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domenica 14 settembre 2014

Mr Ciak #43: The Giver, Walking on sunshine, Xavier Dolan e un po' di altre cose (recuperate, riviste, in giacenza²)


Non pensavo. Non lo aspettavo. Non ne sentivo neanche il bisogno. Invece The Giver è un film bellino, molto. Io avevo i miei dubbi, sapete? Pensavo che dopo Hunger Games e Divergent, altra distopia al cinema non fosse cosa buona. Pensavo che un libro scritto ventuno anni fa e arrivato in ritardo alla festa non avesse niente da dire. I cambiamenti dovevano esserci, e mi auguravo fossero migliorie, non stravolgimenti. Me lo auguravo, ma temevo segretamente il contrario. Un'operazione commerciale per dare un'aria alla moda allo stile esile e alle ambientazioni minimaliste della riflessiva Lois Lowry. Protagonisti più fighi e svegli, il grande amore ostacolato, un paio di nomi grossi per richiamare il pubblico curioso in sala. Fate, dunque, come me: guardatelo convinti che sia un'altra storia. Così non vi lamenterete per quello che sembrerà diverso e, col sorriso, vi meraviglierete per quello che sarà identico. Altrettanto delicato, emozionante, di cuore. The Giver ha una bell'anima: è puro. Privo di furberie e di sovrastrutture, ha la stessa semplicità del romanzo di formazione della Lowry. Da esso prende le poche controversie, il viaggio e, soprattutto, il segreto della quiete. Le differenze rispetto al gemello cartaceo ci sono, ma state attenti: non sono poi tante. C'è il giusto, e ci sono i giusti cambiamenti. Un protagonista adolescente, ad esempio, che scopre l'amore, ma senza perdersi negli eccessi zuccherosi dei film per ragazzi. Sarebbe stato insensato, contro natura: rendere il protagonista sedicenne e privarlo del primo amore. Tra lui e la sua amica Fiona, un bacio a fior di labbra e basta. In esso c'è la curiosità scoperta da zero, la pulsione che apre un intero passaggio nascosto. Brenton Thwaites è un Jonas cresciuto, ma che mostra meno dei suoi venticinque anni: ingenuo, fanciullesco, comune. Guarda il suo mondo passare dal bianco e nero ai colori e, sotto il suo sguardo, si potenziano quei personaggi secondari che nel libro andavano e venivano. Lo stesso Donatore, interpretato da un buon Bridges, che vive con lo spettro di una ragazza dal nome indicibile che ha la dolcezza di Taylor Swift; gli amici di sempre, tra cui c'è un Cameron Monaghan che lontano dal set di Shameless non fa però mai faville; l'algida e inquietante Meryl Streep, sinonimo di rigore e maestria. I novanta minuti complessivi sono una fortuna. Lievissimi, non pesano, ma regalano elementi che anche a livello visivo intrigheranno. Non parlo di spettacolarità – quella è dosata in piccole dosi – ma del buon gusto di cui Philippe Noyce si mostra capace. Letto come passaggio dall'adolescenza all'età adulta, il viaggio finale del protagonista ha molto più senso. Ha un perché, uno scopo che libera la pellicola anche dalle esigenze di un sequel forzato. Un'aggiunta, un complemento di fine, ma aperto a un epilogo che è precisa e curata trasposizione del romanzo. La neve, il salto, un ragazzino che stringe in braccio l'avvenire. Fa facce buffe per farlo ridere, gli fa da papà, gli dice che lo ama, mentre un brivido scende tra le nostre scapole e la tenerezza vince. Un film che non si vende all'ovvio, ma che si difende bene dalla concorrenza. A testa bassa, emotivo, eppure coerente con se stesso. Si difende, anche se contrappone una margherita a un'arma. Uno dei rari prodotti per tutta la famiglia, per bambini intelligenti o adulti che penseranno vagamente a Pleasantville, The Truman Show, Equilibrium. Uno scrigno di belle cose – foto d'epoca, ricordi, storia - da maneggiare con cura. Un documentario tutto sfumature su un'umanità che non dobbiamo lasciare che ci sfugga. (7)

