saggezza e preoccupazioni; le strade, un tempo familiari, ospitano barricate durante gli scontri tra protestanti e cattolici. Ogni elemento è al posto giusto, selezionato per non scontentare: mamma e papà sono di un'avvenenza fuori dal comune anche quando discutono (Caitríona Balfe è, a onor del vero, intensissima), gli anziani brontolano da Oscar (inspiegabile il casting di Ciaràn Hinds, di vent'anni più giovane della Dench e invecchiato malamente a colpi di trucco), le visite al cinematografo offrono significativi squarci di colore al biancore generale. Ma in Belfast, purtroppo, è tutto talmente attrattivo da risultare furbetto, patinato, piatto. Ogni anno c'è un film che sembra accontentare tutti tranne me: questo sarà l'anno di Branagh, con la pellicola più sopravvalutata e, forse, premiata della stagione. Un pugno di cartoline provenienti da un'infanzia così artefatta da sembrare di nessuno. (5,5)

L'ascesa di Venus e Serena Williams dal punto di vista dell'uomo che le ha messe prima al mondo, poi sui campi da tennis (solitamente appannaggio dei ricchi bianchi privilegiati): Richard, il loro papà. Ambientato nei primi anni Novanta, con le campionesse poco più che bambine, questo biopic tanto classico quanto appassionante mette in scena i sacrifici, l'orgoglio e lo spirito di abnegazione di una famiglia vincente. Padre di cinque figlie femmine, il protagonista ha un piano per ognuna di loro: cambieranno il mondo e si salveranno dal ghetto. Ma la perdizione esiste soltanto nel loro quartiere, o anche nelle competizioni del circuito professionistico? Solido nella prima parte, in cui prevale la grazia della dimensione corale, il film perde qualche colpo nella seconda: più concentrata sugli esordi di Venus, fa porre qualche domanda sulla condotta del genitore. La loro è una famiglia o un team? È giusto predisporre il futuro dei figli ancora prima che nascano? Quelli di Richard erano sogni o ossessioni? Disinteressata ad approfondire le controversie sul papà-manager, Hollywood sceglie per la vicenda un taglio fiabesco e toni bonari. Non stupisce, allora, la scelta di Will Smith come protagonista: idolo di generazioni vicine e lontane, qui spiegazzato come non mai, rispolverara i discorsi motivazionali del set di Muccino e punta facilmente agli Oscar. Pregi e difetti di un dramma sportivo senza ombre e con una morale sul valore dell'umiltà (non secondaria, però, al divertimento), che piace anche ai profani. (6,5)

Agli spettatori italiani Lucille Ball e Desi Arnaz diranno pochissimo. Star di una sitcom degli anni Cinquanta, erano i nostri Sandra e Raimondo. L'ultimo film del sempre bravissimo Sorkin è un biopic che ce li mostra a un crocevia: accusata di simpatizzare per il comunismo, Lucille fa i conti con i tradimenti del marito e una seconda gravidanza. Come mandare avanti comunque lo show? Nonostante Javier Bardem sia una spalla esemplare, Being the Ricardos è una masterclass tutta al femminile. Già anima della sitcom originale, Lucy diventa ancora il fulcro del tutto: Sorkin la mostra dagli esordi fino alla retrocessione in radio, in preda al fervore delle riprese e durante le tensioni del quotidiano. Buffa sul set, tutta smorfie e gridolini, nel privato era una padrona di casa perfezionista, polemica e sbloccata. Contestatissima da alcuni spettatori, una Nicole Kidman fresca di Golden Globe incarna entrambe le anime del personaggio alla perfezione e strega con un mimetismo che le arrochisce la voce e stravolge il viso (più del chirurgo, sì). La vicenda ha scarso appeal, soprattutto per il pubblico straniero? La struttura a tasselli non appare sempre funzionale? Se amate le grandi performance e i grandi autori, sedetevi ugualmente in poltrona e applaudite Sorkin. La sua è una commedia elegante, pulita, all'apparenza semplicissima. Ma, proprio come I Love Lucy, di quella semplicità che soltanto i set collaudati sanno rendere nascondendo gli sforzi del cast sotto il tappeto. (7)

