venerdì 21 agosto 2015

Coming This Fall #11 - Parte Uno

                                       Ritorni d'autore
Titolo: Quello che non uccide – Millennium IV
Autore: David Legercrantz
Editore: Marsilio
Prezzo: € 22,00
Data di pubblicazione: 28 Agosto
Sinossi: Sarà l'evento editoriale dell'anno e l'attesa, da parte dei media come dei lettori, è già alle stelle. Tutto ciò che riguarda il nuovo thriller che prosegue la Millennium Trilogy è avvolto nella massima segretezza, e per il momento non è possibile svelare alcun particolare relativo alla trama del romanzo. «Ci sono Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander. E poi Erica Berger, l'ispettore Jan Bublanski e Sonja Modig. Troverete il poliziotto Hans Faste, lo zelante pubblico ministero Richard Ekström, il sempre leale Holger Palmgren, Plague della Repubblica degli hacker, e molti altri.»

Titolo: Va', metti una sentinella
Autore: Harper Lee
Editore: Feltrinelli
Prezzo: € 19,00
Data di pubblicazione: 19 Novembre
Sinossi: Il romanzo che ha generato il celeberrimo Il buio oltre la siepe, scritto da Harper Lee qualche anno prima dell'opera che l'ha resa famosa ma dove incontriamo per la prima volta alcuni degli stessi protagonisti, tra cui l'indomita Scout (Jean Louise Finch) e suo padre, l'avvocato Atticus Finch.



Titolo: Anna
Autore: Niccolò Ammaniti
Editore: Einaudi
Prezzo: € 19,00
Data di pubblicazione: 29 Settembre
Sinossi: In una Sicilia diventata un’immensa rovina, una tredicenne cocciuta e coraggiosa parte alla ricerca del fratellino rapito. Fra campi arsi e boschi misteriosi, ruderi di centri commerciali e città abbandonate, fra i grandi spazi deserti di un’isola riconquistata dalla natura e selvagge comunità di sopravvissuti, Anna ha come guida il quaderno che le ha lasciato la mamma con le istruzioni per farcela. E giorno dopo giorno scopre che le regole del passato non valgono piú, dovrà inventarne di nuove. Una luce che si accende nel buio e allarga il suo raggio per rivelare le incertezze, gli slanci del cuore e la potenza incontrollabile della vita. Perché, come scopre Anna, la «vita non ci appartiene, ci attraversa».

Titolo: Chi perde paga
Autore: Stephen King
Editore: Sperling & Kupfer
Prezzo: € 19,90
Data di pubblicazione: 22 Settembre
Sinossi: John Rothstein, scrittore osannato dalla critica e amato dal pubblico, è stato reso immortale dal suo personaggio Jimmy Gold. Morris Bellamy, il suo fan più accanito, gli è piombato a casa sua nel cuore della notte, furibondo non solo perché Rothstein ha smesso di scrivere, ma perché ha fatto finire malissimo il suo adorato Jimmy. Bellamy è venuto a rapinarlo, ma soprattutto a vendicarsi. Non sa ancora che oltre ai soldi, John Rothstein nascondeva un tesoro ben più prezioso: decine di taccuini con gli appunti per un nuovo romanzo. E non sa che passeranno trent'anni prima che possa recuperarli. A quel punto, però, dovrà fare i conti con Bill Hodges, il detective in pensione eroe melanconico di Mr. Mercedes, e i suoi inseparabili aiutanti.

Titolo: Gli ospiti paganti
Autore: Sarah Waters
Editore: Ponte alle grazie
Prezzo: € 18,60
Data di pubblicazione: 15 Ottobre
Sinossi: Nel 1922 Londra mostra ancora i segni della guerra. Una famiglia è stata sfaldata dal conflitto e madre e figlia si ritrovano sole, senza i loro uomini persi in battaglia. Sono perciò costrette ad affittare le stanze della loro casa e Gli ospiti paganti sono una coppia di sposi con cui condivideranno intimità, rumori, incontri e abitudini. Ma a sconvolgere la quotidianità saranno un amore inaspettato, un'aggressione e un omicidio...

Titolo: Le tre notti dell'abbondanza
Autore: Paola Cereda
Editore: Piemme
Prezzo: € 17,50
Data di pubblicazione: 25 Agosto
Sinossi: Fosco è un paese arroccato su uno scoglio a picco sul mare. Per arrivare alla spiaggia, bisogna avventurarsi lungo una scala di legno e pietra che nessuno si è mai preso la briga di aggiustare. Perché il mare è maledetto e gli abitanti non lo possono avvicinare. La Calabria di Fosco è una terra aspra dove il tempo scorre lento, dove tutti corrispondono ai propri ruoli e ai propri cognomi e, fin dalla nascita, hanno il loro posto nel mondo. Le regole, dettate dalla malavita locale, sono legge per coloro che lì nascono. Per tutti, ma non per Irene. Irene ha quindici anni e un quaderno arancione sul quale disegna il quotidiano, così come se lo immagina. La notte, sui tetti di Fosco, si incontra con Rocco, il figlio di uno sparato, in uno spazio di complicità e tenerezza che permette di fantasticare un altro mondo possibile. Durante l’annuale pellegrinaggio alla Madonna delicata, Irene e Rocco ascoltano una conversazione tra masculi che cambia per sempre il corso delle loro vite. Le successive tre notti dell’abbondanza segnano un prima e un poi senza ritorno. E se è vero che le donne di Fosco nutrono il sistema e spingono i figli a vendicare, c’è chi prova a cambiare, nella convinzione che la vita si accetta ma non si subisce. Irene farà la sua scelta. La vita, per lei, è una pennellata di colore su un muro bianco.

Titolo: Chaos – Il nemico
Autore: Patrick Ness
Editore: Mondadori
Prezzo: € 17,00
Data di pubblicazione: Dicembre (?)
Sinossi: Todd sta per compiere tredici anni, ed è l'unico ragazzo sopravvissuto a Prentisstown. Qui le donne sono scomparse e tutti i 146 abitanti della cittadina sono affetti dal "rumore". In questa realtà in cui tutti sono perennemente "connessi" alla mente degli altri sembra impossibile nascondere i propri segreti. Eppure c'è un grande segreto da scoprire. Todd, armato di un misterioso coltello ricevuto in dono, sa solo che deve correre e fuggire lontano: ma da chi? E perché? Quando incontra Viola, la fuga diventa la ricerca della libertà dall'universo opprimente di Prentisstown. Ma la salvezza è lontana. Per salvarsi Todd e Viola sono costretti a separarsi. E a fidarsi del loro più grande nemico, il sindaco Prentiss. Todd ne diviene collaboratore e sodale; Prentiss, l'unico che abbia notizie del destino di Viola, tiene in pugno le esistenze di entrambi. Ma dove è nascosta Viola? È ancora viva? Qualcosa o qualcuno deve essere sacrificato per sempre, in nome della libertà.

                                        Narrativa Straniera
Titolo: Piccoli esperimenti di felicità
Autore: Hendrik Groen
Editore: Longanesi
Prezzo: € 14,90
Data di pubblicazione: 1 Ottobre
Sinossi: Hendrik è il tipo d’uomo che fa conti del genere ogni giorno. Anche perché nella sua casa di riposo c’è poco altro da fare. La vita trascorre placida, fin troppo. Ha sempre fatto buon viso a cattivo gioco, ma ora si chiede se davvero ne sia sempre valsa la pena. E soprattutto se vale la pena di continuare così. E siccome nella vita bisogna avere dei progetti, o perlomeno fare degli esperimenti, Hendrik decide due cose. La prima: farsi dare dal suo medico la pillola della dolce morte. La seconda: concedersi un anno, prima di prenderla, e in quell’anno fondare un club. In quest’anno di vita succederanno tante cose, tante scoperte, tante perdite e molti piccoli esperimenti di felicità... E alla fine si vedrà chi l’avrà vinta: la pillola o una nuova primavera da attendere.

