mercoledì 24 aprile 2024

Recensione: L'ultimo mago, di Francesca Diotallevi

| L'ultimo mago, di Francesca Diotallevi. Neri Pozza, € 18, pp. 240 |

Tutte le storie d'amore infelici sono storie di fantasmi. Lo sa bene Francesca Diotallevi che, giunta al quinto romanzo, chiama un medium d'eccezione per far dialogare due innamorati separati dalle circostanze: Gustavo Rol. Benché morto trent'anni fa, il sensitivo resta un enigma in una città già piena di enigmi: Torino. Per alcuni santo, per altri ciarlatano, nel suo appartamento al quarto piano di Via Pellico chiamava la crème de la crème – Fellini, Einstein, Kennedy – a testimoniare i suoi prodigi. Sapeva realmente mutare il seme delle carte? Fu interpellato dal Duce in persona per presagire la caduta del Fascismo? Quando dipingeva, a guidargli la mano era il defunto Monet? Coltivò il suo talento, pare, con l'aiuto di uno sconosciuto incontrato a Marsiglia. E per tutta la vita si difese dagli scettici parlando non di fantasmi, ma di spiriti intelligenti; non di sedute spiritiche, ma esperimenti. Affascinata dai personaggi nell'ombra, l'autrice – che proprio qualche anno fa pubblicò una biografia romanzata su Vivian Maier, fotografa lontana dai flash – ci conduce nei luoghi di Rol. Torino, mai stata così bella, fa da sfondo a un noir dell'anima che ho amato figurarmi in bianco e nero. È lì, abbigliato come Bogart, che si muove il vero protagonista del romanzo: l'immaginario Nino Giacosa è un ex prigioniero di guerra assillato dai creditori e ossessionato dalle chimere di Cinecittà.

Ci sono le storie che raccontiamo agli altri, e poi ci sono quelle con cui convinciamo noi stessi. A volte accade che le due versioni coincidano, ma non era quello il caso.

Tra le nebbie del capoluogo piemontese, infatti, cerca una storia da trasformare in una sceneggiatura di successo. Tormentato dai pensieri suicidi sulle rive del Po, non sa che ne vivrà una. È Miriam, vecchia fiamma andata in moglie al migliore amico, a condurlo al cospetto di Rol. Nino, avido, vorrebbe smascherarlo. Cambierà idea davanti a un uomo controverso ma segretamente fragile, logorato dalla solitudine degli incompresi? Con la sua penna notoriamente sopraffina, Diotallevi torna ai contesti storici particolareggiati, ai personaggi realmente esistiti, agli amori interrotti – questa volta il pensiero corre al triangolo di Beppe Fenoglio. Nell'impossibilità di comprendere appieno l'enigma Rol, tuttavia, raggira parzialmente l'ostacolo. Gustavo diventa un deus ex machina; un eccezionale caratterista che ruba la scena a un attore protagonista, per me, non irresistibile come spererebbe. Il magnifico avviene fuori scena. Molto viene rievocato, non mostrato. Indagato senza voyeurismo, Rol viene raccontato attraverso la prospettiva dei suoi fedelissimi. Volutamente, Diotallevi indugia sulla soglia e scrive in punta di penna un romanzo ben attento a non banalizzare il personaggio – la famiglia Rol può tirare un sospiro di sollievo –, ma in cui l'eccessiva accortezza verso la materia trattata mina il gusto per l'intrattenimento. Verisimile ma senza sorprese, l'intreccio è al servizio del magnetismo del personaggio. Nonostante qualche riserva verso l'esile cornice narrativa, L'ultimo mago non è un bluff. Diotallevi architetta un gioco di prestigio sul potere affabulatorio della parola, in cui l'arte della narrazione – come la magia, d'altronde, genera illusioni – pone maghi e scrittori sul medesimo piano. Su Gustavo Rol pende un velo. Disinteressato a squarciarlo, Diotallevi si concentra sulle pieghe più minute, i vedo-non vedo e le ombreggiature, come fece Giuseppe Sanmartino quando scolpì il Cristo velato. Denudare gli idoli: perché mai? L'arida verità: a chi basta?