mercoledì 12 gennaio 2022

Recensione: I margini e il dettato, di Elena Ferrante

| I margini e il dettato, di Elena Ferrante. E/O, € 15, pp. 154 |

Quante volte lo abbiamo detto? Di alcuni autori leggeremmo tutto, anche la lista della spesa. In attesa della terza stagione di L'amica geniale – a febbraio su Rai Uno – e, si spera, del prossimo romanzo, Elena Ferrante è tornata in libreria con un volumetto dalla copertina bellissima consigliabile soltanto agli appassionati accaniti. I margini e il dettato non contiene gli ingredienti segreti della cena di Natale, no, bensì tre lezioni universitarie destinate alla cittadinanza di Bologna e un saggio critico in occasione del settecentenario di Dante Alighieri. Breve ma densa, destinata a essere fruita in ambito accademico, la lettura è interessante ma non sempre godibile. A differenza di L'invenzione occasionale, che prediligeva al contrario illustrazioni variopinte e toni piacevolmente informali, l'ultimo libro Edizioni E/O mostra una Ferrante destinata a un pubblico universitario. Per fortuna resta comunque traccia dei suoi modi affabulatori, uniti qui a una scrittura rigorosa e a un bagaglio personale sempre vivissimo.

Così il romanzo d'amore comincia a soddisfarmi quando diventa romanzo del disamore. Il romanzo giallo comincia a prendermi quando si che nessuno scoprirà chi è l'assassino. Il romanzo di formazione mi sembra sulla via giusta quando è chiaro che nessuno si formerà. La bella scrittura diventa bella quando perde la sua armonia e ha la forza disperata del brutto. E i personaggi? Li sento falsi quando sono di limpida coerenza e mi appassiono a loro quando dicono una cosa e fanno l'opposto.

Benché protetta da uno pseudonimo, l'autrice ama raccontarsi. E questa lettura appassiona proprio allora: negli aneddoti sulla sua infanzia, nei retroscena dei romanzi più famosi, nei tentativi fallimentari e nelle insperate rimonte. Autocritica, contraddittoria e smaniosa, Ferrante si è sempre librata tra due opposti: la scrittura diligente e quella smarginata, la norma e la frantumaglia. Il suo caos interiore poteva forse rispettare i margini dei quaderni delle elementari? Questo conflitto sarà il fondamento della tetralogia. Lenù e Lila sono l'apollineo e il dionisiaco, l'ordinario e lo straordinario, e rappresentano un approdo importante: il passaggio dal solipsismo dei primi romanzi alla scoperta di una coralità, di “un'altra necessaria”. Chi l'ha ispirata? Sono moltissimi i nomi da appuntarsi: da Gaspara Stampa a Virginia Woolf, da Emily Dickinson a Gertrude Stein. In una letteratura appannaggio del sesso maschile, Ferrante ha coltivato la propria identità attraverso letture e suggestioni differenti.

Le frasi vere, buone o epocali, cercano sempre una loro strada tra frasi fatte. E le frasi fatte sono state una volta frasi vere che si sono scavate una via dentro frasi fatte. In questa catena di operine e grandi opere, in ogni anello grande o piccolo, c'è duro lavoro e illuminazioni casuali, fatica e fortuna. La via di Damasco non è una via ben segnata in quanto deputata alle folgorazioni. È una via come un'altra su cui, per caso, può capitare, mentre si sgobba e si suda, di accorgersi di un'altra via possibile.

La sua voce risuona di una pluralità di voci, dunque, in un gioco tanto affascinante da apparire quasi stregonesco. Ma anche Dante Alighieri le ha insegnato qualcosa d'importante sui banchi di scuola: pionieristico, infatti, il poeta fiorentino rivoluzionò le gerarchie femminili della Divina Commedia e regalò all'amata Beatrice né leggiadria né gentilezza, bensì un ruolo di guida salvifica. Mentre gli uomini, fragili, vagavano nei meandri della selva oscura, le donne di Dante avevano “intelletto d'amore” e un'invidiabile favella. Quali sono stati i primi passi della scrittrice italiana destinata presto a finire nel novero dei grandi classici? Chi l'ha formata, e in che modo? Come ha coltivato la propria vocazione realistica, pur sperimentando nel corso della carriera il noir, il romanzo sentimentale e l'horror? Annotiamo titoli, informazioni, passi. Prendiamo diligentemente appunti. La verità, però, è che ci accontenteremmo di sentire Ferrante raccontare di Elena a oltranza: lontana dalla cattedra, oltre questa aura di sfinge inarrivabile.