Titolo: Florence Gordon
Autore: Brian Morton
Editore: Sonzogno
Prezzo: € 17,50
Data di pubblicazione: 17 Settembre
Sinossi: Florence Gordon ha settantacinque anni e vive a Manhattan, ma non è certo una vecchia signora. È una femminista ebrea divorziata, una scrittrice scorbutica, un’attivista testarda e orgogliosa. Detesta la maggior parte delle cose che la gente trova piacevoli e ama mettere gli altri in difficoltà. Anche la famiglia è per lei un fastidio più che una rete di affetti. Florence sta lavorando alla sua settima fatica, un libro di memorie, e desidera solo restarsene a casa tranquilla, quando un importante articolo del New York Times la definisce “patrimonio nazionale”. Di colpo viene catapultata sotto le luci della ribalta e la sua vita prende un’accelerazione definitiva, obbligando Florence a uscire da quel filo spinato che aveva costruito attorno a sé. La situazione precipita appena i suoi “cari”, dalla lontana Seattle, si trasferiscono a New York. Florence si sente sotto assedio e sarà costretta ad avere molti più contatti con il prossimo di quanti ne vorrebbe.

Titolo: Hugo & Rose
Autore: Bridget Foley
Editore: E/O
Prezzo: € 18,00
Data di pubblicazione: 10 Settembre
Sinossi: Rose è delusa dalla sua vita pur non avendone motivo – ha una bella famiglia e una deliziosa casa in un bel quartiere.  Ma per Rose questa vita ordinaria è messa in ombra dalla sua altra vita, quella che vive ogni notte nei suoi sogni. Da bambina, in seguito a un incidente, ha iniziato a sognare una meravigliosa isola ricca di avventure. Su quest’isola non è mai stata sola: c’è sempre Hugo, un ragazzo coraggioso che cresce assieme a lei negli anni fino a diventare il suo eroe. Ma quando con loro grande sorpresa i due si incontrano nel mondo reale dovranno scegliere cosa fare del loro rapporto: restare amici? Diventare qualcosa di più? Oppure continuare a vivere avventure solo nei sogni senza le incognite della realtà?

Titolo: So che sei qui
Autore: Clélie Avit
Editore: Mondadori
Prezzo: € 18,00
Data di pubblicazione: 15 Settembre
Sinossi: È in coma da venti settimane. Sente tutto, ma nessuna delle persone accanto a lei se ne accorge. Un giorno, per errore, entra nella sua stanza un ragazzo sconosciuto. Thibault non sa nulla della storia di Elsa, ma inizia a parlarle, conosce i suoi amici, qualcosa nella ragazza addormentata che profuma di gelsomino e gli sembra così dolce lo tiene legato magneticamente alla sua stanza. Giorno dopo giorno torna a farle visita. Ed Elsa? Sente tutto, ma non può rispondere. Non può chiedere a quel ragazzo gentile di prometterle che tornerà anche il giorno dopo, non può dirgli che sa riconoscere il suono della sua risata in corridoio e che ora quasi sente il calore del suo bacio sulla guancia. Thibault non sa che Elsa non si risveglierà più, perché a breve la staccheranno dalle macchine che la tengono in vita. L’hanno deciso i medici, la famiglia ha acconsentito. Tutti credono che sia impossibile che Elsa si risvegli, eppure ogni volta che Thibault entra nella stanza il suo cuore…

Titolo: Prometto di sbagliare
Autore: Pedro Chagas Freitas
Editore: Garzanti
Prezzo: € 16,40
Data di pubblicazione: 27 Agosto
Sinossi: Il locale è affollato e rumoroso. L’uomo è seduto vicino alla finestra e guarda il cielo grigio. Sono passati anni dall’ultima volta che l’ha vista, il giorno in cui l’ha lasciata. Da allora, lei si è rifatta una vita, e anche lui. Eppure solo ora si rende conto di non avere smesso di amarla neanche per un secondo. Per questo, quando lei cerca di fuggire da lui, troppo sconvolta dalle emozioni che la percuotono, l’uomo decide di fermarla. E nel loro abbraccio, in mezzo ai passanti, prometterle di tentare, agire, cadere, sbagliare di nuovo. Amarla. Davvero e per sempre. Questa sembrerebbe la fine, ma non è che l’inizio della loro storia. Perché ogni loro gesto, ogni lettera che si scrivono, ogni persona che incontrano, ha un universo da raccontare. E l’amore è il filo rosso che lega tutto.

mercoledì 19 agosto 2015

Pillole di recensioni: Il Creasogni, Quando meno te lo aspetti

Titolo: Il Creasogni
Autore: Simone Toscano
Editore: Ultra Novel
Numero di pagine: 190
Prezzo: € 16,00
Il mio voto: ★★★
La recensione: Ci sono generi che sono bravissimo ad evitare. Perché mi rubano le parole di bocca e perché, poi, non so che dire. Chi mi legge sa di che parlo e, ormai, sa come li chiamo. I romanzi né belli né brutti, che nel dubbio - ingiudicabili - definisco semplicemente "boh". Pensavo di averli evitati accuratamente, quest'estate. Di solito, a mandarmi in confusione sono i racconti: come valutarli, singolarmente o tutti insieme? I racconti, e i romanzi per cui non si ha l'età. Come i classici - che sei ancora troppo infantile per apprezzarli - oppure le fiabe - che insegnano qualcosa anche ai grandi, sebbene tu non sempre sia in grado di coglierne la morale di fondo. Romanzi come Il creasogni: sbucati dal nulla, improvvisamente sulla bocca di tanti colleghi, inevitabilmente nella mia pila di libri da smaltire. L'esordio di Simone Toscano - giornalista, qui cantastorie vecchia maniera - parla di un paese in cui c'è un artigiano che fabbrica sogni su misura. Ha un soprannome, giacché la sua identità nessuno la ricorda più, e vive dei sorrisi dei compaesani che rende felici, della compagnia di un cane scodinzolante e di Catello, orfano apparso un giorno e scomparso, anni dopo, con lo stesso mistero con cui aveva mosso i primi passi a Mangiatrecase. Il Creasogni - storia di una professione, di un amore dimenticato, di un figlio smarrito da riportare a casa - vive di affetti familiari, circo e un po' di fantasia. Scritto con garbo, innocuo e blando, ma pensato con troppa semplicità. L'input iniziale finisce per perdersi, nella convenzionale retorica di una ricerca, tra i cenni a un Geppetto in cerca del suo Pinocchio, e l'originalità respirata nella sinossi si nega agli sguardi, lasciandoci una storia di quelle delicate e destinate a ricordi non particolarmente duratori. Con il massimo rispetto per chi sa che scrivere di bambini - e per bambini - è il lavoro più difficile del mondo, ma la promessa di un Pushing Daisies italiano o, ancora, di una sintesi del folgorante Il ladro di nebbia che viene a mancare. Della stessa materia di cui sono fatti i nostri sogni, è una sensazione fugace - la lettura, infatti, non si protrae per più di un giorno - che fa bene. Al risveglio però non si ricorderdà molto, anche se a testimoniare che c'è stato resta un vaghissimo sorriso. Il che non guasta, di questi tempi.