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Jimmy Fontana – Il mondo

mercoledì 17 aprile 2024

Gli snobbati: Estranei | The Iron Claw | May December

È uscito il 29 febbraio. Estranei, rarissimo, somiglia al suo anno bisestile: è un paradosso spazio-temporale, un'eccezione alla regola, una seconda opportunità. L'ultimo Andrew Haigh non fornisce bussole. A guidarci abbiamo solo gli occhi di Andrew Scott: uno sceneggiatore che non ha mai elaborato l'incidente in cui sono morti i genitori, né un'omosessualità vissuta con spavento. Il suo vicino, Paul Mescal, appare invece più disinibito: figlio di un'altra generazione, preferisce definirsi “queer” e usa la sua fisicità come arma di seduzione. I protagonisti si leccano le ferite sulla soglia di un grattacielo vetrato fingendo che il mondo non sia loro precluso; credendosi irraggiungibili. Preferendo infine la vulnerabilità alla solitudine, uno straordinario Scott ci conduce nella casa in cui è cresciuto: per diventare un uomo vero ha bisogno di fare pace con il bambino che è stato; di dichiararsi ai genitori, anche se morti; di mettere il solito angelo in cima all'albero di Natale, anche se gli spettri di mamma e papà non riescono a essere sereni. Il protagonista inconsolabile, chiamato tuttavia a consolare i vivi e i morti, minimizza. Va tutto bene. È acqua passata. Ma intanto ho pianto mentre lui piangeva. L'illusione di ordine interiore è stata spezzata via dalla consapevolezza che alcune mancanze non soltanto restano, ma lasciano voragini che risucchiano tutto: anche l'amore? Alcuni nodi in gola non si sciolgono mai. Alcune lacrime non si asciugano. Sono destinate a seccarsi in faccia e sui cuscini, rendendo scomodissimo un letto da condividere. Non si smette mai di sentirsi orfani. Per fortuna si dividono le notti in bianco con Mescal: queste volta, misterioso come in Aftersun ma meno sfuggente, è disposto a farsi stringere dopo un giro di pista in discoteca. E gli abbracci che finalmente si chiudono ci risarciscono così dei cerchi rimasti a metà, dei nodi insoluti, delle solitudini non fugate, in un capolavoro sull'accettazione che, come un vampiro alla nostra porta, ci svuota per farci sentire più pieni. (9)

Quattro fratelli, educati all'eccellenza dal padre manager, vivono e muoiono di wrestling. Tratta da una vicenda talmente struggente da apparire a tratti frutto d'invenzione, l'epopea sportiva della famiglia Von Erich è una tragedia senza scampo che non romanticizza né i loro trionfi né le loro sciagure. Coperti da una corazza di muscoli, i protagonisti s'illudono che niente potrà colpirli: neanche la presunta maledizione che aveva già ucciso uno di loro, il primogenito, all'età di sei anni. In casa si cresce seguendo i dogmi della religione cattolica e della mascolinità tossica. Sul ring, così come in privato, è vietato piangere. Ogni talento, dalla musica alla pittura, va represso: esistono soltanto lo spirito di competizione e l'agonismo sfrenato. Ormai abituato a raccontarci grandi storie di prigionia fisica e psicologica, Sean Durkin ci mostra la vulnerabilità di quattro lottatori che si immaginavano, a torto, invulnerabili. Ne viene fuori un dramma asciutto, classico, solidamente vecchio stile, in cui Zac Efron è spinto al meglio e all'eccesso: The Iron Claw avrebbe meritato la nomination a Miglior Film ben più di altri candidati. Messo ai margini prima dal genitore ingombrante, poi da quei fratelli minori più intraprendenti e carismatici, Efron si rivela essere il cuore emotivo di una storia in cui non dovrebbe esserci spazio per l'emozione. Non è cosa da uomini tutti d'un pezzo. Per fortuna, The Iron Claw ci racconta anche di una virilità in evoluzione; di una famiglia patriarcale che, dalla crisi nera, uscirà inevitabilmente plasmata. Per fortuna, non sono un uomo tutto d'un pezzo. E nel finale, con mio fratello accanto, mi sono commosso senza vergogna. (8)

