giovedì 12 maggio 2016

Mr. Ciak: Ave,Cesare!, La corrispondenza, Single ma non troppo, The Invitation, Kill your friends

Mai andati molto a genio i Coen. Fintamente leggeri, sofisticati, freddi nel loro buon gusto e in una perfezione formale che, ancora una volta, è innegabile. Semplicemente, mi ripeto, avrò visto i più sbagliati tra i loro film. Dopo A proposito di Davis, di cui avevo molto apprezzato gli sciarponi sgualciti, i gatti rossi e la voce di uno splendido Isaac, è questo Ave, Cesare! che guardo. E lì per lì rido, lo trovo spassoso e consapevole, ma c'è un ma non trascurabile. Ambientato negli anni Cinquanta, mi ha ricordato un capolavoro di nome Cantando sotto la pioggia e la mia recente visita, lo scorso dicembre, a Cinecittà. Quel film storico, che all'inizio definivo vecchio e basta, che all'universita mi aveva incantato; quel casermone dalle linee severe che, all'interno, nascondeva un'autentica fabbrica dei sogni. La loro ultima commedia, in ordine casuale, è di questo che racconta: attori che interpretano altri attori, magie. Un gioco di metacinema per soli appassionati, che ha colori sgargianti, una parata di star e una direzione da maestro. Ma, film ad episodi non dichiarato e con un debolissima cornice ad unirli tutti, presenta situazioni slegate – sequenze brillanti, omaggi nostalgici – che mancano di un filo conduttore; di nerbo. Una squadra di fuori classe e tanta eleganza, sì, ma i Coen si divertono più dello spettatore. E mollano le redini. La loro commedia, che avrà pure tutti i pregi del mondo ma i pezzi di scotch a vista d'occhio, diverte perché allo sbaraglio, essenzialmente: mentre si girano musical, western e peplum, ecco il rapimento dell'attore principale e gli sceneggiatori comunisti che reclamano sottomarini sovietici e attenzioni. La critica ufficiale, forse, lo etichetterebbe come divertissement o pastiche; uno di quegli eufemismi leziosi e ambigui, per dire che non lo ricorderai il giorno successivo ma, per carità, è d'autore, fa sorridere, e quindi i suoi meriti li ha. Meriti del comparto tecnico, grosso modo, e di una Scarlett sirena, di un Tatum marinaio e ballerino, di un Alden Ehrenreich pistolero e giullare, all'ombra dei ben più gigioni – troppo – Brolin e Clooney. (6)

Tornatore è un regista a cui voglio bene. Fino a qualche anno fa, prima che il cinema italiano, almeno, si desse a una rinnovata giovinezza, era l'unico autore di cui andavo fiero. Se ci si trova ad accogliere a braccia aperte giovani registi e si dà il benvenuto a generi che un tempo non ci appartenevano, mi addolora il passo falso di un conterraneo che ha sempre avuto cura dell'emozione. Cosa dire sulla sua ultima fatica – anche se, nel seguirlo, la fatica più grande è la nostra – che non sia già stato detto? L'insuccesso di La corrispondenza non lo comprendevo, prima di vederlo. E, ancora, non mi capacito del risultato. Un melodramma stucchevole con due protagonisti male assortiti, un'idea gettata alle ortiche e un regista che ha dato forfait. Senza mezzi giri di parole, bruttissimo. Di chi è la colpa? Una caccia al tesoro che si fa ripetitiva in fretta, un doppiaggio pessimo, una storia d'amore che risulta insana? Indipendentemente da tutto ciò, La corrispondenza parte male sin dall'incipit. Due amanti lontani per età, lui professore e lei studentessa, che si baciano come in Via col vento e si sussurrano parole gonfie di enfasi. E le parole, dopo la morte improvvisa di lui e il dolore di lei, non cessano: retoriche, zuccherose, irrazionali. Un Jeremy Irons irritantissimo, all'indomani del suo trapasso, lascia a una Olga Kurylenko in stato catatonico sms, lettere, email e case sul lago.  Il danno vero, oltre a un Morricone letargico, lo fa una scrittura che si scopre surreale, pur di non incappare nei passi del ben più godibile P.S. I Love you. Si ride dell'impiego di stuntman di lei – a cui, in una sequenza ridicola, taglia la strada un'anziana in carrozzella – e i comprimari, burattini senza fili, sono inanimati smista-posta mandati lì dal caso. Troppe le coincidenze, infinite le falle narrative: le loro età distanti, tra l'altro, rendono irreale, carico e gelido cotanto struggersi.Tornatore, ti sei perso? Tornatore, però torna. (4)