Titolo: Quando meno te lo aspetti
Autrice: Chiara Moscardelli
Editore: Giunti
Numero di pagine: 268
Prezzo: € 14,00
Il mio voto: ★★
La recensione: Penelope Stregatti, paffuta e impacciata barese emigrata a Milano, all'ombra della Madonnina – tra sushi bar e amici radical chic – ha un lavoro da sottoposta in una multinazionale di assorbenti e a casa, con il suo pigiama scolorito, vive una seconda identità, protetta da un nome d'arte improbabile e autrice in incognito di articoli sul sesso – materia a lei quasi sconosciuta – su un giornalino per signore pruriginose. Vergognarsi più dei pannolini o della stesura dei quiz sul punto G? Ritirarsi a casa della nonna cartomante o continuare a inseguire quei desideri espressi a sedici anni? Sulla sua strada, un uomo bello e misterioso – prendete Preziosi in Elisa di Rivombrosa e James Spader in Secretary - che chissà perché non è chi dice di essere, tagli al personale e una missione a Parigi. La commedia della Moscardelli – incrocio tra il giallo e gli chick lit – non è particolarmente simpatica, né particolarmente ben scritta. Ha una galleria di personaggi colorati, ma che non trovano vita propria per via di un linguaggio che è tutto uno stereotico – gli amici gay esclamano continuamente “Adoro!”; le dirimpettaie genovesi hanno il loro colorito “Belìn”; le protagoniste meridionali, ogni due per tre, ti decantano le gioie di riso, fagioli e cozze –, tripudi di frasi fatte a partire dal titolo, una struttura asindetica che non contempla l'uso di punto e virgola – e posso capirlo: chiedere agli italiani di usarlo è troppo – e neanche dei due punti. Esempio dimostrativo:“Intanto le immagini della città più romantica del mondo mi scorrevano davanti, champagne, fois gras, Tour Eiffel, mi abbandonai sulla sedia di fronte a Ristori in estasi”. Questione di editing frettoloso? Chiara Moscardelli, già pubblicata con la blasonata Einaudi, non convince, con una trama senza guizzi – sebbene il miscuglio tra Homeland e Bridget Jones potesse essere carino – e la concorrenza di connazionali che, più volte, hanno dimostrato come un genere piccolo sapesse dare grandi soddisfazioni. Leggetevi la serie della Gazzola o l'esordiente Alice Basso, piuttosto. Dopo la scoperta di Ammaniti, ricordarsi che c'è gente serena e un mondo di sole con la ricerca di una lettura tutta rose e fiori. Perché non un libro come questo Quando meno te lo aspetti, dunque, richiesto giacché l'autrice sarebbe venuta a presentarlo dalle mie parti – ma alla presentazione non sono andato, alla fine, e il postino è arrivato tardi: segni su segni – e lasciato lì, come scorta, per qualcosa di semplice dopo un giro presso il lato oscuro? Nonostante aspettative basse, Quando meno te lo aspetti – che è proprio come ti aspetti - riesce a essere un modesto riempitivo a malapena.

lunedì 17 agosto 2015

Recensione a basso costo [libro e film]: Come Dio comanda, di Niccolò Ammaniti

Io e te siamo attaccati a un filo. E tutti lo vogliono spezzare. Ma nessuno ci riuscirà. Io sarò sempre con te e tu sarai sempre con me. E io aiuterò te e tu aiuterai me. Con il cervelletto che ti ritrovi non capisci che non bisogna mai mostrare la gola? Pensa alle tartarughe, alle loro corazze. Pensa che devi essere così forte che nessuno ti può fare male.

Titolo: Come Dio comanda
Autore: Niccolò Ammaniti
Editore: Piccola Biblioteca Oscar Mondadori
Numero di pagine: 478
Prezzo: € 10,00
Sinossi: Premio Strega 2007. Rino e Cristiano Zena sono padre e figlio. Rino ha trentasei anni ma ne dimostra cinquanta, è ostinato, violento e xenofobo, ma adora suo figlio. Cristiano ha tredici anni, è timido, alto e sottile, e sa che quel padre ubriacone e "buono a nulla" è la sola persona su cui può contare. Vivono in una periferia del nord-est, tra desolazione e centri commerciali. Soli contro il mondo, hanno per amici due tipi strani, Quattro Formaggi e Danilo. È con questi che Rino organizza la rapina che dovrà riscattare le loro vite. La notte del colpo, però, si scatena un furioso temporale, e una ragazzina bionda apparsa dalle tenebre e dal fango fa deviare i destini di tutti.

                          La recensione
La neve che si farà fango sotto la suola delle scarpe, chilometri e chilometri di strade deserte e, in lontananza, oltre il cancello di una fabbrica chiusa per la notte, un cane che non smette un po' di abbaiare. Presto sarà giorno e forse, domani, che poi è già oggi, niente scuola, se il gelo dura. Ma Cristiano si alza dal letto e, mettendo in pratica l'ultima lezione di suo padre, taglia per la statale vuota – col pigiama a scacchi ormai fradicio – e spara. Bang: onomatopea di una detonazione secca nel cuore del buio. Il proiettile fa centro e il cane smette di uggiolare, attaccato alla sua catena: padre e figlio si sono esercitati a far fuoco alle lattine di birra, qualche tempo prima, ma la mano non trema e, anche con un bersaglio vivente, il colpo di Cristiano è perfetto. Ha avuto un grande maestro. Insegnamenti paterni e eredità familiari. Ci si applica con solerzia, in casa Zena e dintorni, al culto della violenza. Così, tra rabbia e stupore, ha inizio Come Dio comanda: storia di affetto simbiotico e prevaricazione, su uomini senza donne e rari momenti che ti segnano, nonché secondo romanzo di Ammaniti che leggo – dopo Io e te, racconto di cento pagine scarse che aveva lasciato, a sorpresa, più strascichi emotivi del previsto -; si vocifera, inoltre, sia uno dei migliori della sua carriera di autore amato e a volte incompreso, puntualmente corteggiato da chi fa il cinema coraggioso. Acquistato una vita fa a metà prezzo, quando i giorni precedenti al Ferragosto hanno portato il cattivo tempo e la gente qualunque si crucciava per la minaccia atmosferica incombente e i picnic nei prati in pericolo mortale (avete visto, poi, quanto brillava alto il sole, il quindici?), mi sono seduto al coperto – con un orizzonte di nubi temporalesche e catasfrofi dalla mia parte – e ho iniziato il romanzo che, sulla copertina originale, aveva cieli a lutto, fulmini e saette. La mia edizione, l'ennesima ristampa, era di un angoscioso giallo evidenziatore e aveva denti digrignati, gente con la rabbia, inquietanti disegni tribali. Tutto comunque a tema; soprattutto i tuoni grevi che, ora lontano, ora vicino, facevano da accompagnamento musicale live. E la pioggia non è voluta cadere, per me che sono amico stretto dell'inverno, ma illusioni di acquazzoni furibondi e falsi allarmi sono risultati abbastanza. Nella bella stagione, mi sono trovato una brutta parentesi – o forse quella perfetta? - per dedicarmi a una lettura forte e crudele che ha richiesto la presenza di un cielo che spirasse contro e l'aiuto di litri di sangue freddo. 
E io, a dirla tutta, lo sapevo sotto sotto che questo Ammaniti – scoperto una volta e mai approfondito, conosciuto più come sceneggiatore che per altro – fosse nelle mie corde scordate, coi suoi suoni stridenti, lo stile scarno, le immagini forti; inutile spiegarsi, però, i misteriosi perché dei miei continui rimandi. Questione di momenti propizi e provvidenza divina. Una periferia desolante spazzata dalla burrasca, il pensiero di un tesoro in un Bancomat al di là dell'arcobaleno, Cappuccetto Rosso in Vespa che s'incamminano nel folto del bosco, notte di balordi – e lupi famelici. Quando Noè costruisce la sua arca, durante il Diluvio Universale, lasciando fuori cinque disgraziati: un padre naziskin e quel figlio verso cui nutre tutto l'amore del mondo; lo scemo del villaggio, che tiene su il presepe anche ad agosto e ha il nome del gusto di pizza che più preferisce; un divorziato che, con il colpo del secolo nella tempesta del secolo, spera di riconquistare la fiducia della sua famiglia; un assistente sociale traditore, beccato a letto – dalla folgore – con la moglie del migliore amico. L'acqua cheta roderà i ponti e ognuno di loro, dopo un crimine che li renderà protagonisti di una storia crudele, dovrà fare i conti con il proprio passato; quanto costa caro il perdono? E la felicità, che appare impossibile? Nel trasformarsi in film – frutto dell'ennesima collaborazione tra Ammaniti e Salvatores, coppia collaudata quasi quanto quella dei coniugi felici Castellitto e Mazzantini -, Come Dio comanda perde parte della sua folgorante dimensione corale – tra tagli, ellissi e personaggi, come quel Danilo la cui vita è una strada senza uscita, che mancano proprio – ma finisce per essere uno dei più originali e interessanti esempi di cinema italiano degli ultimi anni. 
Le pagine più surreali e oscure, infatti, coi dialoghi esigui, il buio impenetrabile e innocue canzoni d'amore che diventano un viscido leitmotiv, grazie a una fotografia pesta e a un ottimo montaggio sonoro, vanno a costruire una parte centrale dettagliata e calzante, saltata direttamente fuori dai passaggi più crudi del romanzo per azzannarti al collo. Mostrando un Salvatores mai uguale a sé stesso, a proprio agio coi toni horror così come con i tentativi primigeni di cinecomic all'italiana, e direttore di un cast tra cui figurano un paio di grandi nomi del nostro sottovalutato cinema. Ridimensionare la portata del racconto, rinunciare a qualche comprimario per questione di spazio, non appare una scelta poi troppo imprudente, se hai a disposizione due che – per selezione naturale – sono destinati a essere sempre protagonisti. Filippo Timi, massiccio e con la voce altisonante, capace di percosse e tenerezza, ha un personaggio tutto contraddizioni – e forti emozioni - che sembra scritto pensando a Taxi Driver. Elio Germano, con il ruolo di Quattro Formaggi, dinoccolato e imprevedibile clochard che gli permette di essere più sopra le righe del normale, esagera con tic e balbuzie con la tipica naturalezza di cui ormai lo sappiamo capace. Con loro, un Fabio De Luigi dal ruolo fortemente ridimensionato – e forse per fortuna, perché il comico nostrano e il drammatico non sembrano in particolare intimità – e l'esordiente Alvaro Caleca, bambino che sa reggere, spesso tutto solo, la scena. Una storia di figli di un Dio minore – abbandonati, diseredati, miserabili – diventa, per esigenze di copione, un caso di cronaca nera e un'agrodolce vicenda domestica, in cui manca qualcosa – soprattutto qualcuno – ma non un lato tecnico all'avanguardia e interpretazioni credibili; non lo spirito indocile del fulmine. Ammaniti alla sceneggiatura, per forze di cose, rinuncia al dono dell'onniscienza: come il Padre eterno o gli angeli custodi, lui sa. Ti ha creato. Ti sta fisso alle costole. Sfiora le sue creature – anche quelle di passaggio, semplici comparse nel mucchio – e ne fa una scansione del profondo. Così, in cinquecento pagine pulp e scattanti, di quelle che se fossi in pubblico avresti bisogno di tornare a casa - sennò mi metto a piangere, dici; sennò vomito -, pioggia d'antico testamento, piaghe bibliche, tunnel senza luce e pozzi senza fondo. Mentre nel mondo, contorta foresta di simboli, ci si interroga sul senso di Dio – è Lui che ci ordina di tentare ancora, di essere migliori, di tornare a respire, di smettere di farlo? – e ci si prepara a cuore aperto agli squilli di tromba conclusivi, per essere giudicati innocenti o colpevoli un'ultima volta. 
Pronti alla giustizia cieca dei giudizi universali. 
Come Dio comanda, terroso noir sullo sfondo delle industrie pesanti del nord est, col cuore caldo e le mani fredde, con una mole che pesa e una scrittura che si beve, è l'esperienza più intensa e difficile di quest'estate. Potente, tanto da meritarsi un bolletino meteo avverso tutto per sé. 
Il mio voto: ★★★★½    Il film: 7+
Il mio consiglio musicale: R.E.M - Losing My Religion