A quasi dieci anni da Carol, Todd Haynes torna alle grandi dive, alle relazioni scandalose, al fascino fumoso del melodramma. Benché passato questa volta in sordina, guadagna comunque una nomination agli Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale e spiazza con un gioco di specchi gustosamente metacinematografico ispirato a un caso di cronaca. Negli anni Novanta, un'insegnante stringe una relazione con un allievo tredicenne: dopo la galera, si sposano ed hanno tre figli, ormai in procinto di diplomarsi. Dall'esterno sembrano il ritratto della felicità. Ma dietro al loro amore, tutt'altro che sano, cosa si nasconde? Ficcanasa l'attrice indipendente Natalie Portman, come sempre leziosa e perfetta: chiamata a interpretare Julianne Moore, qui insolita femme fatale del Sud che sforna torte e maneggia fucili da caccia, minaccia di scoperchiare un vaso di Pandora per la gioia dei tabloid. A pagarne le conseguenze sarà soprattutto uno straordinario e laconico Charles Melton: bambino interrotto, adulto a metà, regala momenti di sincera commozione in un thriller, per il resto, troppo algido per conquistare tutti. Incerto negli intenti, vario nelle citazioni, May December è un elegante ibrido al femminile le cui dive, magnetiche, affascinano come le star della Hollywood degli anni d'oro. Nella società dell'immagine, siamo tutti voyeur. Ci ossessionano i retroscena, i biopic, i true crime. Ma la complessità dei fatti sfugge puntualmente, anche se allo specchio catturiamo i manierismi e il make-up dei soggetti studiati; anche se, nella passione simulata, l'eccitazione si confonde a volte con la finzione scenica. La verità vola via dalle mani, come una farfalla monarca. (7,5)

martedì 2 aprile 2024

Recensione: Day, di Michael Cunningham

| Day, di Michael Cunningham. € 22, pp. 320 |

Si può scrivere una saga familiare lunga un giorno? È la sfida di Michael Cunningham, autore premio Pulitzer di cui finora mi avevano scoraggiato, a torto, l'aria impegnata e i temi ostici. Suonerà dunque ingenuo il mio stupore ai fan della prima ora, ma tant'è: quanto è arguta, elegante, luminosa la sua scrittura? Con uno stile magistrale, accostabile a quello di Leavitt e Cameron, costruisce un dramma borghese in tre atti (mattina, pomeriggio, sera), ciascuno ambientato il cinque aprile di tre anni contigui. La lente di ingrandimento dell'entomologo Cunningham è puntata sulle dinamiche del microcosmo familiare Walker-Byrne. Sono progressisti: i bambini portano sia il cognome paterno che quello materno, proprio come i piccoli Vittoria e Leone sui social. Sono piacenti, privilegiati, bianchi: acquistano prodotti biologici al mercato e fantasticano di trasferirsi in campagna. Sono gay friendly: non soltanto vogliono sapere tutto delle vita sentimentale dello zio Robbie, da poco mollato dal fidanzato, ma sono un po' tutti innamorati di lui. È infatti Robbie, insegnante elementare senza particolare vocazione, a fare da cardine e paciere; è Robbie a raccogliere le confessioni della sorella Isabel, donna in carriera sull'orlo di una crisi di nervi, e del cognato Dan, ex rocker che, con risultati patetici, tenta di risalire sulla cresta dell'onda, nonostante la stempiatura incipiente e la pancetta da casalingo. Accoccolati nel medesimo nido anche i nipotini Nathan e Violet: l'uno irrequieto e ribelle davanti a una pubertà che fatica a palesarsi; l'altra sorprendentemente intuitiva, forse anche un po' maga, ma strizzata in un vestitino da principessa che ormai non le sta più

Robbie voleva disperatamente essere amato, il sistema più efficace, lo vede benissimo col senno di poi, per far sì che l'amore gli venisse quasi universalmente negato da tutti, all'infuori dei suoi familiari.

All'inizio siamo a Brooklyn, all'alba di una doppia crisi: Robbie sloggia, il Covid è alle porte. Poi, col mondo in lockdown e il protagonista irrimediabilmente bloccato in Islanda, li vediamo alle prese con “l'agghiacciante intimità” della convivenza forzata: connessi col mondo, disconnessi da loro stessi, si trincerano dietro gli smartphone o le cuffiette; le sirene delle ambulanze, intanto, coprono le liti abbozzate e le chiacchiere di circostanza. Il capitolo finale, invece, ce li svela al crepuscolo: lo scenario è bruscamente cambiato. Saranno riusciti a sopravvivere al presente? Dialogatissimo, Day contiene gli scambi di battute del miglior teatro di prosa e una sintesi dei nostri dispiaceri grandi e piccoli. Mai sopra le righe, non scade nel melodramma: ci sono le ipocondrie giornaliere, le quiete rivoluzioni, i traumi inevitabili delle famiglie ordinarie di ieri e di oggi. Perfino la crisi coniugale tra Isabel e Dan non conta piatti lanciati o recriminazioni: si sono semplicemente “lasciati sfuggire l'amore”, e l'amara consapevolezza pietrifica lei sulle scale e lui in sala prove. Con la speranza che i bambini, da proteggere, non subodorino già tensioni.