venerdì 7 gennaio 2022

Mio caro Stoner: lettera aperta a un altro me stesso per i primi dieci anni del blog

Mio caro Stoner, 

qualche anno fa ti leggevo ed entravo in crisi d'identità. Non volevo diventare come te; insegnare. Mi spaventava la tua vita grigia e monotona, nei binari. Ti leggevo, ascoltavo Brunori Sas («la verità è che ti fa paura l'idea di scomparire») e piangevo. In comune avevamo gli studi, la malinconia e il destino annunciato. Perché avevo studiato Lettere, accumulato i crediti giusti e tutto il resto? Perché mi ero condannato inconsapevolmente a vivere la tua esistenza e i tuoi medesimi sbagli? Nel 2021 appena salutato ho scoperto che essere come te, invece, non è così male. 

Mi piace la mia routine, mi piace avere una tabella di marcia, mi piace sentirmi adulto e indispensabile per qualcun altro. Questo post nasce per ricordare il compleanno del blog, sono online da dieci anni tondi tondi, ma  anche e soprattutto per stilare un lucido bilancio dell'anno appena trascorso. Nonostante tutto, sono grato al 2021: mi ha messo alle strette fino a farmi diventare più me stesso. Mi piaccio così? A giorni alterni, a tratti, ma adesso almeno so chi sono: Michele Del Vecchio, ventisette anni, insegnante precario, con un angolo virtuale in cui raccontarmi e un romanzo nel cassetto (semifinalista a un concorso letterario, è stato poi oggetto di due illustri rifiuti da cui fatico a riprendermi). Da ragazzino avevo l'ossessione di condividere, arrivare, scrivere: volevo farne un lavoro. Ora che sono diventati semplicemente hobby, me li vivo meglio e me li godo di più. È il sette gennaio e non ho ancora cominciato una nuova lettura; non scrivo, invece, dalla scorsa estate. Sono meno presente che in passato? Pazienza. Leggo meno? Non fa nulla, ma spero di leggere almeno i libri giusti. Mi comporta troppo tempo scrivere lunghi post? Poco male, mi racconto così come viene su Instagram e Letterbox. 

Dieci anni fa, per la prima volta, pubblicavo un post online. Era una presentazione di poche righe, goffa ma onesta proprio come il sottoscritto. Sono andato a rileggerla, oggi, e non mi sono scoperto poi troppo diverso dal diciassettenne di quando tutto cominciò. Resto ancora così, anche se tanto è cambiato nel frattempo: perfino il mio modo di descrivermi, raccontarmi, interagire. Sono subentrate la consapevolezza della malattia, la sindrome d'abbandono, l'ansia sociale. Ma anche la pacata accettazione di chi non sarà mai il fantastico Harry Potter o l'ambizioso Jay Gatsby, bensì qualcuno come te: un insegnante occhialuto e riservato, magari un po' grigio se visto da fuori, ma con una vita immaginaria di un'intensità talora commovente. Questo significa arrendersi? Significa crescere, forse, e considerare i sogni per quel che sono: cose da fare nei ritagli in cui la vita, finalmente, ci lascia in pace. Spero comunque di farne ancora e ancora di bellissimi. 

A rileggerci tra altri dieci anni, 

Michele 

venerdì 31 dicembre 2021

[2021] Top 10: Il mio cinema

10. Little Fish: Cooke e O'Connell si amano di un amore tenero e duraturo. A minare la loro relazione è una pandemia che semina l'oblio tra i contagiati. Attuale, teso e angoscioso come quel Don't Look Up sulla bocca di tutti, questo piccolo esordio sceglie il punto di vista delle persone normali e i toni del cinema indie. Perdersi sarà spaventoso. Ma riconoscersi, a sorpresa, potrebbe essere più magico della prima volta.

