[2011]
Si conoscono tante persone, si commettono troppi errori. Ogni tanto,
basta una scintilla scambiata per qualcos'altro, e ci si alza prima, bruscamente, in un letto in cui non c'è posto per noi.
Fare l'amore con una persona sconosciuta e svegliarsi con lei o lui
che ci chiede di andare via. L'intimità fino a un certo punto,
infatti, se sei come Michael – chef di successo; il bello che
seduce, abbandona e non chiede mai scusa e
vuoi restare?.
E se sei come Susan, scienziata di successo con un passato di
anoressia e una motivata sfiducia verso il generale
maschile, prendi le tue cose, indossi i tuoi abiti da corvo e fili
via. La storia di una notte, questione di chimica e lenzuola sporche,
può avere un seguito se fuori scoppia il caos? Una Glasgow di piombo
fa da sfondo a un inspiegabile contagio: la popolazione mondiale sta
perdendo i cinque sensi, in una lenta apocalisse. Si parte con
improvvisi attacchi di melanconia, fragorosi pianti in pubblico, e in
un inquietante conto alla rovescia, scandito da impulsi a farsi male
e da attimi di esagerata felicità, si lotterà per passare quel che
resta del giorno, quel che resta del mondo, con l'unica cosa che
rimane quando ciò che distrae e induce in tentazione si fa fumo. Il
cinema ci ha parlato spesso di epidemie che facevano paura, con il
sangue e la violenza dei morti tornati in vita; mai così però. Ecco
quello che, a distanza di anni, dopo una sentita seconda visione,
proprio mentre la fantascienza inizia ad aprire finalmente le braccia
all'umano, rende ingiusta la sorte dell'originalissimo Perfect
Sense,
mai arrivato da noi. Presentato al Sundance e diretto con mano abile
da David Mackenzie, talentuoso e sottovalutato, andrebbe spiegato,
interpretato, parafrasato come una poesia moderna. Purtroppo, essendo
sconosciuto ai più, ma per me perla immancabile, ci si limita a dire
guardatelo, guardatelo e basta, per non anticipare l'emozione, per
non diluire la pena, per non rovinarlo neanche un po'. Quanto tragico
sarebbe dimenticare, dimenticarsi? Gli amanti al tempo dell'apocalisse indossano le
mascherine bianche e si baciano senza potersi baciare davvero, come
in un quadro di Magritte. In un giro angoscioso e commovente di
ultime volte, uomini che non soccombono senza arrendersi al non
vivere: ripiegano su altro, ricercano gioie alternative, infatti, in un
universo che brucia. Perché la vita non è limitarsi ad adempiere a bisogni
elementari. Nutrisi non è solo ricerca di grasso e farina. Il sesso
non è tecnica senza cuore o pazienza. La fantascienza intimista di
Mackenzie non ha alieni e galassie da conquistare, ma celebra la sacralità
del cibo e la ritualità del vivere di coppia. Nelle orecchie i
sussurri di una colonna sonora perfetta, le papille gustative
solleticate dai piatti che vedi sfilare oltre lo schermo e non puoi
assaggiare, gli occhi straordinariamente pieni dei corpi in armonia
di due divi magnifici. Eva Green e Ewan McGregor che si stringeranno forte se farà buio. Il tutto, scritto con delicatezza e un po' di lirismo. Ci si stordisce di sensazioni, così, e se
verrà l'oblio ci si auspica sarà come in Perfect
Sense.