Alice, impiegata in uno studio legale, si è presa una pausa di riflessione dal suo fidanzato: vuole sperimentare. Sua sorella, Meg, ha 40 anni, nessuna relazione stabile e il desiderio improvviso di avere un bambino, da sola. Robin, strabordante e sboccata, un fidanzato non lo cerca; Alice, invece, ha creato un algoritmo per trovare quello perfetto. Il fidanzato di Alice la molla per un'altra; Meg, in attesa del fiocco rosa, conosce una tipo bizzarro ma dolce; Robin è Robin e Alice, che scrocca il wi-fi al bar sotto casa, fa mettere la testa a posto al barman dongiovanni di turno. Single ma non troppo – imbarazzante trasposizione dell'inglese How to be single – mi ha fatto compagnia in una seria infrasettimanale e, a sorpresa, si è rivelato meglio del previsto; gradevolissimo. Io, che immaginavo un Sex & The City con un rinnovo generazionale, mi sono trovato davanti, invece, una commedia corale ben recitata e piuttosto ben pensata, lunga e popolosa, ma a cui la regia del fresco Christian Ditter e la penna di Marc Silvestein, già sceneggiatore di La verità è che non gli piaci abbastanza, danno ironia, ritmo e, qui e lì, un romanticismo che non intacca il proposito iniziale: mostrare un gruppo di amiche che bastano a loro stesse. New York è bella, e più belle ancora sono Dakota Johnson e Leslie Mann, sorelle indipendenti; poi c'è la classica Rebel, volgarissima, e una superflua Alison Brie, che invece, dalla sua, non ha neanche la simpatia esagerata della Wilson. Qualche personaggio – la Brie, appunto, il vedovo facoltoso e il barista per trombamico – apparentemente non ha una collocazione precisa. Aveva senso inserirli, se una protagonista ci mette la freschezza, l'altra la maturità e la terza i doppi sensi a gogò? Direi di no, ma Alice, abbarbicata su un monte e con una copia di Wild sul comò, in un elogio ponderato alla solitudine, ci dice che qualche donna resiste ai vuoti e qualcuna si accasa, che qualche uomo cambia e qualcuno viene a patti con l'abbandono. (6,5)

Will e Eden si sono separati. Si rivedono a cena, due anni dopo la tragedia, con i rispettivi compagni e gli amici di sempre. I faccia a faccia, inevitabili; l'ingresso di nuove figure, in una compagnia altrimenti affiatata; meccanismi che scattano e di rado si inceppano, tra fascinazione, gelosie e eros. Chi è più strano fra loro, tutti gaudenti e amichevoli, e Will, al contrario, sospettoso e inaffidabile? The Invitation, invito a casa con mistero, è un thriller indipendente che in rete ha subito fatto parlare di sé. Per alcuni, addirittura, siamo al cospetto del thriller dell'anno; per chi non porta pazienta, invece, altro non è che una lunga noia. Io mi colloco tra un eccesso e l'altro. Incrocio ideale tra il nostro Perfetti sconosciuti e The Path, serie Hulu attualmente in onda, ha tutta l'aria di un dramma da camera a tinte fosche, sull'elaborazione e il perdono. L'ultima mezz'ora si rivelerà, infine, un'escalation di violenza e tensione non così prevedibile. Il giusto compromesso tra l'introspezione degli inizi e la fretta dell'epilogo. The Invitation spicca per una scrittura profonda – più nel dramma dei due genitori che nei risvolti da brivido – e una recitazione, nonostante un cast di bellocci del piccolo schermo, sopra la media. Ma come un incensato Honeymoon, curato nel romanticismo e sbrigativo se alle prese con l'omaggio allo sci-fi d'altri tempi, il thriller psicologico funziona più parlando dell'elaborazione che dei coltelli nascosti dietro la schiena. Del dolore, e di tutti i mezzi a nostra disposizione per sfuggirvi. Al lutto, e ai ricordi scomodi. Allora, c'è la rabbia silenziosa di Logan Marshall-Green, che non dimentica. Sorrisi falsi, per la seducente Tammy Blanchard, e la complicità del sempre corteggiatissimo Michiel Huisman, che in una comunità religiosa – e in un amore non del tutto disinteressato – han trovato illusoria consolazione. (7)

Steven, giovane ai vertici di una casa discografica, in anni in cui la musica vendeva, e di musica si viveva o si moriva, ha tanti potenziali nemici, troppe grane e più di qualche grattacapo. Per fortuna, Steven non ha peli sulla lingua e nessuno scrupolo. Accattivante e spietato, perennemente su di giri, avrà forse paura di sporcarsi un po' le mani per ottenere ciò che desidera? Tratto da un romanzo di John Niven e diretto con agilità dal semi-esordiente Owen Harris, Kill Your Friends è una commedia nera e a tinte splatter, con una colonna sonora preziosa, il panorama musicale anni Novanta a fare da suggestivo sfondo e, infine, un protagonista cinico e divertentissimo che regala al film le sue trovate migliori. Maestro nelle macchinazioni, shakesperiano negli umori, ha il volto di un bravissimo Nicholas Hoult, che con una prova piacevolmente sopra le righe fa dimenticare gli errori di ingenuità: un epilogo crudissimo contrapposto a un incipit canonico, ad esempio; meno eccessi di quanti ne avrei graditi; risvolti intuibili. Il prodigioso bambino di About a boy e Skins è cresciuto, ed è diventato un perticone di un metro e novanta, bello come il sole e sfacciato in modo assurdo: arrivista come pochi. Perché questo Steven, che sembra un Patrick Bateman rivisto e corretto o, ancora, il "lupo" Jordan Belfor passato dai titoli in borsa ai pentagrammi, si rivolge a tu per tu alla macchina da presa, manda giù sciacquabudella a fantasia, conosce a fondo la cocaina e le sue infinite derivazioni e, come se avesse importanza, la musica che produce nemmeno gli piace. (6,5)

