sabato 16 agosto 2014

Recensione: Teorema Catherine, di John Green

Ciao a tutti, amici! Come state? Ferragosto è arrivato e finito e spero l'abbiate passato nel migliore dei modi. Qui da me il tempo è stato bellissimo, quindi ce lo siamo goduti, una volta tanto. Purtroppo, è arrivato il momento di mettersi sotto e studiare, va be' che lo dico sempre. Ho un esame molto impagnativo, i primi di settembre, e devo ripetere tutto, da zero. E, soprattutto, non dimenticare di prenotarne un altro per il venti del mese prossimo: che gioia, che gioia. Cercherò di farmi vivo, dal momento che ho una serie di post già scritti, ma mi vedrete e non mi vedrete. Oggi ci sono, sì, e vi lascio la recensione della mia ultima lettura e del mio ultimo John Green. Questa volta, devo ringraziare di cuore Sonia che, dal profondo del suo Cuore d'inchiostro, mi ha regalato il libro. Si arrabbierà un casino: avevo promesso di non ringraziarla più.
Ho sempre avuto la sensazione che le Catherine mi mollassero appena cominciavano a vedere com'ero fatto dentro. Ma io me lo chiedo sempre. Se gli altri potessero vedermi come mi vedo io... se potessero vivere nei miei ricordi... Ci sarebbe uno, dico uno, che mi vuole bene?

Titolo: Teorema Catherine
Autore: John Green
Edizione: Rizzoli
Numero di pagine: 335
Prezzo: € 14,00
Sinossi: Da quando ha l'età per essere attratto da una ragazza, Colin, ex bambino prodigio, forse genio matematico forse no, fissato con gli anagrammi, è uscito con diciannove Catherine. E tutte l'hanno piantato. Così decide di inventare un teorema che preveda l'esito di qualunque relazione amorosa. E gli eviti, se possibile, di farsi spezzare il cuore un'altra volta. Tutto questo nel corso di un'estate gloriosa, passata con l'amico Hassan, a scoprire posti nuovi, persone bizzarre di tutte le età, ragazze speciali che hanno il gran pregio di non chiamarsi Catherine.
                                             La recensione
Ecco come ricordo io le cose. Ricordo le storie. Unisco i punti e viene fuori una storia. E i punti che non stanno bene nella storia magari scivolano via. Come quando trovi una costellazione. Guardi il cielo e non vedi tutte le stelle. Le stelle sembrano tutte le stesso immenso cacchio di caos che sono. Ma tu vuoi vedere delle forme; vuoi vedere delle storie, così le isoli nel cielo. Vedi connessioni ovunque, quindi, alla fine della fiera, tu sei un narratore nato.
Ognuno ha in testa l'idea del partner ideale. Un appuntamento galante a San Valentino e, dall'altro capo del tavolo, una persona alta o bassa, estoversa o introversa, bionda o bruna, sportiva o sedentaria, possessiva o libertina. Una che ami i tulipani e detesti le rose rosse; una allargica ai fiori; una che, a casa, ha serre tropicali, con asfodeli e piante carnivore. Quando dite “no, non è il mio tipo”, quindi, cos'è che intendete voi? Il tipo di Colin Singleton, diciassette anni, sono  le Catherine. Lui non guarda all'aspetto fisico, solo al nome. Nove lettere e la certezza matematica di farsi spezzare il cuore per la ventesima volta. Se ti chiami Cathy, Katrina o Katherine, mi dispiace, ma non avrai successo. Prendi in considerazione un cambio di nome, piuttosto; sempre che imbrogliare funzioni. E' questione di “Catherinanza”. Le altre ragazze non danno due di picche con lo stesso savoir faire, né hanno la possibilità di entrare a far parte, per diritto di nascita, della nutrita schiera di ex di quello che un tempo fu un bambino prodigio. Sfruttando le sue disavventure sentimentali, nella speranza che un bambino prodigio possa anche diventare un adolescente prodigio, Colin studia notte e giorno per elaborare il teorema che spera possa far di lui un premio Nobel per la pace. Per la pace, sì: grazie a lui, niente più cattive sorprese. Il destino di una relazione, riassunto con matematica certezza, prima che essa cominci o finisca. Poi premio Nobel... che figata. Chi mollerebbe mai un generoso benefattore dell'umanità, come quello smilzo ragazzetto con gli occhi verdi verdi e i capelli cespugliosi alla Einstein? Trascinato in un viaggio rocambolesco, approdato in una sperduta cittadina americana, piena di abitanti indimenticabili e assurdi, Colin e il suo amico Hassan – cicciottello, irsuto, esilarante e troppo musulmano per i suoi gusti, anche se ci tiene a specificare di non essere un terrorista, nonostante le apparenze – raccoglieranno vecchie memorie, andranno a caccia di maiali selvatici, saranno inseguiti dagli stessi esotici maiali che volevano cacciare e da sciami inferociti di vespe assassine, conosceranno l'adorabile Lindsey Lee Wells e i colpi di scena che il destino, anche se non sembra, ha in serbo per tutti noi. Teorema Catherine, quinto libro di John Green che leggo, è anche l'ultimo dell'autore che rimaneva nella mia nutrita wishlist. Finiti. Letti tutti. 