Che sa raccontare l'amore presente e futuro alla maniera di pochi
film, e nessuno ancora lo sa. (8)
[2012]
Chi non ricorda lo scandaloso Shame quando,
dopo la Coppa Volpi a Venezia, arrivò al cinema? Il dramma erotico
che metteva a nudo il corpo – e le voglie – di un disinibito e
poco noto Fassbender faceva clamore. Solita e rumorosa pubblicità,
grossomodo. Ma si apriva con un nudo frontale senza imbrogli, si
chiudeva con il protagonista che dispensava attenzione a due amanti e nel mezzo, spudorato, c'erano riferimenti a
porno e droghe. Le dipendenze di Brandon, rampante uomo d'affari e
scapolo per sempre, in una città che non dorme perché c'è sempre
troppo a cui stare dietro. Il Don Giovanni di Kierkegaard dei giorni
nostri: eternamente in cerca, schiavo e disperato. E' la festa che ormai cerca lui. Ed è
la donna che ormai lo sceglie, sorridengogli lasciva in
metropolitana. Nel suo appartamento sul grattacielo, spazio solo per
una sorella minore che non è la bene accetta. Perché è l'unica
persona capace di farlo sentire vulnerabile; perché è l'unica donna
che vuole proteggere dall'essere esattamente come lui. Shame,
da cui forse anch'io al tempo mi ero lasciato scandalizzare con un
niente, non ancora diciottenne, in realtà è un film distinto e
tutt'altro che pruriginoso, anche se – nelle conversazioni tra
appassionati, soprattutto quando c'è una fan del bel Michael dal
sorriso da squalo nei paraggi – farà nascere sempre una risatina
imbarazzata. Steve McQueen guida due
grandi protagonisti – accanto a un lui chiacchierato, una
volubile Carey Mulligan che con il nudo, dandoci ai paragoni da
bettola, fa una figura oggettivamente meno clamorosa del collega, ma
quando canta incanta, e esattamente in rima baciata - in un dramma
intimista e raramente intimo (e c'è differenza, se ci fate caso),
svestito dal superfluo ma già stanco di provocare. Significativo il
fatto che la scena più bella, accanto al magistrale piano sequenza
della corsa nel traffico cittadino, sia un'orgia in cui il culmine
del piacere somiglia a un singhiozzo, a un brutto presentimento.
Pensiero già proiettato, magari, al tristissimo ritorno da una notte
di eccessi. Muto, senza gemiti e volgarità, con l'impeccabile
colonna sonora firmata da Harry Escott che lì raggiunge il suo
apice. Mentre Brandon si avvicina un orgasmo, l'ultimo, che somiglia
all'abisso. Dopo un inizio distaccato e pieno di rigore, Shame – nel
tuffo angosciante verso la fine – si scopre di carne e ossa,
terreno e capace di emozionarsi, emozionandoci. Con gli uomini che
non devono chiedere mai che piangono solo quando piove, così che le
lacrime si confondano con l'acqua che cade, e una chiusa
brillantemente sospesa tra redenzione e ricaduta. Non c'è vergogna,
in Shame. Manierato e
fine, forse anche troppo apatico per avere grandi strascichi
emotivi, come la New York, New York intonata
dall'inaffidabile Sissy: languida, inquieta, jazz. Senza il crescendo
della Minelli. Cantata da chi, in certe città – e in certi letti - non si sentirà mai in pace. (7,5)
[2009]
Il film storico –
perfino il più bello – ha la sfortuna di appartere al genere che,
se fosse cosa concreta, avrebbe quintali di polvere addosso, a causa
della mia tipica dimenticanza – perché metto da parte, dico poi lo
guardo, e invece no; mi scordo – e del sentore di antico che ha sin
dal giorno della sua distribuzione. Nella lista dei “lo vedrei
volentieri, se solo non avessi il rapporto che purtroppo ho con la
storia”, questo Vincere di
Bellocchio. Che, per sentito dire, immaginavo un po' come Il
giovane favoloso: bello, televisivo e lento. Troppo per lasciarselo da parte per una visione
domestica in tranquillità.