Una coppia di coniugi di mezza età, la cui passione giovanile si è raffreddata con l'avvento del matrimonio e dei figli, in cerca di stimoli, in una notte di libertà assoluta, decide di firmarsi con il tecnologico iPad di lui, mentre – snodati e un po' goffi – per tre ore mettono in pratica tutte le astruse posizioni del Kamasutra. Il video, per via di una app di ultima generazione, rimbalzerà sui computer dei loro più cari amici e dei loro datori di lavoro. Avranno un giorno e una notte per sistemare tutto, prima che le loro facce – e i loro sederi, e il resto... – finiscano su Youporn, per la soffiata di un anonimo e imprevedibile aguzzino. Neanche a farlo apposta, poco dopo lo scandalo bollente delle foto rubate a Jennifer Lawrence e compagnia bella, al cinema arriva Sex Tape – Finiti in rete. Una trascurabile commedia sexy, divertente solo a tratti, che ha due bravi attori e, in platea, un pubblico in cerca di cosette da poco. Dopo un inizio volgarotto - simpatico forse per quello? - il film segue le scie di pellicole come Notte folle a Manhattan e lì si stabilizza, all'insegna di una comicità tipica e tipicamente americana. Mitico Jack Black, in un cameo tutto da ridere, e autoironico Rob Lowe, che scherza coi suoi passati problemi legati alla droga e a un video amatoriale che fece scandalo negli anni '90. Meglio di Tutte contro lui, peggio di Bad Teacher. Comunque mediocre. La più lunga e smaccata pubblicità Apple mai realizzata, con una Cameron Diaz in gran forma per cui gli anni – e le visite dal chirurgo plastico - non passano. (4,5)

Un viaggio in Italia che si scopre una festa di nozze. Ma non quella dell'introversa Taylor, che assiste a rimpatriate tra chiassosi amici e ai preparativi in grande della seducente sorella Maddie, che le ha soffiato il ragazzo di cui lei è stata innamorata. Walking on sunshine, che ha il titolo di una famosa canzone, è un contenitore di famose canzoni. Una foto patinata di una Puglia che fa sinceramente invidia per quant'è calorosa e accogliente. Per il resto? Una classica e prevedibile commedia rosa che una trascinante colonna sonora tutta anni '80, sfiziosi e caserecci inserti musicali, begli scorci della nostra bella Italia rendono godibile, anche se tutt'altro che indispensabile. Piacevole, estiva, un po' fai da te. Nessun lampo di genio, nessuna cover degna di particolare nota, né coreografie alla Rob Marshall. Le damigelle cantano Girls just want to have fun, i testimoni Wild Boys. Saltellano, si tufanno, sbagliano i passi e hanno tutta l'aria di divertirsi. Il pensiero corre costantamente a Mamma Mia!, che già al cinema non era un musical con la lettera maiuscola di suo, e nel modesto cast spiccano la Leona Lewis un tempo così promettente, la sorellina bionda di Gemma Arterton e soprattutto il “bello de casa”, Giulio Berruti: aitante, coi piedi leggeri e anche canterino, si farà notare anche dagli inglesi... e dalle inglesi. Guardate Walking on sunshine con altra gente, in conclusione: potrebbero partire, durante la visione, spontanei e stonati effetti karaoke tutti da ridere. Inevitabile la cosa, quando tirano in ballo Shocking Blue, Wham, The Human League, George Michael. (5,5)

In secret è la storia di una creatura tutto istinto. Un'orfana curiosa e ribelle che diventa una giovane donna curiosa e ribelle, all'alba di un improvviso trasferimento nella caliginosa capitale francese e di un matrimonio combinato con l'inetto cugino, per volere di una zia premurosa e onnipresente, destinata a diventare anche sua suocera. Una scialba vita di coppia a tre, in una sartoria modesta. Finché Thèrese non conosce un pittore, una creatura selvatica come lei, e l'amore molesto li condurrà alla via che porta all'omicidio. Cupo e oscuro noir in costume, su eroine tragiche, amori folli, delitti imperfetti e castighi esemplari. La fotografia, caliginosa e grigiastra, ma bellissima, ritrae una Parigi inedita che sembra una cartolina della Londra vittoriana che più mi piace. Diretto con classe, è tratto dal controverso romanzo di Zola. La Thèrese Raquin della delicata e brava Elizabeth Olsen è un personaggio complesso, umano e detestabile insieme, al centro di un vortice di insoddisfazione, erotismo, corruzione. Accanto a lei, un malaticcio e irriconoscibile Tom Felton (lo ricordate in Harry Potter, no?) e una Jessica Lange teatrale, superba, in una forma - al solito - smagliante. Un film acquoso, algido, languido e profondamente decadente. Nell'anima. Un melò dall'aria dark, con un cast credibilissimo e gli spettri deformi di una romantica ghost story. (6,5)