E adesso mi sento un po' solo, sapendo che quando avrò bisogno di lui – per il momento – non ci sarà; proprio lui, che c'è sempre stato. Questo breve e fresco young adult ha un Green meno ispirato del solito, ma ugualmente coinvolgente. Sarà per il distacco in più dato dall'utilizzo dell'insolita terza persona, sarà per la mia totale ignoranza dell'ambito matematico: Teorema Catherine mi ha fatto sorridere spesso, però non è mai esplosa... quella cosa. Me ne sono accorto, per esempio, dal numero di frasi belle belle che ho appuntato. Un gruzzoletto esiguo ma significativo di riflessioni in cui specchiarsi, nudi. Senza maschere, senza artifici. John Green è uno che non giudica. Curiosissime le frequenti note a bordo pagina con le informazioni sulle vite assurde di presidenti rimasti incastrati nella vasca da bagno, uomini di scienza innamorati alla follia di piccioni, modi di dire non so cosa in nove lingue: curiosissime, per un libro carinissimo. Sempre che sappiate accontentarvi. Io l'ho fatto, e senza troppa amarezza: non posso parlare di delusione, perché il romanzo non mi ha deluso affatto. Per due giorni, è stato bene tra le mie mani e sotto l'ombrellone. Compratelo, per godervi in compagnia quel che resta dell'estate: Ferragosto, come fa l'Epifania con le feste, minaccia di portarci via il sole. I protagonisti, più lineari e meno ombrosi del solito, vi ricorderanno che è bello ridere, prendere la macchina e girare a vuoto. Si viaggia in una minuscola bolla di vetro. Il mondo che si capovolge, la neve che cade nelle stagioni sbagliate, la gente che si urta e si chiede scusa. Una bomboniera a buon prezzo in cui spicca la croce lignea più grande del mondo, una fabbrica che produce stoppini per tampax, un obelisco che fa ombra sui presunti resti dell'arciduca Francesco Ferdinando. Colin e Hassan sono scemo e più scemo, ma con un quoziente intellettivo vertiginoso. Logorroici e imbarazzanti, fanno associazioni di pensiero assurdamente buffe, anagrammi sgrammaticati, discorsi su argomenti decisamente inadatti alla conversazione tra liceali. 
E poi c'è Lindsey, che ha il pregio e il difetto di non essere un'altra Catherine. E sta insieme a un altro Colin. Una ragazza sveglia e sensibile, che si pone il problema di essere egoista e si dà della bugiarda, perché con altri che non siano Colin – ma quello vero, non LAC (L'altro Colin) - non riesce ad essere sé stessa. Essere sé stessi, il romanzo ci insegna, è mangiarsi le unghie come se l'altro non ci fosse: come se l'altro fosse un altro noi. Parlando su Facebook con una ragazza che non lo apprezzava, ho riflettutto sul perché mi piacesse Green, nei giorni scorsi. Avevo davanti una frase che parlava di me. Allora ho realizzato: lui dice certe cose, e in certi modi, che mi fanno dire “be', eccomi qui”. Non è accontentarmi, convinto non ci sia altro di meglio. E' aspettare di ritrovarmi in prima persona, prima o poi, nelle cose di un altro autore. E io, da ragazzo non geniale, mi faccio bastare anche libri non geniali, finchè il semplice ricordare come sono stato non molto tempo fa, e rivedermi un poco, sarà tutto quello che vorrò. Il protagonista vuole cercare un disegno, vuole una morale per le sue fallimentari storie. Storie... piuttosto che riassumerle attraverso schemi impersonali, meglio raccontarle. Con quelle parole che, anche quando non ci saremo, stravolte e modificate, rimaranno nell'aria. In trecentoventi pagine, spazio per una scena da Guiness. Il miglior bacio al buio. Non mostrato, non raccontato: reso con una serie di battute che hanno i punti di sospensione e basta. Un genio matematico che si rende conto che sapere le basi di nove lingue, il nome di colui che fu primo ministro del Canada nel 1871 e le dipendenze segrete di Thomas Edison è meno interessante del sapere fare conversazione e, raccontando, raccontarsi. La scienza salva il mondo, ma la letteratura salva l'uomo. La prima è importante per tutti, la seconda per noi. Ed è carino fare qualcosa per noi, di tanto in tanto. Dolce e genialoide, l'inconsapevole Colin segna l'armistizio nello scontro secolare tra artisti e uomini di scienza. Si può essere l'una e l'altra cosa. I capolavori di vite sono splendidi da guardare, tanto quanto le stelle. Il diagramma finale avrà una forma variabile. Una faccina sorridente, un cuore. Un romanzo simpatico e senza drammi, che non deride i ragazzi e le loro nevrosi. 
Ride insieme a loro.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Barry White – My first, My last, My everything