Ho ripensato a Vincere,
un giorno di questi, dopo essermi imbattuto in una clip: insieme a
quella di una Mezzogiorno arrampicata nella sua gabbia, appesa alle
sbarre mentre fuori nevica, senz'altro la scena più significativa del lungometraggio. L'interrogatorio a Ida Dalser: questa donna che è
stata di vera carne, con gli occhi pesti e il moccio al naso, che –
per dimostrare la sua sanità mentale, mentre gli psichiatri facevano
domande su domande – giurava di essere la prima moglie del Duce. La
macchina da presa che, in una sequenza da brividi, non aveva occhi
che per una protagonista intensa, forse, come non mai, nella vicenda
tristissima e dimenticata dell'amante che un giovane Mussolini in
ascesa sedusse e abbandonò, destinandola – insieme al figlio –
alla camicia di forza; agli appelli rimasti inascoltati. Il film
storico che non deve somigliare a una lezione di storia dovrebbe
avere, dal fascismo secondo Bellocchio in poi, un po' l'indole di
Vincere.
Intrattenimento che coinvolge, nonostante le due ore totali, e che –
a dispetto dei miei pregiudizi – non è la mancata fiction
supposta. Merito di una Giovanna Mezzogiorno che resta l'attrice più
grande che abbiamo e che una candidatura, minimo, l'avrebbe
meritata e di un Filippo Timi - l'attore che solo quando recita non
balbetta - che gioca coi gesti ampi e il tono perentorio di un
fantasma bastardo che ammaliava le folle e metteva a tacere le donne.
Perché Vincere –
più di un biopic, meno di una pagina di diario destinata al vento –
è un melò che, se sapesse cantare, canterebbe. Le eroine che si
ammalano d'amore, le arie dell'opera lirica a fare da barocco
commento sonoro, la tragedia annunciata degli ultimi atti. Ci si
bacia come nel cinema in bianco e nero di una volta – con passione
fasulla, inclinati di lato come nel valzer – e come nel cinema
muto, però in quello futurista, dinamico e tutto lettere maiuscole e
punti esclamativi, la velocità è raddoppiata e irrompono titoli in
prima pagina con funesti annunci di guerra. Vincere
ha la plasticità e la compostezza del muto d'altri tempi, sì, ma a
volte urla – e gli italiani sono grandi urlatori, nei loro drammi –
e intontisce dal dolore. (7)
[2014]
Quando mi piacciono gli intrugli, le pozioni, gli abbinamenti strani? Quanto i generi ibridi? Quando la comicità sposa l'inquietudine, ad
esempio, e nasce una cosa bizzarra che si chiama commedia
nera.
Risate cattive e violenza, il quotidiano che – arrotondando per
eccesso i vizi e la prepotenza – si fa grottesco. Come nelle
trame di Storie
Pazzesche:
il film argentino a episodi che quest'anno era nell'ambita
cinquina dei film stranieri. Senz'altro di troppo, lì, tra
pellicole più impegnate come Ida e il latitante Mommy.
Nel suo essere fuori luogo, tuttavia, c'è forse il segreto di un inspiegato
successo, come in una fluidità naturale che rende leggerissimi i
suoi centoventi minuti. L'ho visto in tarda serata: gli occhi bene aperti, l'interesse costante,
un'ironia assurda che si sposa ogni tanto con il mio risaputo
cinismo. Eppure non amo i film con una simile struttura, né tutto
ciò che è amorale e senza utilità. Ma se qualche vicenda lascia a desiderare, altre sono dei
gioiellini di scrittura e resa. Szifròn,
in queste novelle senza cornice, alterna ora toni briosi, altri scabrosi,
passando dal noir classico al quotidiano orrore con destrezza e umorismo. Tra gli episodi maggiormente a fuoco, quello iniziale,
rapidissimo, con un nutrito gruppo di vecchi conoscenti che si incontrano su un aereo dirottato; il
tragicomico The
Hitcher con
la faida tra un automobilista in difficoltà e il suo aguzzino; la festa di nozze di una giovane sposa che scopre in diretta il tradimento del marito bastardo. Mi ha divertito, ho riso di gusto, mi ha intrettenuto. A modo suo mi è piaciuto, un po' a causa di recensioni negative
che avevano reso basse le mie aspettative e un po'
perché è un prodotto alternativo nel classico contesto patinato. Però. Ci
sono strategie in ballo, votazioni imperscrutabili, ma – anche dopo avere
recuperato queste due ore ben dirette di sorrisi e sconcerto – mi
domando come sia possibile che Damiàn Szifròn, bravo ma
sopravvaluto, non abbia fatto posto sul podio al magnifico Dolan. Quel che è fatto è fatto. Rosicherò ancora tra me e
me, ma parlandovi della commedia sudamericana uscita sotto l'ala
protettiva di Almodòvar, non avrò mai più parole negative; giuro. Perché Storie
Pazzesche,
nel suo non rispettare i gusti convenzionali dell'Academy, è una parziale
sorpresa – una maleducata canaglia sul Red Carpet – e ha lo
smalto che il buon Pedro ha perso e
chissà se ritroverà. (6,5)
nooo, cosiì poco per storie pazzesche :-), a me è piaciuto molto, era da anni che non vedevo la sala cinematografica così coinvolta durante la visione...