mercoledì 12 agosto 2015

I ♥ Telefilm: True Detective II, UnReal, Wayward Pines, Descendants

True Detective 
Stagione II
Era il ritorno che tutti attendevano, dopo i fasti della scorsa stagione. Quando True Detective – serie antologica, produzione cult – si era imposta come rivelazione dell'anno. Lungometraggio di otto ore, diretto da un Cary Fukunaga che si fa desiderare e che, da allora, tutti portano sul palmo della mano, in alto, aveva protagonisti dai grandi nomi e dai grandi ruoli, sequenze da manuale, ritmi accattivanti uniti a dialoghi che suonavano come un lungo, memorabile aforisma. Recuperato un po' in ritardo, dopo essere stato messo alla prova dalla flemma dilemmatica del pilot, lo avevo venerato, anche se poco tende a piacermi, di solito, ciò che piace a tutti. Ma, da cultore di un cinema di pancia e di testa, impossibile trattenere l'entusiasmo davanti a quel racconto pulp di amicizia tradita, morte e redenzione, con i suoi certosini piani sequenza, i suoi exploit da applauso, la malinconia della senilità. Come non vedere la grandezza in True Detective? Come attendere il secondo capitolo – anche se era un capitolo che raccontava altri crimini, altre vite – e osare ridimensionare le alte aspettative? I paragoni non dovrebbero nascere, ma spontaneamente nascono. Pur sapendo - e questo nuovo ciclo di episodi non smentisce purtroppo il dolente presagio - che andranno a sfavore di una serie che ha punte di diamante non da meno, ma scarso appeal. Cambiano cast e scenari. Siamo in California e l'omicidio di un ricco manager – coinvolto in traffici illeciti, alleanze, scandali sessuali – chiama in azione tre professionisti in cerca di una seconda chance. Velcoro – padre in lotta per l'affidamento di un bambino, possibile frutto di uno stupro; Woodrugh – eroe di guerra che vive con vergogna la propria natura, accusato di molestie da un'aspirante starlette; Bezzerides – donna che fa un lavoro da uomini, le cui inspiegabili avventure di una notte e via potrebbero trovare risposta in un trauma infantile rimosso. Dalla parte della criminalità organizzata, un piccolo boss locale e la sua consorte sempre nell'ombra; maledetti dalla sterilità, in cerca di un erede. Se il loro privato – tra voglia di paternità e innocenza persa – risulta interessante, non può dirsi lo stesso di un mistero complesso e difficile da tenere a bada. Francamente, non sono certo neanche di averlo capito. Il nuovo True Detective ha i consueti otto episodi, ma ha bisogno di una guida – sul web fioccano, infatti, riassunti, schemi, post per afferrare il punto della situazione. C'è dunque qualcosa che non quadra. Come questi intrecci dispersivi, l'indagine inutilmente cavillosa, le mosse di un poliziesco qualsiasi. Il buon Pizzolatto – su cui pesavano troppe aspettative – abbandona le paludi della Louisiana e, trasferendosi sulla costa, fa il verso a un Ellory, tra traffici umani, corruzione, piccole Arcore d'oltreoceano: i confronti lasciano il tempo che trovano e si perdono autorialità, guizzi, momenti impressi nella memoria. E pure i grandi occhi – chiamiamoli così, okay? - di Alexandra Daddario. Farrell è in gamba, bravo come sempre lo trovo  ma senza superlativo assoluto, con il ruolo, e i baffi folti, di Miami Vice. Kitsch è bello – ed era anche il momento che le ragazze, assidue spettatrici, si rifacessero un po' gli occhi – ma, come vuole il detto, non balla. La McAdams – sì grintosa e convincente, agguerrita, con la smorfia incazzosa e la fronte increspata – la preferiamo quando è sorridente, romantica, coi mariti che viaggiano nel tempo e la memoria che la abbandona. Sorpresa il malavitoso Vaughn – affiancato da Kelly Reilly, tanto affascinante quanto superflua e sperduta – con l'intenso monologo del secondo episodio, tanta umanità e validi tete-à-tete, seduto a un tavolo, con la star principale. Tenetevi pronti per un finale ad effetto, sospeso tra amarezza e banalità, che colpisce emotivamente protagonisti e spettatori – me compreso -, lasciando spazio alla speranza delle donne e a una storia d'amore in potenza, che per un po' rende la bella Rachel l'eroina romantica a cui tutti vogliamo bene. Dopo un inizio in sordina, ci si risolleva dal quinto episodio in poi, anche se non è comunque abbastanza. Resta la sigla, bellissima. Se avesse avuto un altro titolo, okay: altra storia. Grazie alle buone interpretazioni e ai pochi pregi, non avrebbe mosso critiche e rumori. Ma se avesse avuto un altro titolo davvero, con puntate similmente dispersive e pretestuose, chi lo avrebbe guardato per intero? Il nome True Detective significa attenzioni sicure e, di sicuro, non sentirsi all'altezza. Il resto, questa volta, almeno, è delusione. "Tutto chiacchiere e distintivo”. (6)