Questo film l'ho guardo tante volte. Eppure è la prima volta, in due anni, che trovo l'occasione giusta per mettermi al computer e raccontarvelo. L'occasione non giusta, ma quella sbagliata. Nei mesi scorsi, sul web, è circolata una notizia che non avrà colpito molti lettori, soprattutto qui in Italia. Ned Vizzini si è tolto la vita. Era uno scrittore e un aspirante suicida da tempo. Pur non avendo avuto un legame di alcun tipo con i suoi libri, la notizia mi ha stordito. In realtà, indirettamente, avevo conosciuto Ned e, più volte, ero stato in sua compagnia. Era da un suo romanzo che era stato tratto It's a King of Funny Story. Tradotto letteralmente, il titolo annuncia che quella che si vedrà è “una sorta di storia divertente”. Cosa bizzarra, cosa ironica. La finzione e la realta erano un unicum. Il protagonista, il problematico Craig, era il reale Ned. Un sedicenne che si sente senza aria, senza libertà, senza senso. La storia vuole che riesca a trovare il respiro nel reparto psichiatrico di un ospedale: in mezzo alle tragicomiche vite degli altri. Accanto ai dolori della gente comune, accanto ai drammi della mente umana – grandioso Zach Galifianakis, adorabile Emma Roberts – aveva capito che nulla erano le sue pene in confronto a quelle degli adulti. E aveva ballato e cantato Under Preassure, riso e pianto, amato e infranto cuori. Un film profondo e profondamente vitale. Uno young adult con un brutto anatroccolo come protagonista che, tuttavia, sapeva diventare quello che non aveva mai avuto il coraggio di essere, portando il suo strano mondo fuori. Io immagino Ned con lo stesso viso comune del bravo Keri Gilchrist, con i suoi stessi capelli lisci e senza forma e con il suo guardo acuto. Aveva saputo esorcizzare i suoi fantasmi, portarli alla luce del sole e combatterli armato di carta e penna, eppure a volte il passato non vuole andare via. E' tornato a galla e, in un giorno di Dicembre, poco prima di Natale, l'ha risucchiato con sé, in un abisso in cui il sofferente Ned vedeva chissà cosa. Vedete It's a King of Funny Story per sorridere ed emozionarvi in compagnia di un adolescente che non molti film tollererebbero, forse. Vedetelo, adesso, anche in memoria di Ned, magari. Per sentirvi invadere da quella serenità che lui ha trovato solo ora, nel modo più estremo. (7)