mercoledì 13 agosto 2014

Recensioni a basso costo: Dio di illusioni, di Donna Tartt

La morte è la madre della bellezza. E cos'è la bellezza? Terrore

Titolo: Dio di illusioni 
Autrice: Donna Tartt
Editore: Bur – Rizzoli
Numero di pagine: 622
Prezzo: € 11,00 (Scontato: € 9,35)
Sinossi: Un piccolo raffinato college nel Vermont. Cinque ragazzi ricchi e viziati e il loro insegnante di greco antico, un esteta che esercita sugli allievi una forte seduzione spirituale. A loro si aggiunge un giovane piccolo borghese squattrinato. In pigri weekend consumati tra gli stordimenti di alcol, droga e sottili giochi d'amore, torna a galla il ricordo di un crimine di inaudita violenza. Per nascondere il quale è ora necessario commeterne un altro ancora più spietato...
                              La recensione
Di Dio di illusioni non mi dicevano semplicemente che era un libro bello, ma che era uno di quei libri – scritti una volta ogni tot di anni – che cambiano la vita di chi lo legge. Aspettative, dunque, non alte: di più. E' stato strano leggerlo, nella sua voluminosa interezza, nell'attesa perenne di qualcosa. Esperienza unica girare pagina con la speranza di trovarsi lì, prima a pagina cento, poi a pagina seicentoventi, cose rare e grandi. Giravo, giravo, giravo: come faccio per casa, con i piedi che non stanno fermi, quando aspetto un ospite importante. Sono stato vigile, in attesa, sull'attenti, ma qualcosa è andata per il verso sbagliato. Nessuno ha bussato alla porta, quel misterioso senso del tutto non si è voluto far vivo. Dunque, filosoficamente, umanamente, culturalmente, non mi ha cambiato come persona. Sono lo stesso di una settimana fa, solo con un romanzo in meno da leggere. Avrei voluto vederci tanto, ma cosa avrei dovuto, esattamente, cercare di scorgere? Non so bene, e aspetto che qualcuno mi faccia luce e mi indichi, magari, la strada corretta. Sulla neve fresca del Vermont, la scia dei miei passi alla deriva. Non ho visto granchè di quello che non c'era scritto, quindi mi concentro sul concreto. Dati empirici, inchiostro indelebile, pagine da annusare. Un romanzo, grosso, di seicento pagine e oltre, che ho scoperto all'inizio di quest'anno. Pubblicato per la prima volta ventidue anni fa, ha rivisto la luce grazie a una ristampa recentissima. La misteriosa Donna Tartt, donna bellissima e criptica che pubblica un libro ogni dieci anni, aveva vinto il premio Pulitzer e scritto un ennesimo capolavoro. Ennesimo. Il che vuol dire che ce ne erano stati necessariamente degli altri. Recuperare il primo, su consiglio di amici e colleghi, è stato immediato. L'ho portato al mare con me, anche se – per la sua strana natura – è l'opposto del libro da ombrellone. Sinceramente, però, non sapevo quando altro avrei potuto leggerlo: in precedenza, con la sessione estiva e il tempo cattivo? Ad ottobre, con i nuovi corsi e i sali e scendi continui per raggiungere l'università? Il mare mi rilassa, mi lascia concentrato e vigile, mi rovina il dorso dei romanzi in brossura, ma tant'è. Non essendoci momento migliore, l'ho creato un po' da me. Leggendolo sono arrivato a una sacrosanta conclusione: io guardo troppi film. Ma proprio tanti. Leggo anche molto, certo, ma mai un libro al giorno. Invece un film al giorno, bello o brutto che sia, la guardo; necessariamente. Ecco che succede, quindi, quando un libro scritto benissimo, e con splendide parole di troppo, ti racconta una storia che già hai visto e rivisto altrove: sensazione nota, sentimento spiacevole. Lo fissavo da tempo e lo temevo, a giusta ragione. Era lungo, prolisso, impegnativo: mi domandavo, tra me e me, se avrei retto. La lettura si è rivelata piuttosto scorrevole in molti punti, lenta in altri, ma indubbiamente valida. Mi ha annoiato raramente e raramente ho desiderato di portalo in fretta alla fine. Perché, come dicevo, aspettavo. Chissà cosa, ma aspettavo. Finchè mi sono ritrovato le mani vuote: le pagine erano tutte finite. Allora mi sono concentrato su altro e, pensando a un commento da scrivere, mi sono chiesto cosa mi fosse rimasto... Cosa mi è rimasto? Il sentore forte di un'infinita, connaturata classe: Donna Tartt è una signora scrittrice. 
Riempie le crepe, i fori, i graffi con il cemento di una prosa invidiabile. Si stenta a credere di trovarsi davanti a un esordio, ma lei è nata brava. Già. Brava nell'intrattenere, nello spaccare il capello in quattro, nel dire perfino le cose più superflue nel modo più giusto. Mescola le filosofie di altri e una filosofia che è solo sua. Costruisce una chiesa in cui si avvertono echi vibranti di Nietzsche, Dostoevskij, Euripide: una tragedia gialla che inizialmente non afferri. Ti limiti a definirla “affascinante”, perché così è. Nonostante parli con consapevolezza e faccia sfoggio di una cultura vasta e approfondita e ancora, nonostante nemmeno per un secondo il suo sapere mi sia parso vuota ostentazione da prima della classe, ha elaborato personalmente dottrine, teorie, idee in cui già mi sono imbattuto con i miei studi, per dovere o curiosità personale. Cinque sudati anni di Liceo Classico mi hanno dato un metodo di studio, un'infarinatura di filosofia, nozioni di greco antico: trovate tutto nelle brochure! Nonostante la lingua di Omero non sia diventata mezzo per parlare astrusamente in codice e rendendomi a malincuore conto che i protagonisti del romanzo in due anni di corsi già parlavano fluentemente una lingua morta, alla faccia mia, la particolarità dei caratteri, i frammenti colti di un Callimaco, i riferimenti a miti e credenze passate non mi hanno impressionato. Toglieteci, dunque, la mancata persuasione. Toglieteci che la trama, esile ma articolata alla perfezione, mi sembrava un elegante pasticcio di cose già note. Quel che restava di Dio di illusioni: una prosa florida e poco altro; quei personaggi ipocriti, cinici, biechi, che eppure – delineati in maniera tanto sopraffina – facevano buona compagnia, sorseggiando drink ad alto tasso alcolico e intossicandoti col fumo stantio delle sigarette, il miasma della cospirazione, l'incenso pungente del rito dionisiaco. 
Li vedo qui davanti a me, come fantasmi: questa è una storia che, anche se non lo sapete ancora, ne è piena. Perciò loro, al buio, mi guardano con occhi a raggi x. Inquadrati in contre plongée che fissano il baratro, con un cadavere sul fondo, mentre il baratro fissa loro. Giacca e cravatta, camicia inamidata, occhiali tartatugati, l'aria distinta, la complicità assicurata da un comune misfatto. Il narratore, Richard: un ragazzo di umili origini, bugiardo per necessità, che veste abiti di seconda mano e arrabatta denaro come può, nei gelidi inverni all'università; il delicato Francis, che solo tra amici può permettersi di non nascondare la sua sessualità vissuta con cruccio; gli inseparabili fratelli gemelli, Charles e Camilla: brillanti e avvenenti angeli; l'imponente e ricco Henry, dall'ambizione smodata e con un animo di fango da Mr Ripley; infine, il ragazzo il cui destino è svelato alla prima pagina, Bunny: assassinato. E perché? Il romanzo parte dalla fine, svelando a poco a poco i retroscena dell'omicidio; le indagini della polizia locale; gli sbrigativi piani b; la cattiva influenza di un ottimo insegnante, l'affascinante e ambiguo Julian. Un burattinaio che rimane, fino alla fine, in ombra, indecifrabile e bizzarro, eppure motore vero di quel giovane coro tragico. Rituali e pratiche arcane: descritte con toni più perfidi e coinvolgenti in L'età sottile. L'istruzione che uccide e insani legami studente-insegnante: L'allievo, Cracks, Symbiosis, Formula per un delitto, Giovani Ribelli, Oxford Murders, l'ottimista L'attimo fuggente (addio, Robin). Soprattutto, ho pensato a The Dreamers, tratto da un racconto datato 1989, mi dice Wikipedia: i giochi sentimentali dei personaggi, le combinazioni amorose, la paura che una crepa nella torre d'avorio possa buttare giù tutto, l'affinità elettiva, cenni all'omosessualità e le preoccupanti gelosie dei fratelli verso le sorelle gemelle. Eloquenti e dotti, dal primo all'ultimo, inquietanti e inquieti, dal primo all'ultimo, discettano di alti argomenti e, parlando di splendore e paura, immortalità e dannazione, lavorano a un crimine perfetto. Difetto di un libro non altrettanto perfetto: l'autrice mette per bene i puntini sulle "i" e, nella parte conclusiva, elenca vita, morte e miracoli di inutili personaggi minori. Nulla è lasciato al caso, almeno apparentemente. Il finale è risolutivo e appagante, ma le informazioni, le digressioni e le novità aggiuntive mi hanno dato come l'impressione che la Tartt, furba, cercasse di distrarci, e da quelle che, purtroppo, sono incongruenze; banalità; toppe posticce. Non lo diresti, vedendola cullarsi in una molteplicità sterminata di dettagli, ma ha una fretta matta. Io, che tenevo d'occhio più il filo conduttore della trama che il superfluo, l'ho notato: la tensione si scoglie in un unico, prevedibile passo lasciato in balia del caso. Lei svela quello che non deve svelare, dicendo quello che, imprevedibile, doveva custodire solo la notte. Un deforme romanzo di formazione. Un esordio folgorante, ma lontano, sia dal Paradiso che dal pagano Olimpo. 
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Dario Marianelli – Briony (da Espiazione)