9. Minari: Adattandola alle misure dell'adorabile protagonista, Lee Isaac Chung cuce una saga familiare quieta, solare, delicata in maniera disarmante. Un incanto bucolico tra Corea e Stati Uniti, dove l'erba commestibile sulle anse del fiume – il “minari” del titolo – simboleggia l'arte di cavarsela. Un gioiello d'altri tempi per imparare a vivere meglio e più saggiamente i nostri.

8. Petite Maman: Cosa diresti a tua madre se potessi conoscerla quand'era bambina? Autrice sensibile e acuta, la francese Sciamma condensa in settanta minuti i dolorosi non detti dei legami di sangue. E riesce a porvi rimedio grazie al lunghissimo abbraccio ristoratore di questo brevissimo film speciale.

7. Luca: Ammettiamolo, si racconta sempre la solita Italia da cartolina. Ammettiamolo, non c'è niente di nuovo sotto il sole della Liguria. Ma il buon Luca piace per il ricordo delle estati più belle e per le riflessioni sulle pressioni che ci inibiscono. Prendiamo esempio da Alberto Scorfano, e gridiamo alle nostre paure: "Bruno, silenzio!"

6. Il potere del cane: C'è più sesso nel cinema di Jane Campion che nella bibliografia di E.L. James. È impossibile non lasciarsi travolgere dalla tensione erotica, palpabile e dolorosissima, del suo ultimo film. Un dramma crudo, freddo e polveroso, sulla natura incontaminata del Montana e su quella, segreta, dei suoi cowboy in crisi capitanati dall'infernale Cumberbatch. 

5. Pig: Toccante senza volerlo, il vendicatore Nicolas Cage va a caccia di un maiale rapito. Ma ti sorprende grazie a un rosso corposo, a un piatto elaborato, servito con tutti i crisi: perché la cucina è condivisione, memoria. E in cucina, così come dietro le quinte, van sminuzzati, masticati e inghiottiti i dolori più struggenti; le elaborazioni negate.

4. Malcolm & Marie: Zendaya e Washington in una gara di bravura senza pari. Chi avrà l'ultima parola? Citando il suo stesso protagonista, quello di Levinson è l'esempio di un cinema disinteressato a veicolare messaggi, ma pieno di cuore e di energia. Il risultato è un manuale di critica fuso ad arte con un'autopsia di coppia.

3. Una donna promettente: Folgorante esordio di Emerald Fennell – premio Oscar alla Miglior Sceneggiatura Originale –, è una commedia nera che prima intriga, poi diverte, infine sconvolge. Frullatore di toni, temi ed emozioni, è un assordante grido femminista con le argomentazioni della migliore Diablo Cody

2. È stata la mano di Dio: Combattuto tra orgoglio e vergogna, Sorrentino fa pace con la sua adolescenza incappando in una contraddizione: scappare lontano, ma con Pino Daniele in cuffia. È il paradosso di un romanzo di formazione che si strugge appresso alle gesta di Maradona e che, a miracolo avvenuto, preferisce infine ritirarsi nel bozzolo di un'epifania in atto.

1. West Side Story: Ci sono quei grandi film che nella sala semivuota di uno spettacolo pomeridiano ti fanno sentire improvvisamente piccolo. Con il cuore in gola e nelle orecchie – boom boom boom boom: faceva il matto per rivaleggiare con l'indimenticabile colonna sonora di Bernstein –, mi sono scoperto piccolo e invidioso davanti all'ultimo Spielberg. Un remake in grado di bissare un capolavoro di sessant'anni fa, contagioso nella sua magnificenza.

giovedì 30 dicembre 2021

[2021] Top 10: Le mie serie TV

10. The Great: Dall'autore di La favorita, una scoppiettante riflessione sul potere, e sulle donne al potere, storicamente accurata nonostante i toni post-moderni. Fanning e Hoult, esilaranti zar di Russia, si confermano tra i migliori attori della loro generazione. Huzzah!