Isabel è imbarazzata dalla propria tristezza. È imbarazzata dall'imbarazzo per la propria tristezza, lei che può contare su amore e denaro. […] Si chiede se uno spleen decadente non possa, a suo odo, essere peggio di un'autentica, conclamata disperazione. Il che, come lei ben sa, è un interrogativo decadente da porsi.

L'autore riordina pensieri, parole, opere, omissioni attingendo a un lessico di straordinaria ricchezza. Ma, per il resto, senza intromettersi a gamba tesa, lascia questa famiglia al suo originario, ordinario caos. Ne verranno mai a capo, dopo aver superato continue prove di coraggio? La perfezione non esiste. Non esistono cieli tersi nello smog newyorkese. Quello in bella mostra in copertina, con tanto di simmetrica nuvoletta al centro, è un falso: potrebbe provenire dall'immaginario profilo Instagram che Robbie si diverte a gestire, plasmando dal nulla l'esistenza di un belloccio d'invenzione. I fake ci seducono. Sogniamo vite da film: anzi, da libro. Poi leggiamo romanzo come questo e, sorpresi, ci accorgiamo che niente è più incantevole di una quotidianità che si fa specchio della nostra. Anche qui, anche ora, possiamo riempire una macchina di giunchiglie e giacinti; andare a vedere il secondo gomitolo di spago più grande al mondo; trasferirci dentro il set di una fotografia. Mettendoci finalmente in posa, però, dall'altro lato dell'obiettivo. È il nostro momento. È il nostro giorno.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Gazzelle – Tutto qui

venerdì 29 marzo 2024

Recensione: La mia Ingeborg, di Tore Renberg

| La mia Ingeborg, di Tore Renberg. Fazi, € 18, pp. 180 |

In una vecchia casa di legno, in una Norvegia sferzata dal vento di un inverno perenne, un vecchio si racconta. Le assi di legno scricchiolano, ma le sue ossa stanche di più. Indolenzito, forse gravemente malato, si è forzato a tagliarsi la barba, a indossare camicia e pantaloni eleganti, a camuffare il sentore di alcol della bocca. Come il patriarca della famiglia Usher in un classico dell'horror di Edgar Allan Poe, braccato dai cani neri del sensi di colpa, dialoga con gli spettri del passato e attende ospiti con cui sgravarsi la coscienza: i suoi ragazzi sono ormai irriconoscibili, lontani. La verità li renderà finalmente liberi? O li rovinerà definitivamente? È una storia d'amore e morte, la sua. Una storia di ottusa resistenza al progresso, percepito alla stregua di una donna lasciva e provocante. Abbarbicato nella parte alta della valle, chiuso a qualsivoglia novità, in gioventù ha trasformato quel paesaggio di troll e altre leggende folkloristiche in un nido da proteggere. Con lui lo divideva l'amata Ingeborg: la donna, infermiera traboccante di vita e stimata da tutto il paese, amava le giornate di sole e i cespugli pieni di bacche.

Quando due persone si incontrano e cadono uno nelle braccia dell'altra, allora la terra trema e succedono cose meravigliose.

Il loro era un matrimonio appassionato, nonostante le diversità caratteriali, ma la donna si era improvvisamente incupita dopo la partenza della prole per l'università. Da quando non è più tornata da una passeggiata nella brughiera, tutto si è perso. Anche il rapporto con i figli biologici: il maschio remissivo e melenso; la femmina attivista e bisessuale. Per fortuna c'è Oddo, affetto da un grave ritardo intellettivo, che dorme nella stalla e cuce reti da pesca: cresciuto come un terzo figlio, è l'unica persona su cui Tollak riversa la poca tenerezza posseduta. Per fortuna c'è ancora e per sempre, nonostante tutto, Ingeborg: un fantasma seminudo nella camera da letto; il pupazzo di un ventriloquo, la cui voce risuona come la coscienza dello stesso protagonista. C'è qualcosa di marcio nel romanzo di Tore Renberg. Di marcio e attraente. Potentissimo e oscuro, fitto di segreti agghiaccianti, somiglia più a una confessione che a una rimpatriata familiare. Lo esemplifica ad arte la copertina italiana, in cui due sagome intrecciate in un tango della gelosia galleggiano su uno sfondo rosso passione; rosso sangue. La mia Ingeborg somiglia preoccupantemente a una delle tante notizie di cronaca, ma si legge con la fascinazione dei classici del gotico. Il protagonista, sfidando la lingua impastata dagli alcolici e la reticenza dei montanari, non vuole preti alla sua presenza. Non crede nello spauracchio del paradiso e, sibila acidamente, non ci crederà neanche nell'ora fatale. Tuona, così, contro la scomparsa delle segherie; le bugie dei giornali e della TV; i cellulari che ipnotizzano e rintronano i nipotini; gli sconvolgimenti climatici, i ristoranti etnici, gli uomini troppo effeminati. Con una voce simile a un coltello nelle costole, ci renderà tutti complici di un narratore magnetico ma irredento. Dirà tutta la verità, nient'altro che la verità. E mai in sua difesa.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: CCCP – Amandoti