Attenzione: Spoiler: evidenziare, per leggere. 
Il suicidio della vera anima del gruppo: la polizia a cosa lo attribuisce? Depressione? E quei colpi volati nella stanza d'albergo? Com'è possibile che tutti l'abbiano fatta franca, proseguendo beatamente con le loro vite annoiate? Colpa, senso di fallimento, abbandono... Penso che anche il più sbatato dei poliziotti avrebbe collegato il colpo di pistola autoinflitto, alla fine, alla morte ancora senza perché di Bunny. Mah. Dal giallo non prende in prestito il ritmo, ma il peggio: vale a dire, forze dell'ordine idiote!

martedì 12 agosto 2014

Scavenger Hunt - La conclusione e i vincitori

Scavenger Hunt 

Nuovo post, la conclusione della Scavenger Hunt organizzata da Susi di Bookish Advisor, Angelica di Il Castello tra le Nuvole, Pamela di Il Cibo della Mente, me, Morna di Forgotten Pages e Nym di Down the Rabbit Hole.

Ricapitoliamo il procedimento che permetteva di accumulare punti:
Risposta corretta all'indovinello guadagna tre punti (+3)
Partecipazione al giochino relativo alla raccomandazione riceve due punti (+2)
Risposta domanda nel commento riceve un punto (+1)

Per chiarezza qui le soluzioni degli indovinelli:

Siamo compagni colpiti da una sorte avversa
Ognuno di noi ha una storia diversa
Solo uno sarà il vincitore
Per il divertimento del popolo spettatore

Questo indovinello si riferisce alla serie Hunger Games di Suzanne Collins 
Contro il male oscuro combattiamo
Tutto il mondo proteggiamo
Solo noi possiamo farlo
I soli in grado di sfidarlo

Qui si parla di Shadowhunters di Cassandra Clare
È una malattia capace di uccidermi
Ma è anche la sola in grado di salvarmi
Un antidoto è stato creato
Ma questo non è quello che il mio cuore ha ricercato

Qui invece abbiamo Delirium di Lauren Oliver
Veloce e silenzioso come il vento
Per le strade della città mi considerano un portento
Scaltra e intelligente sono ritenuta
Tra le file del governo sono la benvenuta

Qui si descrivono Day e June, protagonisti di Legend di Marie Lu
Siamo figli di miti e leggende
La nostra forza e intelligenza tutti sorprende
L'Iliade e l'Odissea leggiamo a merenda
Aspettiamo che il fato la nostra vittoria ci renda

Qui abbiamo Percy Jackson di Rick Riordan
Tra baci mortali e foreste incantate 
un re leggendario giace addormentato
Nell'ombra egli attende di essere trovato 
Unica promessa, un desiderio realizzato

Per ultimo The Raven Boys di Maggie Stiefvater

lunedì 11 agosto 2014

Qui pro cover #8


Ciao a tutti, amici, e un grande benvenuto a coloro che, da poco, si sono uniti alla nostra squadra. Avrete notato la mia assenza di questi giorni. L'ultimo post, escludendo il giveaway attualmente in corso, risale a una settimana fa. Sono alle prese con Dio di illusioni, al momento, e siccome è lungo e dettagliato, mi ci vuole più del solito per finirlo: in settimana ve ne parlo sicuramente. Oggi, per farmi vivo, vi propongo un nuovo appuntamento con Qui Pro Cover, dal momento che il tempo è poco e le cose da scrivere scarseggiano. Pronti? Pronti. Pensavate che le copertine belle fossero uniche nel loro genere? Illusi! Guardate un po' cosa è capitato a quelle di Warm Bodies, I bambini del crepuscolo, Cercando Alaska: "clonate". La candela che si spegne in primo piano, sulla copertina del capolavoro di John Green, disegna un filo di fumo preoccupantemente simile a quello in bella vista su Sentinel, dell'autrice di Obsidian. La bravissima Laurie Halse Anderson e l'autore dal nome impronunciabile del recente urban fantasy della Salani hanno in comune tutto: neve, piedi nudi e pantaloni neri, una spaccatura profonda nel ghiaccio. Nel primo caso vediamo l'acqua gorgogliare a sinistra, nel secondo a destra, ma il soggetto è quello e quella è la copertina, che non più unica rimane ugualmente bellissima. Isaac Marion, invece, è sotto i riflettori con James Frey: la Guanda prende spunto dalla copertina americana di Warm Bodies per poi piazzarci sopra un brutto font dei suoi. La raccolta di racconti di James Franco, invece, ha affinità con la copertina di Slam, di Nick Hornby. Vince Hornby, perché l'immagine del ragazzo che inciampa nel titolo, quasi, è bizzarra e divertente. E tutto quell'arancio dà la carica. Tra parentesi, ho visto Palo Alto, il film tratto da In stato di ebbrezza, la settimana scorsa: originale l'idea di raccontare la noia esistenziale... con altra noia. Ultimo, ma non ultima, il mio amato Marina del mio amato Zafòn, la cui veste grafica non italiana – bho, non so che edizione sia, né da dove provenga: perdonatemi – è la stessa che troviamo nell'economica del Giardino dei segreti. Dài, per oggi è tutto. Penso sia inutile ribadire che la rubrica nasce senza nessun intento polemico, ma ogni tanto meglio precisare, no? Io vi lascio. Brutta bestia era la sessione estiva, ma quella autunnale pure non scherza. E' in autunno, certo, ma l'esame sempre in estate devo preparamelo, fuck. Un abbraccio. M. 
(E scusate se le immagini appaiono come un blocco unico: colpa di Blogger ._.)