UnReal
Stagione I
Prendete quei programmi che tanta gente - anche quella insospettabile, senza macchie - guarda. Un Uomini e donne, un Temptation's Island. Avvenenti e giovani pretendenti, uno scapolo d'oro, un matrimonio in grande nell'episodio conclusivo. Su Everlasting l'amore è una farsa e Cupido è uno spietato direttore esecutivo che controlla ogni cosa. Unreal, serie televisiva estiva apparsa all'improvviso e destinata a essere il probabile guilty pleasure dell'anno, è il backstage di una fiaba scritta da altri. Si spengono le telecamere e, lontano dagli occhi degli spettatori, nascono rivalità, gelosie, tradimenti. Ci viene mostrata, infatti, l'edizione più imprevedibile e scoppiettante di un reality show dalla lunga fortuna: sul metaforico trono, un vizioso inglesino con un'immagine a cui dare nuova credibilità. A contenderselo, una quarantenne reduce da un divorzio burrascoso; una spigliata campagnola; una caliente modella di intimo; una raffinata avvocatessa con una perfetta capigliatura da Lady Diana. Da aggiungere alla lista, infine, anche la protagonista, Rachel: professionista senza scrupoli, sopravvissuta a una brutta crisi di nervi, che per lavoro spinge le pretendenti tra le braccia del playboy della situazione e, imprevedibilmente, ci finisce lei in primis. Cosa c'è stato prima della diretta ufficiale? Morti non troppo accidentali, ricatti, vendette. Unreal, commedia nera di notevole fattura – tanto da non sembrare un prodotto Lifetime; tanto da essere un piacere sì, ma poco colpevole – ha una diverentissima componente trash – un programma come un'agenzia matrimoniale – e un attento studio di reazioni, meccanismi di causa effetto, colpi di scena che gli valgono l'etichetta di thriller psicologico. Cinico, sfrontato e asprigno, già confermato per la seconda stagione, è esteticamente impeccabile, ha una scrittura intelligente che nessuno si aspetterebbe e un cast assortito e sexy, composto perlopiù da volti del piccolo schermo, in cui spiccano Freddie Stroma – biondo dall'accento regale visto anche nella saga di Harry Potter – e una Shiri Appleby bravissima, tornata sotto le luci della ribalda dopo il successo di Roswell, nei tardi anni novanta. Per chi quando chiedeva “ma come fai a guardare un programma come quello della De Filippi?” si sentiva dire “è per un'indagine antropologica, e per le risate involontarie”. Con Unreal, grossomodo, valgono le stesse regole e la stessa svergognata scusa. (7+)

Wayward Pines
Stagione I (Cancellato)
Un incidente automobilistico e Ethan, agente sulle tracce di colleghi scomparsi, si sveglia in quel di Wayward Pines. Microcosmo dal perimetro che è severamente vietato oltrepassare, pena la morte, la città – paragonata senza cognizione di causa alla leggendaria Twin Peaks – ha leggi proprie e segreti custoditi con il silenzio. Cosa proteggono gli abitanti? E da chi cercano protezione? Tratta dall'omonima trilogia di Blake Crouch e annunciata come serie rivelazione, con la protezione di un tristissimo Shyamalan che si dà da anni a filmacci e cattivi investimenti, l'ultima produzione Fox è partita con un pilot accattivante e, puntata dopo puntata, è andata a morire in un pozzo di infamia. Ti muore sotto gli occhi, semplicemente, mentre in principio non sa dove andare, poi lo scopre e, infine, in un quinto appuntamento che è il peggio del peggio, cerca di spiegare l'inspiegabile con una tirata di quaranta minuti che mostra la pochezza della storia di Crouch, i limiti di una serie partita al meglio, la caduta mortale del regista del Sesto senso. Brutto come brutte sono tante serie passate, brutto come saranno tante serie future. Ma qui, in maniera imperdonabile. Un padrino d'eccezione, i paragoni prematuri con Lynch e, nel cast, nemmeno un attore che suonasse anonimo. Protagonisti, infatti, tutti presi dal cinema – da Matt Dillon, alla sempre splendida Carla Gugino; da Shannyn Sossamon agli eccelsi caratteristi Toby Jones e Melissa Leo; passando, inoltre, per i passeggeri Juliette Lewis e Terence Howard. Lo stesso spunto del sottovalutato The Village, le modalità del sonnolento Under the Dome, un abbozzo di distopia sul modello del pessimo Maze Runner, un sacrificio finale che ha del ridicolo – altro che commovente –, uguale a quello di Io sono leggenda. Tra un déjà vu ed un altro, copiando un po' qui e un po' lì, Wayward Pines è come un pessimo alunno che, nel tema rubato al compagno di banco scemo, dimentica di aggiungerci del suo. Ricorda altro; non si ricorda. (4)

Descendants
Film Tv
L'ultima riga delle favole, e poi? Cosa è stato delle coppie più amate e, soprattutto, degli antagonisti che a lungo hanno tramato contro il lieto fine? Gli eroi delle fiabe – e i loro nemici storici – sono diventati genitori. I buoni vivono tutti insieme, in un mondo in cui, a scuola, si insegnano gentilezza e bontà. I cattivi, invece, esiliati su un'isola deserta, se ne stanno senza incantesimi e wi-fi. Ma, nel frattempo, pensano al colpo di stato. E così, per un progetto mirato all'integrazione di una minoranza, la prole delle canaglie più temute va a studiare accanto ai “figli di”. Un rinnovo generazionale che era già nell'aria; il ritorno di favole mai alla moda come adesso; i villain più amati che appaiono appesantiti, stanchi, invecchiati, mentre i loro eredi sognano la moda, un dalmata da crescere, essere parte di una squadra. Quando è giusto smettere di seguire le orme dei nostri genitori e scegliere di essere né buoni, né cattivi, ma semplicemente noi stessi? Descendants – film prodotto da Disney Channel, unico canale che rimpiansi, quando i miei decisero di dare un taglio a Sky – è una commedia musicale in salsa fantasy che ha caratteristiche che avrei amato, alle medie, e premesse che appaiono disastrose adesso che non si ha l'età. Regia televisiva, costumi di seconda mano, effetti speciali raffazzonati, stucchevolezza. Un pubblico di soli bambini e genitori. Ma - vuoi la nostalgia canaglia, un lato visivo che è mediocre quanto in Once Upon a Time, e dunque abbastanza accettabile, il Kenny Ortega, alla regia, di due miei cult d'infanzia: Hocus Pocus e High School Musical – questa storia di seconde opportunità, accoglienze calorose e unione, condita da canzoni orecchiabili e sprazzi musical architettati da bravi addetti ai lavori, funziona e diverte, con tutta la leggerezza e la magia di cui la televisione – modestissima – è capace. Nel cast di giovani, occhio alla bella Dove Cameron – con la canzone If Only che non fa invidia a Let it go, una serenata alla 10 cose che odio di te da parte di un principe pazzo d'amore, la versione remixata di Stia con noi – e alla meno giovane Kristen Chenoweth, qui una Malefica autoironica e vendicativa, meglio della Jolie. Si fa riferimento a un sequel e, sperando non arrivi tra tanto tempo, vedrò di farmi trovare pronto; con la solita età un po' sbagliata e la testa da bambino cresciuto quanto basta. (6,5)

martedì 11 agosto 2015

Recensione a basso costo: Il buio oltre la siepe, di Harper Lee

Volevo che tu vedessi che cosa è il vero coraggio, tu che credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente, e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda.