lunedì 25 marzo 2024

Piccolo schermo, grandi star: Supersex | True Detective S04 | Expats | Lezioni di chimica

Quando insegnavo a Ortona, si percepiva l'eco della sua notorietà. Rocco Siffredi era un supereroe. Piace, dunque, la scelta di raccontarlo come il personaggio di un fumetto: il suo potere lo porterà lontano. Lo interpreta Alessandro Borghi, bravissimo nel catturarne l'accento e la risata nasale; impavido, e a giusta ragione, nel nudo. Sentimentale e animalesco, provinciale e cosmopolita, raccoglie le confessioni dell'uomo dietro il pornodivo: Siffredi è stato un funambolo sospeso tra eros e thanatos; uno degli ultimi testimoni di una generazione folle e trasgressiva, cannibalizzata dall'ignoranza verso la malattia (ruba la scena l'amica storica Moana Pozzi, dagli occhi tristi e dalle parole sibilline). Ottimamente recitata, ma didascalica e discontinua, la serie Netflix si affida troppo al talento dei protagonisti. Delude la sceneggiatura, che parla poco di sessualità; molto di famiglie disfunzionali; troppo di piccola criminalità (il fratellastro Giannini ha una storyline inutilmente ampia). Pop ma seriosi, gli episodi non hanno né la malinconia decadente di Shame, né la verità di Pleasure. Risultano superflui nelle tinte crime e frettolosi nell'epilogo. Affascinanti, invece, i personaggi femminili: donne fittizie (fatta eccezione per la moglie Rosa), che incarnano nei corpi e negli sguardi diverse facce del desiderio, dell'amore, dell'intimità. Se la modella Linda Caridi si conferma incantevole, a restare impressa è la cognata Jasmine Trinca: irraggiungibile, è l'occasione mancata, il chiodo fisso, una vittima del maschilismo che ne ha fatto una prostituta anziché una diva. In una storia di “cazzi e pistole”, insomma, hanno la meglio gli occhi delle donne. Bramati, pretesi, mai compresi (a partire da quelli, inflessibili, di una madre in lutto), fotteranno perfino colui che voleva fottere il mondo. (7)

È in Alaska, in un periodo dell'anno in cui la notte si confonde col giorno e il gelo è perpetuo, che prende le mosse la quarta stagione di True Detective. Questa volta è tutta al femminile e le tinte, con tanto di citazione al classico di John Carpenter in apertura, sono ineditamente horror. È pur sempre un poliziesco classico, solido: non aspettatevi il paranormale. I fantasmi sono quelli della solitudine e della malattia mentale. La suggestione è legata al folklore della comunità Inuit. Il caso, spaventoso, ruota attorno alla morte per congelamento di un gruppo di scienziati: analizzavano i ghiacci in cerca di un miracoloso microrganismo. Chi o cosa hanno scomodato con le loro ricerche? Come sono legati all'omicidio irrisolto di una giovane attivista in lotta contro la miniera locale? Indagano la rediviva Foster e la rivelazione Reis: la prima ex mangiatrice di uomini segnata dalla tragedia, l'altra sbirra spirituale e anticonformista, hanno età e metodi agli antipodi. Le uniranno un segreto scomodo, la solidarietà tra donne e una giovane leva da guidare, interpretata da un bravissimo Finn Bennett che, seppure in sordina, ruba spesso la scena alle due giganti. Più lineare e meno prolissa delle stagioni precedenti, si imbastardisce un po'. Accetta le contaminazioni, il femminismo hollywoodiano, le riflessioni ecologiste. I fan coi paraocchi, uomini in maggioranza, la stroncano. Ma, pur non essendo memorabile, si difende benissimo schierando un duo affiatato, ambientazioni affascinanti e, soprattutto, una dimensione familiare e umana che, a dispetto delle temperature artiche, la rendono la stagione più calorosa delle quattro. (7)