giovedì 7 agosto 2014

Giftaway estivo: Will ti presento Will, di John Green e David Levithan


Ciao a tutti, amici! Come state? Direi bene. Non siete ancora troppo stanchi di leggere i miei post e ancora non mi avete mandato al diavolo – almeno per il momento, eh - per le mie continue incursioni su Blogger. No, io non vado in vacanza, quindi vi tocca tollerarmi. Oggi, quindi, un regalino per voi. Niente anteprime, niente recensioni. E' tempo di giftaway. Will ti presento Will (qui la mia recensione), scritto a quattro mani dal mio amato John Green e dal brillante autore del bell'Ogni giorno, sulla scia del successo di Colpa delle stelle, è tornato in libreria con una veste grafica leggermente rinnovata. Avendo già letto e apprezzato il libro qualcosa come due estati fa, facendo affidamento sulla sempre gentilissima Lucia, dell'ufficio stampa Piemme, ho pensato di regalarne una copia a un fortunato tra voi. Perché è un libro simpaticissimo, e c'è bisogno di allegria, ultimamente, e perché per Green vale un po' sempre la pena. John, dico... ma anche Eva non è niente male! Le regole sono semplici e poche. Avrei voluto organizzare qualcosa di più, be', organizzato, ma il caldo è tornato e non ne ho tanta voglia. E ho anche prenotato il primo esame di settembre, quindi mi viene un tantino da piangere/urlare/disperarmi. Vi lascio il piccolo banner dell'iniziativa e aspetto i commenti di chi vorrà partecipare, allora. Potete scrivermi  fino al 15 Agosto. Il giorno successivo, dopo i balli, le birre, i mega panini e i fuochi d'articio, contatterò privatamente il vincitore.

    Come partecipare?
    - Essere follower del blog.
    - Commentare il post, lasciandomi nick e indirizzo email.
    - Condividere l'iniziativa sui social network e linkarmi le eventuali condivisioni.

lunedì 4 agosto 2014

Pillole di recensioni #4: Il secondo momento migliore (Camerini), Lividi (Emdin)


Titolo: Il secondo momento migliore
Autrice: Valentina Camerini
Editore: Feltrinelli
Numero di pagine: 275
Prezzo: € 16,00
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Max Pezzali - Lo strano percorso 
La recensione: Quando mi hanno proposto di leggerlo, ho subito pensato a una storia di risate e salsedine. Una storia giusta per il periodo giusto. Dando un'occhiata, avrete notato le stringate stelline. Vi spiego il motivo: Il secondo momento migliore, pur non essendo un brutto romanzo, mi ha fatto incazzare. Nonostante la sinossi racconti una storia che già conosciamo, penso che, nel profondo, il romanzo della Camerini avesse del potenziale. A proposito, la sinossi chi l'ha pensata? Spoiler gratuiti e prime impressioni a parte, del libro noti che è scritto bene. Quello che segretamente temevo io era una bambocciata. Cosa che, nelle linee generali, lo young adult nostrano non è. Le vicende si articolano in due parti: adolescenza e età adulta. Il difetto è quello: gli anni non vengono scanditi, i protagonisti invecchiano restando giovani, le tappe vengono bruciate. Si parte al liceo, con una vita da studenti che occupa poco tempo. Troppe lamentele per un esame di maturità da preparare in fretta; ho pensato agli stati Facebook degli studenti con gli orali alle porte, e la cosa non entusiasma. Poi vengono: l'amicizia, l'amore, il viaggio all'estero, l'università, il lavoro, la convivenza, il desiderio di essere genitori. Velocissimamente. Nell'arco di capitoli zeppi di ellissi temporali, con più di qualche forzatura, in vite dagli strani percorsi. Lo stile dell'autrice convince. La Camerini scrive come parlo io e il suo protagonista è un altro me. Io ogni tanto mi sto antipatico da solo e ho trovato antipatico pure Alberto: egoista, insicuro, bisognoso di attenzioni. Alcune cose, in una seconda parte più matura della prima, fanno pensare. O non pensare. A tutti i grandi amici dimenticati per strada e reinseriti grossolanamente nel contesto, ai prof assillanti che manco in prima elementare, ai viaggi organizzati su due piedi, agli scrittori pazzi presi di peso da Colpa delle stelle, all'abuso dell'aggetivo “vibrante” (alberghi vibranti?), alla sensazione strana di trovarmi davanti a una farsa. I viaggi da ricchi, le citazioni pseudo-nerd, le birre, le canne, le feste, il divorzio di mamma e papà, la malattia che dà un briciolo di tragicità al tutto. Cose funzionali, ma che insieme, qui, danno l'impressione contraria della schiettezza. L'autrice – che scrive anche di tv, e si vede – prende Braccialetti Rossi e Bianca come il latte e, con un tascabile di Jack Frusciante in pugno, li manda all'avventura. Io, che avrei pensato a un One Day “made in Italy”, invece, continuo a mangiarmi i gomiti. Magari, con un altro romanzo, tra me e la Camerini arriverà... il secondo momento migliore.