9. Sex Education: Una serie che cresce, stagione dopo stagione, e la terza è la più bella tra tutte. Matura e inclusiva, elogia il sesso e condanna il sessismo. Dà voce a ogni identità, mette in mostra ogni corpo. Ti insegna a stare meglio al mondo – e con più leggerezza.

8. Master of None: Ansari torna per spiazzare e, forse, scontentare. Il terzo atto della sua serie, questa volta con al centro due donne desiderose di diventare madri, è un ritratto bergmaniano a cui mi sono abituato in fretta. Non me ne vorranno Isaac e Chastain: Naomi Ackie, straordinaria, è una padrona di casa più indimenticabile di loro.

7. Them: La piaga del razzismo raccontata come se fosse un horror. A differenza del cinema di Peele, questa nuova serie antologica non procede per metafore. Ma la storia della sopravvivenza degli Emory – afroamericani in un quartiere bianco degli anni Cinquanta – riempie di disgusto e indignazione. Stando ai tragediografi greci, la catarsi passerebbe da lì.

6. WandaVision: Una deliziosa congiunzione tra il cinecomic e l'essai. Il ritratto sovrumano del più umano dei sentimenti – l'elaborazione –, nonché un atto d'amore verso l'amore in sé e le serie televisive: sono loro, ben più dei supereroi, a salvarci dai conflitti, dall'isolamento e, qualche volta, perfino da noi stessi.

5. Maid: Dagli autori di Shameless e Promising Young Woman, un'ordinaria vicenda di coraggio sorretta da un cast straordinario in cui giganteggiano Margaret Qualley e Andie MacDowell. Madre e figlia anche nella realtà, minacciano continuamente di andare in pezzi. Ma, miracolose fino all'ultimo, non si romperanno mai.

4. Strappare lungo i bordi: Zerocalcare è la voce di una generazione vicina alla mia tanto nella pazza gioia quanto nella disperazione. Non abbiamo linee tratteggiate da seguire, né forbici per realizzare un lavoro di precisione. Strappiamo, e ci strappiamo. Siamo stracci, coriandoli. Siamo tagli. Nichilisti con brillantezza, ce lo ricordano uno spiantato artista romano e il suo armadillo.

3. Foodie Love: Il Normal People della generazione successiva, il Prima dell'alba al tempo degli algoritmi. Disponibile su RaiPlay, è un intrattenimento loquace, colto e spudoratamente sexy. Un gioiellino pieno di carnalità e di ristoranti affollati, da condividere con qualcuno che ami.

2. Anna: La serie di Niccolò Ammaniti è violenta, grottesca e imprevedibile, come i suoi bambini post-apocalittici che a volte ammazzano e altre vengono ammazzati. E, dal basso della sua statura e dall'alto della sua saggezza, fornisce strumenti impensati per trasformare l'incubo del virus in una bellissima favola del terrore.

1. It's a sin: Un gruppo di amici e l'avvento dell'Aids. L'ansia, le bugie, il negazionismo, il terrore del contatto fisico. Attuale come non mai in tempi, la serie del creatore di Years and Years è un tornado emotivo. A tratti prende a schiaffi e a tratti risolleva gli animi, con una dimensione corale degna di una sitcom irrinunciabile. 

martedì 28 dicembre 2021

[2021] Top 10: Le mie letture

10. La figlia oscura: In attesa dell'omonimo film di Maggie Gyllenhaal, una Ferrante in pillole amarissime. Misteriosa, erotica e perturbante come non mai, l'autrice della leggendaria tetralogia scandaglia il cuore femminile con la coerenza spietata di chi ha stretto amicizia coi propri demoni. Ci si può realizzare come esseri umani ed essere, al contempo, madri esemplari?

9. Latte arcobaleno: Energico, vitale e leggerissimo, il debutto di Mendez rischia di venire appesantito dalle pagine finali. Ma nemmeno allora, per fortuna, tradisce l'amore per i colori saturi, le citazioni pop, i corpi ansanti. Basso e magrolino, il protagonista avrebbe bisogno di una terapeuta o di un abbraccio. Nel frattempo canta in playback le hit del momento, lasciandosi alle spalle le tracce dell'avvenuta muta: pelle di serpente, pelle nera.