Le esistenze di tre donne si intrecciano a Hong Kong. In Cina c'è aria di rivolta. I giovani, barricati sotto gli ombrelli, condividono slogan e canzoni. Sono in rivolta anche le protagoniste (una americana, una indiana, una coreana), che mettono tutto in discussione all'indomani di una tragedia. Meglio tornare indietro o restare? Antipatiche, privilegiate, talmente umane da apparire sgradevoli, sono pessime nei rapporti interpersonali: le colf, viste ora come confidenti e ora come rivali, gestiscono case e famiglie al posto loro. Il quinto episodio, quasi un film a sé stante, si apre ai ritornelli dei manifestanti, alle nostalgie delle domestiche, ai comprimari nell'ombra. I restanti, meravigliosamente diretti da Lulu Wang, costituiscono un reticolo di femminilità a confronto. In questa miniserie, destinata a restare tra le migliori dell'anno, c'è chi ha perduto un figlio, chi non lo vuole, chi lo aspetta ma da un amante occasionale. Dolorosamente bello, il dramma di Expats mostra le risate isteriche in obitorio, gli incantesimi del make-up per nascondere i lividi della violenza domestica, i pianti catartici che spezzano le maledizioni. Amiche per affinità, nemiche per caso, le attrici protagoniste fanno a gara di intensità. E Nicole Kidman, qui struggente mater dolorosa, è così solidale da permettere alle sorprendenti Serayu Rao e Ji-young Yoo di brillare. Inscenato su uno sfondo esotico, il loro ritorno alla vita si interroga sul significato della parola “casa”; riempie i silenzi con le canzoni di Blondie, Adele e degli Abba; insegna che il dolore e il senso di smarrimento, così come certi misteri, non saranno mai archiviati. Ci si può convivere: a patto di non tremare quando non vedremo più la terraferma all'orizzonte. È lungo, il viaggio dell'elaborazione. Ma, costrette insieme a bordo, Nicole e le altre si scopriranno non più straniere a loro stesse. (8)

Cosa ci fa una scienziata alla conduzione di un programma di cucina per casalinghe disperate? Cos'è accaduto affinché una donna solitaria, fredda e razionale si trovasse (autentico scandalo, nei rigidissimi anni Cinquanta) con una figlia a carico e senza un marito? Scopritelo in una serie dolcissima e di buoni sentimenti, di cui invidierete gli outfit dai colori pastello e gli appassionati monologhi sul female empowerment. Certo, a volte la carne al fuoco risulta troppa: femminismo, questione razziale, origini familiari; all'appello c'è perfino un episodio raccontato dal punto di vista di un cagnalone divorato dai sensi di colpa. Ma in Lezione di chimica, dramedy ispirata all'omonimo bestseller edito Rizzoli prontamente finita fra le mie preferite del 2023, l'attrice Premio Oscar Brie Larson si rivela essere una padrona di casa arguta e volitiva, a cui vorrete in fretta un gran bene, e il romantico collega Lewis Pullman una rivelazione ingiustamente snobbata nella stagione dei premi maggiori. La scienza non ha tutte le risposte. In una reazione chimica contano anche l'inevitabile, l'inatteso. E in un incontro, in un amore, conta sempre la predestinazione. La miniserie Apple TV è un chicca per gli spettatori nostalgici di The Marvelous Mrs Maisel, ma anche anche gli orfani inconsolabili di This is us. Ci troverete la stessa energia, la stessa magia. (7,5)