RispondiEliminaIo e mio fratello (ma dal divano) pure eravamo coinvolti, però saperlo in lizza per il premio più ambito mi è sembrata un'enorme, gigantesca esagerazione.
EliminaAvrei preferito il brasiliano The Way He Looks, Mommy, perfino il nostro Il Capitale Umano... ma non mi è dispiaciuto. Anche se come è arrivato fin lì, guarda, non lo so. :)
il film brasiliano mi manca, mommy mi è piaciuto ma l'ho trovoto un po pretenzioso visivamente ( ho scritto anche una micro opinione sul blog),il capitale umano buono ma secondo me è anni luce da una candidatura agli oscar ( girato bene e tutto, ma pensaci questi ricconi hanno una supervilla e non hanno una telecamera puntata sul vialetto o davanti casa? mi pare strano :-) )
EliminaSì, anche secondo me Virzì era sottotono - di lui ho adorato, anni fa, La prima cosa bella, un ritorno alla commedia all'italiana vecchio stile sentitissimo. Allora poi passo a leggerti. ;)
EliminaRecuperi di qualità in casa Mr.Ink! ;)
RispondiEliminaEbbene sì.
EliminaHo detto no al colesterolo e al trash.
(No, non è vero). :-D
Ricordo perfettamente Shame, il trailer, non nelle mie corde ma Fassy è il Fassy, lo seguo da sempre ❤
RispondiEliminaQui è al top, probabilmente.
EliminaShame grandissimo film!
RispondiEliminaPerfect Sense mi era piaciuto abbastanza, però l'ho già scordato, quindi evidentemente non mi aveva impressionato quanto te. :)
Idem Vincere. Non male, ma già finito nel dimenticatoio...
Storie pazzesche invece mi ha annoiato e irritato, a parte l'episodio finale che è l'unico che ho trovato decente. Nomination agli Oscar ancora oggi inspiegabile, oltre che pazzesca. XD
Pazzesco è l'aggettivo che gli calza a pennello. I titolisti nostrani vedevano e prevedevano!
EliminaOh, non sai quanta voglia ho di vedere Ewan e Eva assieme, sono rimasta un po' indietro con le ultime uscite ma appena smaltisco me li godrò senz'altro!
RispondiEliminaAncora mi mancano le storie pazzesche (che continuano a non ispirarmi) e Vincere (idem), mentre Shame, oh Shame, quanta bellezza e delicatezza in una storia così sporca: bellissimo!
Eh, Venezia ti ha tenuto occupatissima. Lì per lì non sai quanta invidia, però ti è toccato più di qualche film mattone, da quel che ho letto.
EliminaE le Storie Pazzesche, secondo me, non ti piaceranno, ma almeno la coppia di Perfect Sense è da recuperare (e consigliare). :)