8. Le stanze buie: Ho voluto fortemente visitarle dal nuovo, queste famigerate stanze – apparse otto anni fa con Mursia Editore –, e le ho scoperte riarredate. Nonostante il mobilio mutato, ho constatato di sentirmi benaccetto come durante il primo soggiorno. La mia memoria olfattiva ricordava l'odore di cera calda e il profumo di Lucilla Flores; quella del cuore, invece, tutto il resto. 

7. La casa vicino alle nuvole: Sporco eccezionalmente di sangue, l'ultimo Nickolas Butler – immancabile nelle mie classifiche di fine anno – racconta di un'amicizia che minaccia di erodersi. Come si erodono gli animi, se mangiati dalla cupidigia; come si erodono le montagne. È una lotta contro il tempo, contro la morte, contro la Natura stessa, per erigere un sogno su misura. O forse un incubo?

6. La nostra furiosa amicizia: Formazione inquieta e pericolosissima, questo young adult a tinte crime sorprende sin dalla prima pagina: in esergo, infatti, leggiamo citazioni tratte da Hannah Arendt e RuPaul. Come si possono conciliare una filosofa tedesca e un'icona della TV americana, celebre per la sua sfida tra drag queen? Scopritelo attraverso lo stile folle e immaginifico di Rufi Thorpe. 


5. Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata: Esordio narrativo dello sceneggiatore di BoJack Horseman, mi ha fatto ridere, piangere e spinto a sottolineare le cose più urgenti. Giunto all'ultima pagina, ho avuto la sensazione di aver esagerato con i biscotti assortiti – ogni racconto è un dolcetto pescato da una scatola di latta – o di essermi preso una sbronza triste. Mi giravano forte lo stomaco e la testa; mi girava il cuore.

4. Il valore affettivo: Nicoletta Verna obbliga a uno stato di tensione imperituro. Il suo è un esordio di vertiginosa bellezza da leggere come fosse un noir. Disturbato e disturbante, richiama per eleganza il cinema di Haneke e si pianta in testa attraverso la voce di Bianca: un personaggio unico nel suo genere, che non sfigurerebbe nella galleria di quelli interpretati da Isabelle Huppert.

3. La promessa: Fresco vincitore del Booker Prize, il romanzo sui membri della sfortunata famiglia Swart (raccontati attraverso quattro funerali in quattro decenni) ha la fluidità e l'estro di quei film girati interamente in piano sequenza. Nonostante le 300 pagine scarse, la lettura risulta densissima: un caos tragicomico con un irresistibile cast sudafricano.

2. Un giorno questo dolore ti sarà utile: Non è mai troppo tardi per rivivere i propri tormenti adolescenziali, né per auscultarsi e scoprirsi degli adorabili disagiati. A diciotto anni lo avrei considerato uno dei miei romanzi preferiti. A ventisette anni, invece, vado dicendo di essermi imbattuto a scoppio ritardato in una di quelle storie-specchio che riflettono tutte le mie contraddizioni.

1. Una vita come tante: Quando ho iniziato questa bellissima impresa lunga oltre mille pagine, avevo bisogno di un brano triste che facesse pendant con il mio stato d'animo. Cercavo la catarsi. E l'ho trovata, sì, insieme all'armonia segreta che smussa perfino gli spigoli dei pentagrammi più tristi. Hey Jude: ti devo piangere, ti devo abbracciare, ti devo elaborare. Ti devo perdonare.

venerdì 24 dicembre 2021

Che musica, maestro: West Side Story | Tick Tick... Boom! | Caro Evan Hansen | Annette | In the Heights

