Non
pensavo. Non lo aspettavo. Non ne sentivo neanche il bisogno. Invece
The Giver è un film bellino, molto. Io
avevo i miei dubbi, sapete? Pensavo che dopo Hunger Games e
Divergent, altra distopia al cinema non fosse cosa buona.
Pensavo che un libro scritto ventuno anni fa e arrivato in ritardo
alla festa non avesse niente da dire. I cambiamenti dovevano esserci,
e mi auguravo fossero migliorie, non stravolgimenti. Me lo auguravo,
ma temevo segretamente il contrario. Un'operazione commerciale per
dare un'aria alla moda allo stile esile e alle ambientazioni
minimaliste della riflessiva Lois Lowry. Protagonisti più fighi e
svegli, il grande amore ostacolato, un paio di nomi grossi per
richiamare il pubblico curioso in sala. Fate, dunque, come me:
guardatelo convinti che sia un'altra storia. Così non vi lamenterete per quello che sembrerà diverso e, col sorriso, vi meraviglierete
per quello che sarà identico. Altrettanto delicato, emozionante, di cuore. The Giver ha una bell'anima: è puro. Privo di
furberie e di sovrastrutture, ha la stessa semplicità del romanzo di formazione della Lowry. Da esso prende le
poche controversie, il viaggio e, soprattutto, il segreto della
quiete. Le differenze rispetto al gemello cartaceo ci sono, ma
state attenti: non sono poi tante. C'è il giusto, e ci sono i giusti
cambiamenti. Un protagonista adolescente, ad esempio, che scopre
l'amore, ma senza perdersi negli eccessi zuccherosi dei film per
ragazzi. Sarebbe stato insensato, contro natura: rendere il
protagonista sedicenne e privarlo del primo amore. Tra lui e la sua
amica Fiona, un bacio a fior di labbra e basta. In esso c'è la
curiosità scoperta da zero, la pulsione che apre un intero passaggio
nascosto. Brenton Thwaites è un Jonas cresciuto, ma che mostra meno
dei suoi venticinque anni: ingenuo, fanciullesco, comune. Guarda il suo mondo
passare dal bianco e nero ai colori e, sotto il suo sguardo, si
potenziano quei personaggi secondari che nel libro andavano e
venivano. Lo stesso Donatore, interpretato da un buon Bridges, che
vive con lo spettro di una ragazza dal nome indicibile che ha la
dolcezza di Taylor Swift; gli amici di sempre, tra cui c'è un
Cameron Monaghan che lontano dal set di Shameless non fa però mai
faville; l'algida e inquietante Meryl Streep, sinonimo di rigore e
maestria. I novanta minuti complessivi sono una fortuna. Lievissimi,
non pesano, ma regalano elementi che anche a livello visivo
intrigheranno. Non parlo di spettacolarità – quella è dosata in
piccole dosi – ma del buon gusto di cui Philippe Noyce si mostra
capace. Letto come passaggio
dall'adolescenza all'età adulta, il viaggio finale del protagonista
ha molto più senso. Ha un
perché, uno scopo che libera la pellicola anche dalle esigenze di un
sequel forzato. Un'aggiunta, un complemento di fine, ma aperto a un
epilogo che è precisa e curata trasposizione del romanzo. La neve,
il salto, un ragazzino che stringe in braccio l'avvenire. Fa facce
buffe per farlo ridere, gli fa da papà, gli dice che lo ama, mentre
un brivido scende tra le nostre scapole e la tenerezza vince. Un film
che non si vende all'ovvio, ma che si difende bene dalla concorrenza.
A testa bassa, emotivo, eppure coerente con se stesso. Si
difende, anche se contrappone una margherita a un'arma. Uno dei
rari prodotti per tutta la famiglia, per bambini intelligenti o
adulti che penseranno vagamente a Pleasantville, The Truman Show,
Equilibrium. Uno scrigno di belle cose – foto d'epoca, ricordi,
storia - da maneggiare con cura. Un documentario tutto sfumature su
un'umanità che non dobbiamo lasciare che ci sfugga. (7)




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