lunedì 18 marzo 2024

Recensione: Le nostre mogli negli abissi, di Julia Armfield

| Le nostre mogli negli abissi, di Julia Armfield. Bompiani, € 18, pp. 250 |

Il sangue e il mare hanno una composizione chimica simile. Le prime forme di vita sono nate dall'acqua: nelle nostre ossa abbiamo un po' del sale dell'oceano. Leah, biologa, è cresciuta ascoltando questi e altri aneddoti. Intrigata dai misteri degli abissi, li ha raccontati anche a Miri, sua moglie, facendone fiabe della buonanotte piene di zanne e tentacoli. Parimenti incantevole e sinistro, il primo romanzo di Julia Armfield è un diario di bordo su una coppia e un sottomarino condannati alla deriva. A capitoli alterni ci spingiamo nei pensieri delle due protagoniste, con il desiderio inquieto di assemblare una a una le tessere di un puzzle dal disegno confuso. Leah, partita per una missione a diecimila metri di profondità, torna a casa dopo cinque mesi di assenza: costretta in uno spazio ristretto con altri due scienziati, disorientata dal buio pesto e dalle istruzioni dei capispedizione, si è spinta in un luogo infestato in cui, contro ogni pronostico, c'era vita. Fragile e ipocondriaca, tormentata dal pensiero della malattia genetica che ha recentemente ucciso la madre, Miri elude invece l'attesa fantasticando sui vicini di casa rumorosi e visitando forum su ragazze scomparse.

Sai, mi piace entrare al cinema quando c'è ancora luce e uscire quando fuori è buio. Mi fa pensare al fatto che la città non è mai la stessa. Cioè, al fatto che tutto cambia. Ogni sera, ogni minuto, qualcosa finisce e non sarà più come prima.

Quando Leah viene tratta in salvo, Miri la aspetta a braccia aperte all'uscita del Centro. Ma l'altra, elusiva, non ricambia la stretta: rifiuta cibo e carezze, soffre di epistassi, ha un colorito insalubre, fa scorrere l'acqua della vasca per tutta la notte. Irraggiungibile, sembrerebbe essere divorata dalla nostalgia. Ma di cosa? Perché Leah, così prodiga di storie in passato, glissa proprio sull'ultima che ha vissuto? Ai primi appuntamenti si scambiavano baci al gusto popcorn, guardando i classici di Bava, Cronenberg e Spielberg. Alle feste indossano vestiti che le avvolgono come bozzoli di una crisalide. Nei loro incubi perdono i denti e ospitano larve nell'incavo delle guance. Sul pannello di controllo del sottomarino, immancabile, troneggia un portafortuna a forma di Chtulu. Le nostre mogli negli abissi ha le caratteristiche dei sad hot girls, ma padroneggia il lessico dei body horror. Perfino con il peggio in atto le protagoniste cercano disperatamente di ripristinare l'antica normalità. Stavolta in bagno, utilizzando il water come base d'appoggio, continuano a rifugiarsi in film di serie B che trattano di invasioni, scuoiamenti, metamorfosi.

Il problema non è che è stata via, è che durante la sua assenza non c'era niente di normale. Non è dura perché è tornata, è che non sono sicura che sia tornata davvero.

Servono gli horror per ricordarsi di un amore totalizzante, a tratti violentissimo nei litigi. Servono gli horror per raccontarsi i corpi fusi nel culmine del sesso o la miracolosa banalità del tenersi per mano: quando si è vicini, infatti, l'arto del partner sembra un'escrescenza spuntata direttamente dai nostri tessuti. Ho letto di loro in apnea, sul chi vive. Affascinato dalla voce di sirena dell'autrice e angosciato dall'andamento di un romanzo in cui, anche a poche pagine dalla fine, si resta in attesa di un guizzo sotto il pelo dell'acqua. All'apparenza non succede niente di rilevante; in superficie non si intravedono che lievi increspature. Cosa accade però negli abissi? Tra le righe? È laggiù che si agitano i significati di una storia lugubre e quiescente, dal linguaggio cifrato, in cui i giorni perdono di senso e l'amore coniugale minaccia di sciogliersi in una massa cangiante a causa di una convivenza forzata. Niente è più lo stesso. Nessuna è più la stessa. Al centro di una terapia di coppia su come elaborare le diverse consapevolezze maturate in una relazione a distanza, le due mogli osservano i loro anniversari da un oblò e, dopo averlo sfidato controcorrente nel tentativo di opporsi al divenire naturale della vita (e della morte), assecondano il moto delle onde. E rompono la veglia a cui hanno condannato i loro lettori, ormai commossi, con una parabola in cui non è importante che gli amori siano eterni, purché ci insegnino a nuotare.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Olivia Rodrigo - Vampire 