Ci sono quei grandi film che nella sala semivuota di uno spettacolo pomeridiano ti fanno sentire improvvisamente piccolo. La prima volta mi era successo con Moulin Rouge, l'ultima con La La Land. A sorpresa saluto dicembre con una di quelle visioni che ti colgono in poltrona elettrizzato, commosso e invidioso: un musical, l'ennesimo. Forse il genere che meglio rappresenta la potenza creatrice e immaginifica del cinema. La storia è nota. Negli anni Cinquanta, l'amore tra una coppia di novelli Romeo e Giulietta minaccia gli equilibri del quartiere: Jets e Sharks – gringo contro portoricani – lottano a passo di tip-tap. Rifacimento di un classico intramontabile, West Side Story rischia di essere schiacciato dalle uscite natalizie e dalla fama dei remake: si può bissare un capolavoro? Sì, se alla regia c'è uno dei più grandi registi viventi. Spielberg, alla tenera età di settantacinque anni, realizza un sogno: dirigere un musical. E le piroette della sua macchina da presa, instancabili, sono perfino più spettacolari di quelle del corpo di ballo. Rimodernati ma non troppo nell'era post-trumpiana, i protagonisti cantano come angeli e ballano come diavoli. Con buona pace del già popolare Elgort, questa volta si lasciano rubare la scena dai personaggi femminili: Rachel Zegler, innocente ma conscia della propria femminilità in boccio, incanta; Ariana DeBose, in odore di Oscar, è indimenticabile nel suo vestito giallo e emoziona nel dialogo con Rita Moreno, ossia la Anita della versione originale. Alcuni film non dovrebbero essere rimaneggiati, tuona qualcuno. Ma la verità è che alcuni film – alcuni spettacoli –, nonostante il già ampio minutaggio, non dovrebbero finire mai. Con il cuore in gola e nelle orecchie – boom boom boom boom: faceva il matto per rivaleggiare con l'indimenticabile colonna sonora di Leonard Bernstein –, mi sono scoperto piccolo e invidioso, sì. Perché l'ultimo Spielberg, tra movimenti di macchina, scenografie e costumi coloratissimi, è così contagioso nella sua magniloquenza da amareggiare lo spettatore medio e senza talento: è mai possibile, mi sono chiesto, che in vita mia non potrò mai dare il mio contributo a una cosa così? Il mio film del 2021 ha sessant'anni. (10)

Jonathan Larson, autore del leggendario Rent, morì a trentacinque anni all'alba del suo successo. Ma questa non è la genesi del suo capolavoro, né tanto meno la storia della sua fine precoce. Il film, dal titolo significativamente onomatopeico, è l'adattamento di uno dei suoi primi musical: un'opera autobiografica, spettacolo nello spettacolo, che racconta la gavetta tra palcoscenico e vita privata. Nella New York degli anni Novanta, in appartamenti in cui è sempre festa, vanno in scena le vite di Jon e dei suoi amici. Aspiranti artisti, sognano la fama e sbarcano il lunario con lavori da poco. Qualcuno scende a compromessi, qualcuno migra. Ma il protagonista, un Peter Pan orgogliosissimo, non si arrende: vuole che il suo musical fantascientifico, dopo una gestazione di otto anni, trovi finalmente un produttore. Il tutto prima di spegnere trenta candeline. Il tempo incalza, scorre. E scandisce le prove dello spettacolo, il diffondersi dell'Aids, le ossessioni del protagonista. Dirige, bene ma senza guizzi, il solito Lin-Manuel Miranda: il futuro di Broadway omaggia, così, il suo passato glorioso in un passaggio di testimone. Recita meravigliosamente (e canta, balle, ride, piange) un Andrew Garfield al centro della performance dell'anno: versatile, poliedrico, febbrile, regge uno show degno di Robin Williams. Più memorabile per la sua prova vincente che per il resto, nonostante un gran ritmo e qualche pezzo particolarmente trascinante, il film tocca gli inguaribili sognatori. E chi, come me, si è segretamente già arreso al compromesso dell'età adulta. (7)