Titolo: Il buio oltre la siepe
Autrice: Harper Lee
Editore: Feltrinelli
Numero di pagine: 310
Prezzo: € 9,00
Sinossi: In una cittadina del "profondo" Sud degli Stati Uniti l'onesto avvocato Atticus Finch è incaricato della difesa d'ufficio di un "negro" accusato di violenza carnale; riuscirà a dimostrarne l'innocenza, ma l'uomo sarà ugualmente condannato a morte. La vicenda, che è solo l'episodio centrale del romanzo, è raccontata dalla piccola Scout, la figlia di Atticus, un Huckleberry in gonnella, che scandalizza le signore con un linguaggio non proprio ortodosso, testimone e protagonista di fatti che nella loro atrocità e violenza non riescono mai a essere più grandi di lei. Nel suo raccontare lieve e veloce, ironico e pietoso, rivive il mondo dell'infanzia che è un po' di tutti noi, con i suoi miti, le sue emozioni, le sue scoperte.

                               La recensione
Fino al giorno in cui minacciarono di non lasciarmi più leggere, non seppi di amare la lettura: si ama, forse, il proprio respiro?” 
Ho letto il mio primo romanzo da cima a fondo – e dico leggere sul serio, senza barare o saltare direttamente agli ultimi capitoli: cose che si fanno, quando hai meno di dieci anni – nell'estate della terza elementare. Fate un po' i conti. Ricordo un lungo trasferimento, io, e settimane di mare blu senza compagni. 
Con le porte della nuova scuola che avrei varcato solo di lì a qualche mese, i miei coetanei presi da compiti per le vacanze che – per quell'anno, col cambio di città – non erano affare mio e la strana fauna che popolava le spiagge libere – vecchietti artritici che rubavano la sabbia in una busta, per fare le sabbiature a casa; tardone in topless; una cantante di matrimoni sprecata e una cuoca di mezza età che lavorava in nero, sfruttata – avevo cercato per la prima volta la compagnia di un libro. Un classico americano, adatto a grandi e piccoli, recuperato su una bancarella – in vacanza ad Agrigento, in un momento in cui la solitudine aveva avuto lo stesso aspetto – e lasciato poi a metà. Quella volta mi ci misi d'impegno e lo finii. Di leggere non avrei più smesso – e leggere divenne così un verbo sempre coniugato al presente, a casa mia – e, molte estati dopo, diciamo questa estate qui, mi sarebbero tornate in mente con immancabile nostalgia Le avventure di Tom Sawyer sfogliando Il buio oltre la siepe
Sarà che da allora, più o meno, non esploro il profondo sud della letteratura americana. Sarà che quest'estate caldissima è caldissima proprio come l'estate della mia prima lettura - e chiamo a testimonianza, nel dirlo, i servizi di Studio Aperto e la memoria di ferro di papà – e che i giochi, le fantasie, le monellerie di Tom e Huck Finn erano le stesse sperimentate, qualcosa come cinquant'anni dopo, dai fratelli Finch, in un altro classico americano – solo successivo –, in un'altra avventura – solo dalla morale maggiormente manifesta -, in un volume un po' giallo ma ben tenuto, acquistato presso un altro mercatino. Harper Lee mi ha ricordato Mark Twain. Con il sud caloroso e caratteristico, i bambini e i loro passatempi, l'infanzia e i suoi misteri. 
Alla luce del giorno, tutto appare migliore. Le tenebre si diradano e quel che faceva paura appare d'improvviso innocuo. Diverso. E io immaginavo diverso Il buio oltre la siepe, romanzo citatissimo in cui – ora in un libro (la magica saga di Beautiful Creatures, magari), ora in un altro – indirettamente continuavo ad imbattermi. Coincidenze? Cosa nota però il mio fastidio verso quei romanzi che, in mancanza di definizioni calzanti, definisco a tesi. Ma ci capiamo. I temi della persecuzioni, dei movimenti razziali, dei diritti civili. Scritti, sempre o quasi, per arrivare al punto, a tavolino, quando il calendario ci suggerisce che è tempo di tragiche ricorrenze e giornate per ricordare. Pensati per il cinema e dunque per l'Oscar: la carta del razzismo non lascia indifferenti, fateci caso. Quest'anno Selma, lo scorso 12 anni schiavo e, non allontanandoci troppo nel tempo, Django Unchained e The Help. Barare. Vincere facile. Lucrare sulle lacrime e sul sangue. Almeno per me che – a onor del vero -, sono il supremo avvocato delle cause perse e il re dei bastian contrari. Ma ci sono modi e modi, ovviamente, per raccontare un problema. Dalla fastidiosa piaggeria a quella delicatezza che non è mai abbastanza. 
Non che nutrissi irragionevoli dubbi, ma la storia della Lee – premio Pulitzer, lettura imprescindibile dal seguito annunciato, film pluripremiato con Gregory Peck – rappresenta il modo giusto. Il tema era attuale – e perché, adesso no? - e la semplicità premiava. Il bello del romanzo, infatti, era il non limitarsi a parlare del divario sociale tra bianchi e neri; di colori che – davanti a occhi miopi, ottusi, provinciali – non si amalgamavano. Il processo annunciato dalle quarte di copertina – che a mio avviso dicono tutto e niente, e forse un po' troppo – occupa un terzo appena di una storia lunga trecento pagine. Il buio oltre la siepe ha regali ritrovati nell'incavo di un albero, amici cari che ritornano soltanto per la vacanze, un caso che tiene i padri lontano da noi. Così, a fare da tata a quei due bambini che si vedono già grandi, la ribelle Scout e il coscienzioso Jem, una zia a cui nulla sfugge. E ha, ancora, l'indimenticabile Atticus Finch – papà, vedovo, avvocato a tempo pieno, che crede nella saggezza dei suoi due pargoli, nelle cure della preziosa Calpurnia, nel bene – e la scoperta, nell'età in cui imparavo ad amare ciò leggevo, dell'ingiustizia. Se il nostro titolo fa infatti riferimento al superamento del pregiudizio – alla siepe “che da tanta parte dell'ultimo orrizzonte il guardo esclude” -, quello originale, To Kill a Mockingbird, parla del fare fuoco su un passerotto, sullo sprovveduto Tom Robinson. Traditi, entrambi, da un canto acuto ma gentile che mette sull'attenti bracconieri rissosi. Sbirciare perciò cosa accade. Oltre la balaustra, dove si sta tenendo un estenuante processo. Oltre il confine di casa nostra, dove vive Boo Radley, fragile e misantropo. Quando il colore della pelle vince sulla verità, quando la fantasia dei piccoli trasforma l'ignoto in leggenda metropolitana. Un romanzo diverso dal previsto – meno scolastico e più lieve, universale e a tratti ironico, grazie ai colpi di testa di una narratrice spassosissima – che è imprevisto e familiare. Ma così conosciuto, così omaggiato, da sottrarre purtroppo un po' il piacere – e la sorpresa - alla lettura, per forza di cose.
D'altri tempi; scritto con spirito vitale e stile che non passa.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Common, John Legend – Glory

giovedì 6 agosto 2015

Recensione: Chaos - La fuga, di Patrick Ness

Il Rumore è un uomo senza filtri.
Senza filtri, un uomo è solo caos che cammina.