lunedì 11 marzo 2024

Recensione: My Dark Vanessa. Mia inquieta Vanessa, di Kate Elizabeth Russell

| My Dark Vanessa, di Kate Elizabeth Russell. Mondadori, € 15, pp. 384 |

Una quindicenne dall'indole malinconica e dai lunghi capelli rossi stringe una relazione con il suo professore di letteratura, quarantaduenne che riserva carezze di carta vetrata alle sue studentesse più talentuose. È una vicenda di sopraffazione psicologica, potere, ossessione. Non una storia d'amore. Ma come raccontarla agli altri se perfino colei che l'ha vissuta preferisce definirsi complice di una tormentosa folie à deux, anziché vittima inerme? Abituata a essere invisibile, orgogliosa delle proprie stranezze e dei propri dolori, Vanessa legge troppo (soprattutto il conturbante Nabokov, di cui custodisce gelosamente una copia annotata) e vive troppo poco, fin quando le attenzioni di un adulto non la rendono finalmente protagonista di una storia. Una storia alla Lolita, per di più, il suo romanzo preferito, in cui una giovane ninfetta esercita il suo fascino seduttorio sul patrigno soggiogato. Almeno illusoriamente. Non è sempre facile riconoscere un predatore sessuale quando lo si ha davanti, e il goffo professor Strane sembra diverso. E la fa sentire diversa. Ma all'indomani del caso Weinstein, una schiera di donne insorge e denuncia gli abusi subiti. Vanessa potrebbe diventare la loro portabandiera. Ma la consapevolezza che Strane abbia fatto lo stesso ad altre la riempie non di orrore, bensì di una bruciante gelosia. Non era, dunque, l'unica?

Quando io e Strane ci siamo conosciuti, io avevo quindici anni e lui quarantadue, poco meno di trent'anni tondi a separarci. È così che all'epoca definivo la nostra differenza di età: perfetta. Mi piaceva la relazione numerica tra i nostri anni, i suoi tre volte i miei. Mi immaginavo tre piccole me che trovavano posto dentro di lui: la prima avviluppata al cervello, la seconda al cuore, la terza liqueffatta a scivolargli nelle vene.

In giorni in cui mi sono trovato a riflettere sulla violenza di genere in classi di quasi solo ragazze, ho letto quest'esordio molto dibattuto qualche anno fa: un romanzo scomodo e incisivo, dal punto di vista sdrucciolevole, sulla catabasi di un'altra promising young woman nel sessismo dell'ambiente accademico americano. Sono i primi anni Duemila. Spaventati dalla vicina strage del liceo Columbine, gli adolescenti benestanti frequentano le scuole private. Il loro mito è Britney Spears, candida ma ammiccante, adulta ma bambina, che in un iconico videoclip non trattiene l'impazienza per il termine delle lezioni. La parabola discendente della protagonista somiglia a quella del popstar, strumentalizzata dai media fino a quel crollo psicologico forse più celebre perfino della hit d'esordio. Vanessa è padrona di sé. Con le sue piccole mani, ha infangato la propria reputazione per proteggere quella di Strane. Come può considerarsi vittima del disturbo post-traumatico da stress una giovane tanto audace e volitiva? Questo fa forse di lei una nemica delle donne? A dispetto di uno stile tutt'altro che memorabile, giacche troppo acerbo, Russell ha per le mani materiale incandescente e fa del suo meglio per rendere giustizia a una storia attuale, complessa.

Non appena è successo ho desiderato che accadesse di nuovo. Una ragazza normale non avrebbe reagito così. È vero che c'è qualcosa di oscuro in me, da sempre.

Lontana dai banchi di scuola, la seconda parte – la più riuscita – affronta il disagio struggente di una vita interrotta. All'inizio la presenza di Strane inquieta. Ma alla fine, a sorpresa, è la sua assenza a farsi lacerante. Ormai trentenne, con la paura di essere invecchiata e per questo non più desiderabile, ossessionata dalle cicatrici indelebili del passato, Vanessa vorrebbe rinunciare al suo orco se farlo non implicasse anche rinunciare a sé stessa. La mancata elaborazione crea un comodo stato di sospensione; il vittimismo è una coccola. Ogni giorno appare la prosecuzione della sua prima adolescenza, terribile ma mitizzata. Una ragazzina appare desiderabile, una ragazzina è sollevata dalle responsabilità, una ragazzina viene facilmente assolta. Si legge come un thriller, My Dark Vanessa, ma è la storia a tinte forti di un'educazione affettiva che consiglierei anche alle mie studentesse. Come si impara ad amarsi, se ci hanno amato – il verbo, a questo punto, non calza più – in maniera terribile? Come si diventa donne?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Fiona Apple – Criminal