Che tipo che è, Xaviel Dolan. Io, a vent'anni, sto qui a studiacchiare invano e più che altro a grattarmi, mentre lui – classe 1989 – è già un nome di punta nel mondo elitario del cinema d'autore. Dichiaratamente omosessuale, propone e ripropone tematiche quali amore, desiderio e sessualità in ogni sua pellicola e i risultati, audaci e brillanti, assurdi e vagamente geniali, stordiscono, ma piacciono. Attenzione smodata alla forma, all'accostamento dei colori e delle musiche, alla composizione e alla scomposizione dello spazio filmico. Anarchia visiva. Io, che non sono dotato di palato fine, concludo i suoi film mai del tutto appagato, ma affascinato. Li ho visti alla rinfusa. Tom à la ferme, il più recente, è una bestia strana. Lento, spoglio, teso - inquieta. E' un curioso noir, tra campi di grano e funerali, sulle tentazioni e i cattivi pensieri che la solitudine fa fare. Il protagonista, lo stesso Dolan, va in campagna, al funerale del ragazzo che è stato il suo compagno. La famiglia non conosce la sua esistenza e il fratello del defunto, misterioso e violento, è disposto a tutto pur di chiudere la bocca a Tom: la madre, affranta, non deve sapere. Fuori posto, in mezzo alle bugie e a tutto quel dolore assordante, tra vento sferzante e lettere d'addio, si avvicina pericolosamente a quella famiglia. Cupo e ambiguo, taciturno e incompleto, ma incredibilmente ben musicato,Tom à la ferme – grande nell'arte del disorientare – non dice e mostra episodi grotteschi, tragici, crudi. La tensione è onnipresente, i toni non sono i soliti, il rapporto tra i mancati cognati trema, per il pericolo e la passione negata. Quello Xavier Dolan dai capelli ossigenati potrebbe perire sotto gli sguardi dell'altro uomo, che lo invita a ballare il tango in un fienile e a tenere, a forza, la bocca serrata. Il film, il più nelle mie corde della sua cinematografia, risulta carismatico, ma dispersivo. Riesce e non. La trama, che fa tanto thriller anni '90, è meno delineata di quanto abbia fatto io, parlandone. Si mantiene oscura e vaga, e questo è unico. La sensazione che non porti da nessuna parte e che dietro i campi e le spighe gialle ci sia una strada senza uscita, cosa affascinante lo è pure; solo, non totalmente... bella. (6,5)

Più alla Almodovar, invece, il brillante Les Amours Imaginaires: una “mina vagante”. Avevo dato una sbirciata per curiosità, questa volta, tutt'altro che convinto; invece, dialoghi pepati e con un ritmo concitato di denti che battono, lingue che schioccano, bocche che si inumidiscono mi ha incatenato in poltrona. Sono un grande estimatore delle chiacchiere di classe e, più loquace del “mio primo” Dolan, Les Amours mi è piaciuto di più. Colori accesi, una struttura precisa e intelligente, un triangolo amoroso che strappa sorrisi. Il regista si ritaglia il ruolo dell'insicuro e bisognoso Francis che, insiema all'amica Marie, cade vittima della bellezza da statua neoclassica del biondissimo Nicolas – che forse è gay, forse è etero, forse è bisex, forse non si sa. Amici intimi, gran chiacchieroni e registi di clamorosi film mentali, Francis e Marie entrano nella vita di Francis e lasciano che Francis entri nella loro. Come vediamo la persona amata, e come ci vede lei? E ci ama? Siamo sicuri? Dolan riflette sugli amori che non saranno: irrimediabilmente immaginari, irrisolti. Lo fa con lo sguardo spaesante e atipico che gli è proprio. Portandoci a vedere i battiti del cuore dei protagonisti con i loro stessi occhi pieni di desiderio. Marie, che indossa abiti da casalinga disperata anni '50, e Francis, che si pettina come James Dean e si tocca cercando odori in un maglione arancio. La rivalità tra i due – mentre l'amore diventa un campo di battaglia – è scandita dall'entrata in scena della nostra Bang Bang che fa da colonna sonora a immagini al rallentatore di piani criminal-sentimentali. Con la macchina da presa Dolan fa quel che vuole e lo schermo, morbido come pasta di pane, si trasforma per suo volere, sotto le pressioni di un tocco riconoscibilissimo e deciso. Dipinge, crea, inonda di scritte e colori fluo. Taglia, cuce, evidenzia. Lui è il punto di partenza del suo cinema. Il segreto: simpatica sfrontatezza, ipnotica caoticità, figure pazze e isteria assai bene accetta. (7,5)