Titolo: Lividi
Autrice: Annick Emdin
Editore: Edizioni Anordest
Numero di pagine: 240
Prezzo: € 12,90
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Baustelle - Charlie fa surf
La recensione: Lividi. Quelli che costellano l'anima di un storia marcia e bellissima che non riesci a mettere giù, fino a quando le pagine terminano e le sensazioni restano. Sensazioni forti, contrastanti, fisiche, che ti senti nello stomaco e in bocca, come quando bevi troppo, ti aggrappi alla tazza del cesso e vomiti tutto. L'esordio dell'italiana Annick Emdin fa parte di quel gruppo assai povero di libri che non vogliono parole di troppo. Puoi parlarne allo sfinimento e renderti conto di non aver detto niente. Quindi mi accontento, lo capisco, e dico poco, sperando sia abbastanza. Questo romanzo l'ho recuperato dal fondo di una pila di libri non letti e, in un periodo di letture non andate a buon fine, mi ha sbloccato. Sollevato, con una pressione ingombrante sul petto e la scossa spaventosa che segue il Libera! Libera! dei paramedici di turno. Dovete sapere, prima di iniziarlo, che fa male. E che, se non avete nervi saldi e stomaco forte, è una selva oscura che non può essere percorsa. Ha duecento pagine appena e passi insostenibili. Mettono alla prova e il solo ripensarci riempie di disgusto. Immagini che vanno e vengono e che tormenteranno per un po'. La prosa sospesa e leggerissima della Emdin vola in una New York sconosciuta e sgradevole, in cui è sempre notte. Una notte umida, perpetua, puzzolente, in cui essere adolescenti non è facile. Charlie ha un corpo pieno di graffi. Occhi di colori diversi, un passato da eroinomane, un nome noto nel mondo lurido della prostituzione maschile. Ha solo diciassette anni e mezzo. Si addormenta sulle lapidi, legge i grandi classici russi e ama con tutto il cuore Phemie, una poliziotta che ha osato cambiare il suo status quo. Ma ama anche Maurice, un cliente che è diventato il suo salvatore. Un uomo adulto, represso e misterioso, capace di percosse furiose e tenerezza, con una guerra che parla croato negli incubi e una cicatrice a forma di fiore sul petto. Potrebbe questo triste triangolo amoroso diventare una famiglia felice? Lividi è la fotografia mossa di una periferia in stato d'emergenza. Una guerra di quartiere; un'indagine nel marcio; un' immersione senza fiato in un mondo di bambini violati, genitori cattivi, club sadomaso con livelli segreti nascosti nello scheletro. La meraviglia, alla fine, sta nel domandarsi come faccia un romanzo così ad essere capace di un amore così grande. Salvifico, emozionante. Non c'è una pagina in cui, in mezzo al male, non sia pronunciato un ti amo a fiori di labbra. E' bene ricordarselo spesso, quando l'oblio è il minore dei mali in cui imbattersi. Serve a tenere a mente le cose importanti. Consigliato a chi ama i ritmi vertiginosi, le frasi secche, una narrativa che dà voce a storie di quotidiano orrore. A gente col pelo sullo stomaco. A chi è di indole paziente: perché dopo il tornado, arriverà il sole a riflettersi, vanitoso, nelle pozzanghere luride della City.

venerdì 1 agosto 2014

Mr Ciak #41: Anarchia, 22 Jump Street, Chef, The Dreamers e un po' di altre cose (recuperate, riviste, in giacenza)


Ciao, amici. Primo post del mese di agosto. Cavolo, come abbiamo fatto ad arrivare al mese di agosto? Rintanati in casa, tra l'altro, perché il tempo minaccia tempeste un giorno sì e l'altro pure. Io preparo svogliatamente un altro esame, leggo, guardo film. Ma non preoccupatevi: parecchi film di questo post risalgono a una vita fa. Avevo scritto due parole, all'epoca, e lasciarle lì mi sembrava male. Poi il tempo sarà pessimo anche da voi: e se voleste qualcosa da vedere? Perciò ecco un'altra carrellata. Al cinema trovate Anarchia, Chef, 22 Jump Street. Tra i film rivisti, invece, il controverso The Dreamers e il sopravvalutato Shakespeare in love, a cui ho dato un'occhiata in vista dell'esame di Storia del Teatro Inglese. Gli altri, molti inediti e molti disponibili anche da noi, meritavano giusto qualche parolina. E' tutto. Scrivetemi se avete visto qualcosa, se avete intenzione di vedere qualcosa, quali sono stati i vostri film della settimana... Quello che volete. Io, su consiglio di amici blogger come Marco, di Pensieri Cannibali, ho recuperato qualcosa della filmografia dell'enfant prodige canadese Xavier Dolan: c'è da parlarne, sicuramente, e magari lo faccio la prossima volta. Un abbraccio, M.

In un futuro non precisato, c'è una notte dell'anno in cui puoi purificarti nel sangue di chi non ti è amico. La notte del giudizio. E' così che si chiamava un horror uscito lo scorso anno, con budget limitato e un'idea forte alla base. The Purge divertiva: un thriller home invasion, con strizzate d'occhio a Funny Games e uno sfondo distopico. Gli incassi hanno dato l'input a un seguito, arrivato puntuale e ben voluto. Zitta zitta, in questa estate piovosa, ma assai arida di film, giunge alle nostre porte l'Anarchia. Un film d'intrattenimento non male. Slegato dal primo, sceglie gli spazi aperti e atmosfere alla Mad Max. Gli attori sono sempre pochi – spicca Frank Grillo – e i protagonisti dovranno vedersela con le ostilità dell'esterno. Torti personali, fughe nel cuore della notte: uccidere o essere uccisi. Meno crudo e anche meno innovativo di quel che appaia – continui i riferimenti a Carpenter, Kubrick e a saghe come Hunger Games – è una riflessione cinica e pungente su certi lati della cara America. La violenza non sta nelle immagini, ma in una tematica che fa porre domande e stuzzica ombre buie della fantasia. Questo sequel, tutto azione, aperto al perdono e ai suoi lati positivi, si chiude con un tocco di bontà poco dannoso. Qualche ricorso di troppo a un deus ex machina spuntato per botta di culo, qualche filo dell'intreccio lasciato per conto suo, ingenuità perdonabili. Siamo ad agosto e già trovare un film discreto, al cinema, è troppo. Per la perfezione, cercare altrove. Un B movie che nasconde al mondo i suoi limiti, con adrenalina, sudore e ipotesi di fuoco. (6,5)