Può un musical cantare la depressione, l'ansia sociale, il suicidio? Succede se uno spettacolo già rivoluzionario viene portato al cinema dal regista di Noi siamo infinito e Wonder: terapeutici senza essere didascalici. Accolto negativamente dalla critica, Dear Evan Hansen continua in realtà la lezione di gentilezza avviata con i film precedenti. Il protagonista sotto ansiolitici torna a scuola con un braccio rotto e tanta voglia di riscatto: per via di un fraintendimento, finisce per essere considerato il migliore amico del coetaneo tossicodipendente che si è tolto la vita. Troppo vicino alla famiglia di Connor per tirarsi indietro, inventa una corrispondenza con il defunto. Diventa virale. Può un bugiardo diventare, suo malgrado, l'idolo di una generazione? La voce di Ben Platt, emozione pura, intona ritornelli struggenti contro i tabù. Bravissimo nel rendere i tic e le contraddizioni del suo personaggio, viene affiancato da qualche personaggio in grado di alleggerire i toni e da due dive d'eccezione: Julianne Moore e Amy Adams, impegnate in camei di lusso. Tra una canzone e l'altra, sorgono sentimenti contrastanti verso Evan. Cosa avremmo fatto al suo posto, alla sua età, per essere finalmente visti? L'ultimo Chbosky ti abbraccia forte. E ti tira anche un ceffone. Com'è che si dice? Sii gentile, ognuno sta combattendo in segreto i propri demoni. Dear Evan Hansen, ben cantato e musicato, è la colonna sonora della nostra battaglia. (7,5)

In un Festival di Cannes dove a sorpresa ha trionfato Titane, body horror con tanto di rapporto sessuale tra donna e automobile, non poteva esserci film d'apertura più audace e bizzarro di questo: il ritorno di Leos Carax, regista da me incompreso o forse incomprensibile, questa volta alle prese con il musical. La sequenza d'apertura, bellissima, infrange la quarta parete e ci invita a trattenere il respiro davanti a una storia d'amore mozzafiato. Peccato che il resto sia un delirio d'autore senza capo né coda in cui il caustico Adam Driver s'innamora della sognante Marion Cotillard. Nascerà una figlia prodigiosa, con le fattezze di una grottesca marionetta. A dispetto della strabordante presenza scenica del primo e della grazia della seconda, ridotta qui a una bidimensionale Biancaneve, il film si perde definitivamente nella seconda parte: tragedia cupissima, di gelosia e ambizione, i cui risvolti crime sono annunciati sin dal trailer. Come gli eroi dell'opera lirica, i protagonisti di Annette si esprimono per tutto il tempo in un recitar cantando a corto di ritornelli memorabili. Vivono d'arte, muoiono d'amore, cantano dappertutto (anche al bagno o praticando sesso orale). Musical alienante e dalla durata fluviale, veicola le stranezze e le idiosincrasie del regista risultando francamente inutile e pretenzioso. È un cinema divisivo, da amare o odiare: io l'ho odiato. (4)

Da Lin-Manuel Miranda, autore di Hamilton, arriva al cinema un musical già passato con successo a Broadway. Dirige il regista di Crazy Rich Asians, a proprio agio coi cast belli e popolosi, le resse e i colori sfavillanti. Si canta un quartiere di New York. Ma non è West Side Story. Leggerissimo, il film è una fiaba melensa sull'immigrazione e il multiculturalismo ambientata nel barrio in cui è felicemente riunita la comunità latina. Il protagonista pensa di tornare in Repubblica Dominicana, di aprire un bar sulla spiaggia. Ma c'è chi sta bene dove sta e ambisce a un salto di carriera. E chi, bollato come promettente, fa i conti con il sottile razzismo sperimentato lontano dagli Heights. Su tutti veglia un'anziana, la saggia nonna del quartiere, che predica pazienza e fede. Sognano notte e giorno, i protagonisti. Giovani e vecchi, non importa. Si muovono a ritmo di salsa e di hip hop. Sono al centro di coreografie straordinarie, ma le canzoni memorabili purtroppo non sono di casa benché cantino sempre: durate i blackout, sudatissimi, poveri, dati per vinti. Felici anche nelle ristrettezze, illuminano gli attimi di panico coi fuochi artificiali. Assembramento irresistibile ma sin troppo caotico e dispersivo, il film è una festa di quartiere all'insegna degli affetti stabili e del comfort food. Un flash mob piacevole, ma lungo in maniera ingiustificata data la pochezza della trama, che piacerà agli americani ma lascerà più indifferenti noialtri. (6)