lunedì 25 agosto 2014

Recensioni a basso costo: The Giver - Il donatore, di Lois Lowry

Buon lunedì, amici. Oggi, la recensione di un romanzo che, velocemente, ho letto nel weekend. In wishlist da un po', ho voluto recuperarlo prima che – a settembre – arrivi al cinema il film, che sarà intitolato The Giver – Il mondo di Jonas. Prima di lamentarvi, sappiate che quello era il titolo originario dell'edizione italiana, al tempo degli Oscar Mondadori! Io so tutto, ebbene sì! Il libro, come tanti prima di me avranno detto, merita, ma il film, che ha sette di media e commenti positivi, mi lascia ben sperare. E' tutto diverso – i protagonisti sono più adulti, si respira un'aria di fantascienza qui assente, ci sono gli effetti speciali e gli intrighi da thriller – ma il cinema ha un altro linguaggio, e riportare scolasticamente quello della Lowry, così semplice e fiabesco, non avrebbe funzionato molto. Pare, tra l'altro, che sia in uscita anche una ristampa del romanzo, con la solita cover del film (qui), anche se le informazioni sono scarse, al momento. 
Tu hai i colori. E il coraggio
Io ti aiuterò dandoti la forza.

Titolo: The Giver – Il donatore
Autrice: Lois Lowry
Editore: Giunti Y
Numero di pagine: 256
Prezzo: € 9,90
Sinossi: Jonas ha dodici anni e vive in un mondo perfetto. Nella sua Comunità non esistono più guerre, differenze sociali o sofferenze. Tutto quello che può causare dolore o disturbo è stato abolito, compresi gli impulsi sessuali, le stagioni e i colori. Le regole da rispettare sono ferree ma tutti i membri della Comunità si adeguano al modello di controllo governativo che non lascia spazio a scelte o profondità emotive, ma neppure a incertezze o rischi. Ogni unità familiare è formata da un uomo e una donna a cui vengono assegnati un figlio maschio e una femmina. Ogni membro della Comunità svolge la professione che gli viene affidata dal Consiglio degli Anziani nella Cerimonia annuale di dicembre. E per Jonas quel momento sta arrivando...
                                      La recensione
Nel mondo di Jonas non c'è nulla che non vada; niente che sia lasciato al caso. Non esistono disparità sociali, razze differenti, guerre, divorzi: regna l'Uniformità. Non si hanno motivi per cui lottare o ribellarsi. Puri, anestetizzati, sognanti, si vive in un futuristico Eden che l'antico peccato di Adamo ed Eva non ci ha strappato del tutto dalle mani. Le famiglie hanno due figli a testa: un maschio e una femmina, a cui altri assegnano il nome. Non esistono gemelli, non esistono individui con lo stesso nome di battesimo. Si è unici. I neonati, partoriti da donne ai margini e assegnati secondo piani precisissimi, sono concepiti senza fare l'amore. I bambini, divisi per età, aspettano per tutto il tempo il sopraggiungere dei dodici anni: allora, piccoli ma già adulti, conosceranno lo scopo della loro esistenza. Anno per anno, una festosa celebrazione pubblica regala piccole soddisfazioni, e li ringrazia per la loro preziosa infanzia. Man mano che crescono, permette loro di tagliare i capelli, di indossare una divisa coi bottoni sul davanti, di inforcare una bicicletta e giocare, di avere un fratellino o una sorellina con cui crescere. Jonas è il ragazzino perfetto nella famiglia perfetta: non ha segreti. Deve raccontare a tavola le sue emozioni, le sue paure, i suoi sogni... perfino quando, una notte, emozionato, sogna di fare il bagno tutto nudo con l'amica di sempre, Fiona. Il  desiderio lì ha un altro nome: Impulso. Ma niente paura: gli ormoni, i turbamenti, il calore nel petto si curano ingoiando un'innocua pillola giornaliera. Gli effetti collaterali – non detti – sono che ammazza l'amore: e che cos'è l'amore, tanto? Jonas impara quella e altre parole - “neve”, “sole”, “collina”, “gioia”; ma anche “guerra”, “abbandono”, “morte” - nel suo duro apprendistato presso il Donatore: un uomo vecchio e saggio, che gli regala millenni di ricordi passati. Per non dimenticare e non commettere gli stessi, crudeli errori. Il suo destino, da grande, sarà essere un contenitore di memorie: una biblioteca vivente, con