Milano città. L'insopportabile pigrizia delle vacanze estive. Il
desiderio di fare una scappata sulla costa ligure per il piacere del
mare nella bella stagione. In una famiglia disfunzionale
ma di larghe vedute – di quelle con i preservativi in un cestino
all'ingresso –, lo
scostante Leonardo prova gusta nel dare sui nervi a una mamma troppo
speranzosa e al suo compagno, un anonimo tassista amante dei passi a
due. D'altronde, comprendiamolo: ha diciassette anni e ogni diritto di
avere il mondo contro. Figlio degli anni Novanta e della democrazia
progressista, patisce l'ingombro della verginità e la frustrazione
per i sogni di gloria mancati: si sognerebbe l'epigono ribelle di
Kurt Cobain, a cui somiglia perfino un po' per via della zazzera
bionda, ma a rubargli il nirvana sono i drammi
quotidiani. Prima il suicidio del padre, eterno Peter Pan scomparso
in mare con addosso il suo pigiama migliore; poi la convivenza
forzata con Florin, ragazzo dell'Est accolto in casa per
l'inguaribile spirito da crocerossina della capofamiglia. Se Leo non è abbastanza adulto, Florin non è abbastanza bambino. Il nuovo compagno di stanza si prostituiva: ha piedini di fata, mani
lunghe per soddisfare i piaceri altrui, frequenta cinema a luci rosse e quartieri sconosciuti.
Accondiscendente fino al fastidio, si nutre di dolciumi
preconfezionati e attira occhiate ora indifferenti, ora indignate. Il
gatto di casa, un randagio, lo riconosce come padrone. La sofferenza degli altri, però, ci rende persone migliori?
Noi
siamo una famiglia di larghe vedute e questo è un fatto importante
perché, a forza di guardare più in là, è diventato sempre più
difficile guardarsi negli occhi.
Se
lo domanda a lungo il protagonista, che dovrebbe usare la compagnia
di Florin – brutto e sfigato, citandolo – a proprio vantaggio.
Con queste premesse potrà forse nascere un'amicizia sincera? Leo ci
prova. E prova anche con l'analisi, con la marijuana a scopo
terapeutico, ma la rabbia di vivere lo segue perfino in incubi dov'è messo sotto processo. Lui il giudice, lui l'accusato,
lui l'accusatore.
L'età straniera, finalista al Premio
Strega, è l'apprendistato di un adolescente che deve capire come
gira il mondo. Il narratore non crede nei mezzi termini, nelle
sfumature di grigio, ma nella giustizia sì. Suona disilluso e
antipatico, un nichilista provetto, ma fra sé e sé nutre speranze
esagerate verso il futuro. Al contrario degli adulti, che gli
insegnano il bene ma soprattutto l'utile. Al contrario del
coinquilino extracomunitario, che parla poco perché in Italia purtroppo non ha
voce. La scrittura verbosa e cervellotica di Marina Mander ci porta
nel clou dell'irrequietezza. In un'età che sputa fuori parole ciniche e parole d'amore, riflessioni amareggiate e finali
preferibilmente dolci.
E
tu, Iwazaru, riesci a capire quanto mimetizzarsi sia vantaggioso?
Bastano cento parole di vocabolario, dieci capi di vestiario, due o
tre accessori non troppo cafoni, sono sicuro che mamma saprà
indicarti quali, e tutti vedranno in te una personcina affidabile;
confezionati bene anche se hai l'inferno dentro, impara un altro modo
di spaccarti in due, ma senza mai darlo troppo a vedere, mi
raccomando, è questo l'essenziale. E se dentro di te ci fosse
davvero il nulla, rivestilo di diamanti.
La
sua lingua, ben affilata contro il perbenismo e il politicamente
corretto, spesso suona artificiosa. Mi ha ricordato quella
di una Mazzantini più lieve ma a tratti irritante, fatta di
allitterazioni e giochi, di stridori e parolacce. È la scrittura, in
effetti, a dare il vero guizzo – una parvenza fortemente autoriale
– a una commedia edificante a proposito di crescita e integrazione che al
cinema vedrei bene sotto la direzione del bravo Francesco Bruni. Ma è proprio la
scrittura, originale perché ardita, a non avermi conquistato.
Benché
l'autrice parli a nome di un diciassettenne senza falsi moralismi né
censure, regalandoci nell'ultima parte la struggente lettera che Leo
indirizza a sé stesso per il futuro, il suo romanzo di formazione resta un paradosso. Incentrato sul dialogo fra culture, di
dialoghi ne ha stranamente pochissimi. Il protagonista e Florin non si parlano
neanche a gesti. Il narratore, straripante e megalomane, ma almeno onesto, parla per tutti e due. I voli pindarici e gli
sproloqui: quelli del Giovane Holden. Come già
successo con il classico di Salinger, ne ho apprezzato la compagnia a
piccole dosi, più in teoria che in pratica, trovandolo non sempre
godibile eppure toccante nel suo imperscrutabile diritto all'egoismo.
Perché Leo storpia il nome di Florin in Iwazaru, lo chiama scimmia
per disprezzo, ma intanto si commuove davanti ai primati in gabbia allo zoo.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Jovanotti – Mi fido di te
Tra Kurt Cobain e Il giovane Holden, è il romanzo ideale per me!
RispondiEliminaSpero solo che lo stile dell'autrice non risulti troppo irritante. Gli ingredienti perché diventi un mio cult personale ci sono.
Ecco, a te sono certo che Leo (come DiCaprio, altro tuo pupillo) piacerebbe moltissimo.
EliminaAvevo riservato certe aspettative per questo romanzo, vincitore del premio Strega. Ho però preferito dare la precedenza ad altre letture... E forse ho fatto bene in quanto il romanzo di Salinger non mi ha entusiasmato come speravo. E se questo ha vasti ricbiami a Il giovane Holden, beh.. Penso proprio passerò ☺️☺️
RispondiEliminaNon penso che arriverà fra i finalisti, consolati!
EliminaPotrebbe essere interessante leggere di questi due ragazzi apparentemente l'uno l'opposto dell'altro, e amando lo stile della Mazzantini (*_*), una chance a L'età straniera la darei...
RispondiEliminaHo trovato che lo stile d'autore, però, cozzasse con la storia Young Adult. Riproverò con altro dell'autrice, magari una trama più impegnativa.
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