Quando una chiusa epica segna la fine di un film molto ordinario. Titoli di coda originali e imperdibili. Molto più di questo sequel, che non è all'altezza della simpatia del primo. Solita cosa, ma tanta autoironia. Si parla, tra le righe, dell'inutilità dei seguiti, dei franchising cinematografici, di alti budget per film discutibili. Se è conscio dei propri limiti, questo lo rende... meno superfluo? Fa venire voglia di estate, con le sue feste a cielo aperto e gli eccessi. E qui, da me, piove e tira vento: che amarezza. La strana coppia Hill-Tatum funziona, ma le gag sono minestra riscaldata. Sanno anche loro di essere un po' troppo vecchi, ormai, per il genere. Lo dicono e lo ribadiscono, in una prima ora e trenta che scorre, ma senza nessi logici. E' fuffa. Gli ultimi quaranta minuti, i migliori, regalano sorrisi, trovate impossibili, velocità. I momenti più riusciti sono i siparietti con Ice Cube. Carino, ma di una comicità che non sempre coinvolge. Scemo e più scemo con i pistoloni di Bad Boys. Di 21 Jump Street, visto all'epoca dell'uscita, ho un ricordo più che positivo. Ma saranno i ricordi che, questa volta, mi ingannano? Non vi alzate dalle poltrone prima della fine, voi. L'unica cosa, insieme al buffo colpo di scena, meritevole davvero. (5)

Jon Favreau – regista di Iron Man mette faccia, pancia, colesterolo e un cuore di ciccia in Chef, la sua commedia indipendente. Un film leggero, caloroso e coinvolgente su un cuoco che, dopo la stroncatura di un cattivissimo blogger (no, non ero io, ma dovrei informarmi: mangiare gratis ai ristoranti, gnam! Tanto il fashion blogger non lo posso fare: sogni infranti...) e una sfuriata tremenda rimbalzata su tutti i Social del pianeta, compra un camion rugginoso e, col suo amico di sempre, gira l'America, vendendo panini e caloriche squisitezze in un viaggio on the road profumato, intimo e divertente. La sua passione gli ha portato fianchi larghi, divorzio, un rapporto inesistente col figlio ancora piccolo, inimicizie, un autentico caratteraccio. La sua passione, diventata lavoro, non era più tale. Licenziarsi e osare un po' sarà un gran bel colpo di testa. Venghino, signori: venghino! Il ristorante ambulante di Favreau apre i battenti e, spendendo poco, si mangia, si beve e si chiacchiera. Attirati dall'odorino invitante e non dal frusciare delle banconote, si vedono in giro grandi nomi che – per amicizia – fanno da sponsor e ci mettono la faccia. Una sexy e mora Johansson e, al seguito, Hoffman, Downey Jr, Platt, Bobby Cannavale. Il film, però, è tutto loro: il duo Favreau-Leguizamo è sfavillante, Sofia Vergara incanta e lo spigliato Emjay Anthony è un bambinetto preoce e curioso, che odia la birra e fa di Twitter un'impensata arma di successo. Una commedia familiare su ruote e ai fornelli, che ti prende per la gola e ti manda cartoline e tweet dagli spettacolari posti che visita. Finito di vedere in tarda serata avevo anche una certa fame. E uno spuntino di mezzanotte no? (6,5)

Un giovane americano, una città straniera, il rifugiarsi tra cinema e libri. Per fuggire, codardo inguaribile e pacifista convinto, da un Paese che vuole ragazzi come lui, per spedirli in una guerra lontana. Mentre fuori impazzano le manifestazioni e il '68 europeo reclama incontaminati ideali, lui viene coinvolto in un circolo d'anime che è un lusso per pochi. Isabelle e Theo – fratelli, gemelli, qualcosa di più – aprono a Matthew le porte della loro reggia e lo lasciano entrare: in stanze che pulsano di desiderio, libertà sfrenata, canzoni ispiratrici. L'abc, il Bignami della storia del cinema. Il cinema che parla di sé. I protagonisti sono appassionati che non si perdono una proiezione; che – in sala – ci tengono a occupare la prima fila; che girano liberissimi remake a ogni impresa, movimento, sguardo. La pellicola, riflessione sui poteri dei registi d'ogni dove, è la corte di questi tre amanti. Salvaggia. Un gioco della bottiglia raffinato, turbolento e crudele in cui ci si sfida a fare cose. Obbligo o verità? In palio, il terzo posto da occupare. Uno spazio in quella parentesi genetica, in quelle indecorose affinità elettive: l'onore di essere due gemelli siamesi, più uno. Il film ha un regista invisibile e uno sguardo lascivo. Anche attaccarsi alla stessa bottiglia, aggiustarsi il rossetto, soffiarsi il fumo nella bocca sa essere seducente. Si capisce, anche se non si vede. Che ci sono i nudi frontali, i ménage à trois, il sesso ed eppure potrebbe esserci anche altro, tra questi due bambini dispettosi che trattano il terzo come una bambola. The Dreamers è un intrattenimento d'autore sospeso e sognante, etereo e lontano dalla realtà, come un dramma bucolico della Grecia antica. Sa di gioventù senza limiti. Anche se ambientato tutto in un appartamento. Anche se girato undici anni fa, da un regista settantenne, con un trio di attori con trenta candeline spente sull'ultima torta. Si ci sveglia, calati nel reale, e l'amor(al)e incanto non dura. Bertolucci descrive una fase della vita da lui sperimentata chissà quando. Gli bastano poesia, leggerezza e un grande segreto. I ventenni vogliono le stesse cose; ma non ditelo in giro. Le rivoluzioni culturali e, perché no, anche una casa sospesa nel tempo da condividere con loro. Un candido Michael Pitt; un ombroso Louis Garrel; una travolgente Eva Green – con il nome della prima abitatrice del mondo - nata già donna, con gli occhi da vergine e il corpo da Venere di Milo. Un sogno erotico per tutti gli sfiorati da Morfeo. Adulti, non svegliateci. (8)

Film strapremiato, arrivato al cinema quando io avevo qualcosa come cinque anni. Visto all'epoca e mai più recuperato. Alcune cose le ricordavo. La Paltrow che, coi capelli sciolti, volteggiava per liberarsi della fascia che le comprimeva il seno. Rush bonariamente torturato nella prima scena. Il film nel film, il teatro nel teatro: Shakespeare in Love, mentre in scena andava Romeo & Giulietta. La storia d'amore dietro la tragedia, la realtà dietro il mito. Realtà? Tutto è farsa anche nel gioiello di commedia diretto dal sapiente John Madden, ma incanta e tu, spettatore, credi. Il film, lieve e scenografico, si avvale di un cast eccellente, di grandi impieghi di masse, di costumi opulenti e dettagli ricercati. La sceneggiatura, ben cesellata, incastra la storia d'amore tra William e la ricca Viola e la drammaturgia del poeta di Stratford: così lei ispira Giulietta; così lei ispira La dodicesima notte e il sonetto n°18. Diverte, tocca, intrattiene ad arte. Concilia relax e storia. Ottimo cast, comprimari nobili, interessanti citazioni da cogliere sparse in giro. Il mistero, piuttosto, sono le tredici nomination agli Oscar e la vittoria della Paltrow, con un ruolo poco impegnativo. Quell'anno la concorrenza doveva essere scarsa, o un film che io ho trovato bellino e poco più è stato fortemente sopravvalutato. Snobbato dalla critica invece un ottimo e preciso Fiennes; la Dench – bravissima, per carità - esce mezza volta e si becca un Oscar. (7)