libri fragili e impalpabili che nessuno può consultare. Ci sono cose che nessuno, a parte lui, dovrà sapere. Egoista, potrà serbare per lui la sensazione del gelo sulla punta del naso o sui polpastrelli sensibili. In silenzio, solo, potrà essere tormentato da rivelazioni che, com'è successo a una fanciulla di cui nessuno pronuncia più il nome, potrebbero spezzargli il cuore o, peggio, farlo morire dentro. The Giver è un romanzo stampato e ristampato, sotto altri nomi e altre vesti grafiche. Probabilmente, tanti ricollegheranno il titolo a un film di prossima uscita, con un cast in cui spiccano mostri sacri di Hollywood (la mia amata Meryl Streep; Jeff Bridges) e volti giovani e nuovi. Io, pur consapevole degli scandali e dei tagli, delle manomissioni della censura e delle controversie più disparate, mi ci sono avvicinato tardi, complice, al solito, l'uscita della trasposizione cinematografica che, per ragioni pienamente condivisibili, presenterà non poche differenze. Necessario, infatti, rinnovare un romanzo che invecchia indubbiamente bene, ma che porta i segni dell'età.
Mi avrebbe dato fastidio guardare il film senza sapere cosa c'era prima; il resto: l'approccio delicato e lieve di Lois Lowry, il colore degli occhi del Jonas che da vent'anni vive tra le pagine, le fattezze di un mondo distopico, forse, direttamente successivo a quello di Orwell e Bradbury. The Givery c'era prima, semplicemente. Prima che le mode spingessero esordienti di ogni dove a cimentarsi con il genere, e quando alcuni argomenti, esplosivi, non potevano essere trattati. Non in un libro per bambini. Non potrei definirlo diversamente, pur volendo: il primo volume di questa fortunata tetralogia, spacciato per young adult alla moda, per quello che non è, è pensato come un libro per l'infanzia. Una lettura che è un rito d'iniziazione, un'agrodolce perdita dell'innocenza. Una narrazione dai tempi stringati, vicina alla dimensione del racconto per via dei suoi capitoli brevi e delle strutture sintattiche quasi elementari, che – tirandoti per il bavero della giacca – ti porta in basso, alla sua altezza. 
Per duecento pagine, ti ritrovi alto (o basso) come quando avevi dodici anni: alcune cose non le vedevi, certo, ma ne vedevi altre. Il romanzo, tra colpi di scena e brividi, è una riflessione dal sapore etico, incorniciata per bene in una prospettiva originale e vagamente spiazzante. L'unico problema del romanzo, ai nostri giorni, è trovarsi in presenza di un pubblico smaliziato, ormai assuefatto. Niente sembra nuovo, anche se il romanzo è attuale, bello, aperto a tante diverse interpretazioni e tutte giuste; il finale, frettoloso, è una pecca, anche se la sua totale incertezza lascia in pace con se stessi...
L'importanza delle dissonanze, il terrore della perfezione, perfino l'eco del nazismo. Il mio consiglio, quindi, è quello di leggerlo guardando alla linea del tempo; con il senso della prospettiva storica: uscito nel 1993, quando io non ero ancora nato, ha rappresentato il punto di partenza per saghe valide come quella di Matched, Divergent, Delirium. La Lowry, oggi anziana, è un'autrice che ha fatto scuola. Nel modo più velato possibile in cui si possa essere onesti con un bimbo ormai sulla soglia dell'adolescenza, in uno scenario da leggenda che inquieta, lei parla – tra le righe e non – di infanticidio, razzismo, fanatismo, eutanasia. Dove dovresti inziare a vedere il marcio, però, il mondo si riempie inaspettatamente di colore. E che cos'è il colore, chiederebbe un membro qualsiasi della Comunità? Quello che, da bianco e nero, fa diventare quel mondo cupo in Technicolor. Solo allora, alla luce spietata della conoscenza, vedi i pregi e i difetti; prima, a causa di quel basilare contrasto, tutto si limitava ad essere pura ombra. La verità rende liberi e, spesso, è necessario scappare via, per esserlo; quando nessuno ti è amico, i neonati difettosi hanno bisogno di una seconda opportunità, una casa non è una casa.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: OneRepublic – Ordinary Human ("The Giver" Soundtrack)