Titolo: Chaos – La fuga
Autore: Patrick Ness
Editore: Mondadori
Numero di pagine: 450
Prezzo: € 17,00
Sinossi: Esiste un posto in cui si parla senza dire nulla. Perché tutti sentono i pensieri degli altri, anche se non vogliono. Giorno e notte, lontano e vicino, il Rumore ti raggiunge sempre. Gioia, paura, rimpianto, speranza: non c'è scampo al caos incessante che ronza nell'aria e affligge gli uomini di Prentisstown come un morbo, dopo aver sterminato le donne. Eppure anche nel Rumore è possibile mentire. Todd è l'ultimo nato al villaggio, parla una lingua tutta sua e presto compirà tredici anni, l'età in cui nella comunità si diventa adulti. Un evento tanto atteso e dalle conseguenze inimmaginabili, protette da un segreto che tutti seppelliscono sotto strati di pensieri. Ma Todd sta per scoprire che esiste un buco nel Rumore, un nucleo di silenzio che nessun pensiero può sporcare, e che non è vero che tutte le donne sono scomparse. 
                                     La recensione
Patrick Ness è bravissimo. E non ci voleva un genio per capirlo, anche se qualcosa – un paio di anni fa – non è andata per il verso giusto e la Chaos Walking Trilogy, altrove successo di critica e pubblico, da noi non è decollata. Il primo volume della saga di un autore che poi avrebbe destato le meritate attenzioni – facendosi conoscere anche dal sottoscritto – con la toccante fiaba nera Sette minuti dopo la mezzanotte era uscito con la Rizzoli, aveva come significativo titolo Il buco nel rumore e era destinato a essere il solitario mattone di una delle troppe case mai ultimate. I seguiti, non messi in conto. A salvare la serie dal pericolo dell'incompiuto, un'altra casa editrice che, con un'altra veste grafica e un altro titolo, ci fa conoscere un altro Ness ancora – il primo, in realtà – rispetto a quello degli incubi della buona notte che presto diventeranno un film di Bayona. E così, anni dopo, Chaos – La fuga arriva per restare. Mi sono imbattuto in quest'autore soltanto lo scorso autunno e, positivamente impressionato, ho consultato i soliti siti per sapere cos'altro avesse scritto. Tanto, anche se sfortuna vuole che da noi avessero tradotto un altro suo titolo e basta: poco noto, introvabile e di un genere non tra i miei preferiti. Ho avuto infine Chaos e sapendolo lungo ma bello, facile ma meritevole, poco nelle mie corde ma capace di farmi cambiare idea, l'ho lasciato per questa calda estate in cui leggere non va in ferie. Mi aspettavo qualcosa di buono, indubbiamente – tanti, infatti, i pareri positivi di amici fidati e i consigli spassionati -, ma cosa, nel dettaglio? Non lo sapevo; poi l'ho iniziato. All'inizio confuso, stranito, ma affascinato e coinvolto. Ciò che rendeva all'avanguardia l'esordio di Ness era quell'esatto mix di sensazioni in contrasto. Lo stile bizzarro, un mondo un po' fantascientifico e un po' distopico parzialmente originale, l'abbondanza di font diversi – e grassetti, e maiuscole – nella stessa pagina. In un futuro imprecisato, su un pianeta colonizzato da poco e liberato con la violenza dai mostruosi alieni che lo popolavano, vive Todd – dodici anni; quasi tredici – in una città senza scuola e senza donne, in cui quando si diventa adulti – ossia molto presto, e il grande giorno, per il piccolo protagonista, si avvicina – si viene istruiti su segreti inconfessabili e sulle leggi che regolano il Rumore. 
A Prentisstown, nel Nuovo Mondo, tutti sentono i pensieri di tutti; tutto è caos. A lungo andare ci si abitua; Todd – orfano di mamma e padre, nato dopo guerre leggendarie – è venuto al mondo quando il germe della confusione già aveva inquinato le città e sterminato tutte le donne. Lui non conosce il silenzio, fino a quando non incontra, nel bosco, una coetanea che viene da mondi lontani: Viola. Prima di lei, non conosceva nemmeno le ragazze. Che allora altrove esistono, e sono immuni al chiasso dei pensieri maschili, e risultano imperscrutabili. Dunque, pericolosissime. Ha inizio, così, una fuga a perdifiato verso una città che ha quasi il nome del paradiso – Haven – e in cui si racconta ci sia un antitodo per l'odio che muove gli adulti. Braccati da un esercito in continua espansione, il ribelle Todd – un cane tontolone accanto (ricordate Dug, l'amico a quattro zampe in Up?), un diario pieno di verità indecifrabili, un coltello dotato di vita propria – e l'estanea Viola – che non è mai un libro aperto, persa in un territorio ostile, eppure tenace – riusciranno a raggiungere chi vive al di là dell'ultima cascata? Cosa troveranno, mossi dall'ignoranza di chi, fino in fondo, sogna e spera? 
Sopra la media, ma arrivata un po' tardi per oscuri incidenti di percorso, questa nuova trilogia non risente troppo dei paragoni con romanzi simili – sebbene raggiunga ormai lettori smaliziati, che hanno già letto The Giver, Across the universe e guardato qualche puntata random di Wayward Pines – e nonostante un genere i cui segreti sono stati ampiamente sdoganati, per una moda recentissima, Chaos – caccia al bambino in cui non ci si ferma mai – è meritevole e sorprendente, anche con la sua esagerata voglia di fare, dire, stupire. Brilla sin dall'inizio per l'originalità della scrittura – raccontato in prima persona da un ragazzino analfabeta, che fa gran confusione con le doppie e i verbi, presenta infatti errori ortografici grandi e piccoli a cui subito ci si abitua – e per l'attualità di temi da approfondire – violenza sulle donne, soldati bambino, famiglie composte da due padri -, sullo sfondo di un universo caotico che metteremo meglio a fuoco nel romanzo successivo. Non ci vuole molto affinché conquisti, con la sua forza trascinante, anche se, verso la conclusione, il continuo tergiversare e qualche momento furbo – perdite dolorose e colpi di scena che si addicono più ai romanzi conclusivi, non a una saga che adesso si appresta a cominciare – mi hanno fatto vagamente rimpiangere l'immediatezza dei primi capitoli. Nel troppo generale che Chaos si rivela, non vorrei che questo Ness, mai uguale a sé stesso, coraggioso e brillante, si fosse giocato le carte migliori. E che, andando avanti, esagerasse per meravigliarci tutti con trucchetti forzati. Avrà misura? Propendo per il sì, al momento, ancora scosso da una lettura che incede e travolge con la potenza del primo Hunger Games. Però scritto meglio; parecchio. Come da un piccolo Stephen King violento e sognatore, che ci parla di mele avvelenate che crescono sull'Albero della Conoscenza – sicuro di volere conoscere chi sei davvero? - e dell'ultimo bambino senza sangue sulle mani. 
Proteggiamo l'innocenza.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Imagine Dragons – I Bet My Life

lunedì 3 agosto 2015

Recensione: L'amica geniale, di Elena Ferrante

C'era qualcosa di insostenibile nelle cose, nelle persone, nelle palazzine, nelle strade, che solo reinventando tutto come in un gioco diventava accettabile. L'essenziale, però, era saper giocare e io e lei, io e lei soltanto, sapevamo farlo.