Interessante esempio di thriller psicologico dal piovoso Regno Unito. Il linguaggio delle chat, i pericoli della rete, la paura del terrorismo nei primissimi anni duemila. Identità in frantumi e giochi di potere, in una storia di morte e amicizia anche un po' prevedibile, ma coinvolgente e frenetica. Scenari umidi, trama che mischia dramma umano e giallo, rapporti strani per adolescenti strani. Spiccano i due bravi protagonisti, non ancora noti all'epoca. Un bruttino e gracile Toby Regbo (Reign), uno sfrontato e sicuro Jamie Blackley (Resta anche domani). Tra Disconnect e Diario di uno scandalo, una pericolosa e affascinante storia vera. (6,5)




Piacevole tragicommedia su un tipo burbero e scontroso convinto di avere novanta minuti di vita a disposizione. Sarà il suo vero destino o un errore del medico curante? L'uomo più arrabbiato di Brooklyn, come il titolo dice, ha tanti errori da farsi perdonare, tanta gente da salutare. Lungo il tragitto, in tempo reale, una giovane dottoressa addolorata per il suicidio del suo imprevedibile gatto, un figlio che ha deciso di aprire una scuola di danza, una moglie distantissima, un "piccolissimo" fratello minore. Non avrà l'originalità dalla sua, ma il cast è ottimo. Bravissimi Williams e la Kunis, altrettanto i comprimari. Melissa Leo, Peter Dinklage da Games of thrones, Hamish Linklater - visto già accanto al protagonista in The Crazy Ones. La morale è la solita, lo sviluppo non è dei più imprevedibili. Ma fa sorridere, emoziona. Vivi ogni giorno come fosse l'ultimo, e così sia. (6)


Che film carino. Molto estivo. Commedia musicale sconosciuta, diretta dal sempre bravo David MacKenzie (Follia, Perfect Sense). Le atmosfere di un concertone all'aperto, belle voci, belle facce, qualche risata. Due musicisti di band rivali, in una notte surreale e movimentata, si trovano ammanettati insieme per capriccio di un misterioso passante. Spalla a spalla, mano nella mano, hanno una manciata di ore, l'arrivo dell'alba, una chitarra e un ritornello da intonare per conoscersi meglio. E scoprire di piacersi. E mandiare al diavolo i loro attuali compagni. Romanticismo e rock 'n roll, una super colonna sonora. Il mash-up con la Tainded Love di Marilyn Manson - ok, la sua era una cover, ma è l'unica che ricordo - che è già un mio personale must. (6+)


Paulette è una nonnina dolce e gentile che vive all'ombra del Louvre, in una Parigi piena di farfalle e fiorellini colorati. No, scherzo! E' una vedova sarcastica e stronza, che – in una Francia piegata in due dalla crisi economica – si muove per le strade di periferia come una barbona senza identità. Vivere con lei non è facile e sopportarla ancora meno. Finché comincia a farsi bella, a comprare oggetti al di fuori della sua portata, a riempire la sua famiglia di regali. Ha messo su una fiorente attività: fa la spacciatrice. Paulette è un Come ti spaccio la famiglia della terza età. Un incrocio tra L'erba di Grace e Chocolat. I suoi punti di forza sono una trama che mescola attualità e farsa e, soprattutto, una protagonista straordinaria: la settantaquattrenne Bernadette Lafont. Paulette è stato il suo ultimo film: si è spenta, purtroppo, nel luglio dell'anno scorso. Quella vecchina bisbetica, crudele e simpaticissima che ho appena scoperto mi mancherà un mondo. Divertitevi, guardatelo e – ci scommetto – mancherà prestissimo anche a voi. (6,5)

Ammetto le mie colpe: NON ho mai visto OldBoy. Dieci anni dopo, il remake: massacrato pubblicamente. Non avere un criterio di paragone mi aiuta: ho scoperto questa storia crudele sequenza dopo sequenza e, nell'epilogo, sono stato colpito allo stomaco da un atroce colpo di scena. Tanto bello, tanto cupo, tanto estremo da far stare male. Deve tutto all'inventiva del film originale, non lo metto in dubbio, ma è solo grazie a Lee se vedrò quel film che non conoscevo. Il suo è un action movie classico, elegante, caratterizzato da un voyeurismo malato e condannato da un intreccio machiavellico a un finale da tragedia. Mostra un coriaceo e generoso Brolin armato di martello, come il suo collega orientale, impegnato in un combattimento reso con un maestoso piano sequenza e in una scena di sesso vista da mille telecamere e da due occhi diabolici. Con lui, una Elizabeth Olsen delicata e innocente. (7) 

E' brutto. E' sporco. E' cattivo. E' Machete, ed è tornato al cinema. Che bisogno c'era? Questo Machete Kills, per quanto simpatico, violento ed eccessivo, scoccia. Una stanca copia del primo, poco ispirata e poco necessaria, innaffiata da sangue a fiumi, belle pupe e sparatorie alla Rambo. Danny Trejo – 69 anni! - è un gran simpaticone. Il cast è grande e variegato e, tra comprimari e semplici comparse, si avvale di attori di tutto rispetto. Soprattutto, si avvale di attrici... be', non proprio di tutto rispetto dal punto di vista attoriale, ma che, più scollate e trasgressive, più crudeli e letali, fanno un baffo a quelle bellone imbalsamate delle Bond Girl. Rodriguez usa e getta tante belle fanciulle, facendo di alcune fugaci comparse e di altre coprotagoniste, tanto belle, quanto stupide. Ma lui e il suo Machete ci piacciono perché sono così: poco galanti, maschilisti, rozzi, fisici e poco brillanti. (4)