Titolo: L'amica geniale
Autrice: Elena Ferrante
Editore: E/O
Numero di pagine: 330
Prezzo: € 18,00
Sinossi: Il romanzo comincia seguendo le due protagoniste bambine, e poi adolescenti, tra le quinte di un rione miserabile della periferia napoletana, tra una folla di personaggi minori accompagnati lungo il loro percorso con attenta assiduità. L'autrice scava nella natura complessa dell'amicizia tra due bambine, tra due ragazzine, tra due donne, seguendo la loro crescita individuale, il modo di influenzarsi reciprocamente, i buoni e i cattivi sentimenti che nutrono nei decenni un rapporto vero, robusto. Narra poi gli effetti dei cambiamenti che investono il rione, Napoli, l'Italia, in più di un cinquantennio, trasformando le amiche e il loro legame. E tutto ciò precipita nella pagina con l'andamento delle grandi narrazioni popolari, dense e insieme veloci, profonde e lievi, rovesciando di continuo situazioni, svelando fondi segreti dei personaggi, sommando evento a evento senza tregua, ma con la profondità e la potenza di voce a cui l'autrice ci ha abituati. Si tratta di quel genere di libro che non finisce. O, per dire meglio, l'autrice porta compiutamente a termine in questo primo romanzo la narrazione dell'infanzia e dell'adolescenza di Lila e di Elena, ma ci lascia sulla soglia di nuovi grandi mutamenti che stanno per sconvolgere le loro vite e il loro intensissimo rapporto.
                                                    La recensione
Tu sei la mia amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine.
Quanto è difficile parlare del libro di cui tutti parlano. Tante parole già spese, tutto già scritto. Perciò cos'altro dire, quale trucco da prestigiatore inventarsi, per tagliare la strada a una fama dalle gambe lunghe che, con una falcata da watusso, arriva prima a fare tana libera tutti – e si rompono così i legami con la mediocrità delle letture che sono state, e finalmente si è liberi di curiosare in generi che pensavamo non ci calzassero a pennello; che ci stessero grandi – e a dire, tutto d'un fiato, questa Elena Ferrante leggetela, capito? La fama precedeva L'amica geniale come l'ombra di una custode; una damigella. Un po' come accade nelle grandi città, dunque non nella mia, in cui un attore famoso – ancora prima che tu possa vedere coi tuoi occhi se è più grasso, più brutto, più antipatico che in televisione - lo annunciano il crepitio della folla che accerchia l'auto coi vetri fumè, i capannelli di curiosi intorno ai ristoranti stellati del centro storico, i piantonamenti indiscreti sotto le facciate degli alberghi di lusso. Vedevo tutta questa calca al seguito di una dama in bianco, quando è arrivata L'amica geniale, e non capivo cosa avesse di straordinario questa sposa schiva, di spalle, con il profilo del Vesuvio negli occhi. Volavano su di lei riso e confetti, che portano fortuna alla coppia, e le attenzioni dei presenti – ufficialmente invitati, con la partecipazione su carta da zucchero nella borsetta nuova delle mogli e il resto, o gli imbucati villani che inevitabilmente raccolgono talune occasioni in grande – che non sono scemate, come invece hanno fatto gli applausi dei parenti in chiesa, dopo un'estenuante omelia e il famoso ora puoi baciare la sposa. Quattro anni – nozze di legno, quasi –, attenzioni che non passano, bouquet messi a seccare. I frammenti di una tetralogia di successo. E, come il primo giorno, ci si stupisce per l'eleganza di lei, signora che a breve cambierà cognome, e per un viso, dietro al velo, che non c'è stato verso di immortalare. Chi è, sotto il tulle ricamato, Elena Ferrante? Chi è la brillante compagna d'infanzia, chi la sposa adolescente con il corteo di piccole principesse, tra la volubile Lenù e l'imprevedibile Lila? Impossibile, immagino, parlare del fenomeno L'amica geniale senza parlare del fenomeno Ferrante – a impugnare la penna che al cinema ha ispirato Martone e Faenza, ci si domanda, un uomo, una donna o forse una coppia affiatata? Arduo dire quanto sia capolavoro davvero e quanto pensi sia capolavoro per tutti gli altri l'hanno definito tale prima di te e, a furia di parlarne, e a furia di aspettative alle stelle, e a furia di voci che ti hanno fatto una testa grossa così, hai finito col pensarlo pure tu. 
Perciò inutile studiarselo, L'amica geniale; tempo perso scomporlo matematicamente, per capire cos'è che piace agli americani e alla critica ufficiale, e magari tentare l'innesto del fiore di pesco con l'ulivo, per dirla alla Verga; leggetelo senza noie e rumori, in quel perfetto intrigo di attese, congetture e suggestioni in prestito che è vietato sbrogliare. Secondo me, è bello come dicono, e il bello – insieme a una trama che racconta miracolosamente il niente e il tutto, con uno stile semplice e coinvolgente che, e spero capiate ciò che voglio dire, fa la differenza tra lo splendido cinema di un Tornatore e una risicata soap opera Rai: stessi temi, infatti, ma scorci e dettagli che rendono poi preziosa una gemma – è anche lasciare correre il gomitolo fittissimo – l'intrigo, ossia, di questioni irrisolte e impressioni preconcette che dicevo poco fa – e seguire, come i ciechi, toccandola, la ragnatela che arriva a creare, rotolando verso il mare, tra i vicoli e le piazze, le ringhiere dei balconi e le insegne delle botteghe a gestione familiare; il filo che in un mito antico ti liberava e che, ora, in un mezzo mito moderno, te lo costruisce, il labirinto infinito. Foto color seppia di un rione miserabile, nella Napoli degli ultimi anni cinquanta, quella che secondo un lungometraggio dell'epoca dovevi vedere e morire, racconta nel volume introduttivo l'infanzia e l'adolescenza di due amiche inseparabili: una figlia dello scarparo, l'altra dell'usciere comunale. La saga crescerà insieme a loro e a una capoluogo in continua espansione, mentre ci si supera per dispetto e poi, a un passo dalla meta, ci si trova ad aspettarsi. 
Per raggiungersi, gli anni e tutto quell'umano orgoglio. Non possono vivere insieme, non possono vivere separate. Che nessuno – la scuola dell'obbligo, il sogno di mettersi in proprio con una fabbrica di scarpe artigianali, lo scombinato amore combinato – separi ciò che il rione, simbolo della vita che va, spasimato luogo di eterni ritorni, ha unito tra i banchi. Ho apprezzato la suggerita musicalità del dialetto, l'impressione di un racconto genuino e mai folcloristico – per turisti stranieri in cerca di clichè a fantasia - come confessato ai parenti più stretti. Il romanzo della Ferrante mi è stato familiare sin dall'incipit. Nel senso che è così comune da risultare universale; nel senso, soprattutto, che è cosa di famiglia. Almeno della mia, che tifa Napoli, pensa non ci sia cucina migliore di quella partenopea e che, nelle case dei vecchi, trova santini con la Madonna di Montevergine e musicassette di Villa. E io, per il classico esodo del figlio del militare, cresciuto come dico spesso in una valigia, sotto le feste mi trovo seduto al tavolo dei miei nonni materni, e parlo l'essenziale, ma giuro che ascolto e penso. L'amica geniale mi ha ricordato, per il suono che fa, i racconti che saltano fuori quando mamma e nonna siedono vicine e, tra anniversari, mandolinate e suore dalle mani pesanti, le miti consolazioni e i drammi della povera gente, mi fanno promettere che un giorno parlerò di loro. Il mondo è un paesone. E schiatteranno così d'invidia la grassa bulla delle medie, la spietata Madre Superiora che – di età indefinibile – sta seppellendo tutto il paese e le comari dalle lingue di fuoco, quando le donne di quelle famiglia che a volte si ritrova, da cinquant'anni residente nella solita casetta a due piani, arroccata in cima al solito vico, avranno diritto minimo minimo a un capitolo a testa. Non andate loro a dire, per favore, che i lettori non sono per forza scrittori: si spezzerebbe più di qualche cuore. Magari cambio, ma quest'anno, almeno quest'anno, dopo avere studiato la lingua in Eduardo, Ruccello, De Simone, Santanelli, mi sento più vicino a questa bella Campania qui – liberata dal guappo di cartone, ripulita dall'immondizia, ritornata vittoriosa dalla crisi – che agli altri luoghi verso cui un po' pulsano le mie frastagliate radici. 
Elena Ferrante, all'altezza della sua notorietà, non delude, con un album di foto ricordo considerato, dai molti, già una specie di piccolo classico. Dai molti, più uno.
Canta Napoli.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Malika Ayane - La prima cosa bella (Nicola Di Bari)