20 commenti:

  1. L'Ultimo dei Coen è decisamente un film minore, però quanto si sono divertiti ad omaggiare (e prendere in giro) generi e tick della Hollywood dei tempi d'oro? Minore ma divertente ;-) Cheers

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    1. Forse, più di noi.
      Tanto da perdere di vista il fatto che il cinema, soprattutto quello dei tempi d'oro, era un veicolo di belle storie. ;)

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  2. Ai fratelli Coen non so resistere, Kill your friends mi incuriosisce e Tornatore neanche se mi pagano (se dovesse tornare però non mi dispiacerebbe ;-) ).
    un saluto da Lea

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    1. Il Tornatore che gioca a farsi l'internazionale poco m'ispira - come "canta" la Sicilia lui, però, nessuno -, ma La migliore offerta era elegantissimo. Questo è un pasticcio assurdo col suo nome sopra!
      Un saluto a te e, intanto, mi riprometto di studiarmi meglio i Coen. Non li afferro.

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  3. Il film dei Coen Bs. (che giustamente tu definisci un film a episodi cuciti alla meglio) io lo vedo come un atto d'amore verso il cinema in quanto tale: il protagonista potrebbe guadagnare molto di più occupandosi di aerei, ma è attratto magicamente da quel mondo di sogni e di personaggi sbirolati

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    1. Però, ecco, io questa magica attrazione dell'incasinato Brolin non l'ho vista. Non l'ho trovato neanche il protagonista, non saprei dirti. Spassoso, sì, ma mi ha confuso le idee...

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  4. Questa volta non mi ispira nessuno di questi titoli :)
    Lascio il beneficio del dubbio solo a The Invitation, ma solo perché tu hai dato un 7! XD

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    1. The Invitation è curioso, indubbiamente, e in America sta facendo parlare di sé. ;)

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  5. Con la corrispondenza confermi quello che già pensavo.. il resto dei film passo, i coen poi proprio non li reggo XD

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  6. The Invitation guarderòllo stasera, mentre il divertissment (sì, lo chiamo anche io così XD) dei Coen mi era piaciuto un sacco;l'unico difetto che ho trovato è lo spreco di bravi attori che compaiono troppo poco, in effetti.

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    1. Poi Hill, con un cameo di due secondi, in copertina?
      Potevano lasciare spazio anche a noi, vicino a Scarlett.
      La Swinton, però, è sempre perfetta.

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  7. Ho recuperato qualcosa da te sponsorizzato nelle puntate precedenti: The Dressmaker and The VVitch!
    Entrambi belli, ma il film horror di più!
    Tra questi mi pare interessante Invitation, ma potrei concedere il beneficio del dubbio anche ai Coen. ;)

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  8. Troppo buono con Single ma non troppo!
    Io l'ho trovato una poracciata assurda. Dakota Johnson peggio che in 50 sfumature e Rebel Wilson ormai insopportabile.

    Sui Coen invece decisamente d'accordo: mai andati a genio nemmeno a me e qui mediocri come al solito.

    Kill Your Friends da ragazzo cresciuto negli anni '90 ovviamente mi ha gasato parecchio, anche se non è esattamente originale.

    La corrispondenza boh, non ho capito se l'ho detestato o se in fondo, nella sua assurdità, un pochino mi è piaciuto. Ma forse giusto un pochino pochino. :)

    The Invitation è tra le prossime visioni...

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    1. Prima di vedere The Invitation, pensa un po', Single ma non troppo era il film meno brutto visto in settimana, secondo me, ahahah! Pasticciato, però piacevole.

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  9. per i Coen posso capire... ma a me è piaciuto, giù solo la scena con i patriarchi vale una sacco di film che ci sono ora in sala e il loro nichilismo nebbioso nella mia testa è sempre ben accetto :-)
    Quello di Tornatore non lo guarderò nemmeno con una pistola puntata....

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    1. Senz'altro sono di alt(r)i livelli e c'è sempre qualcosa che mi piace molto - in quello con Isaac, ovviamente, la colonna sonora pazzesca, qui costumi e coreografie - però, per me, dovrebbero rinunciare a fare tutto da soli: un film dopo l'altro, mi accorgo di come non abbiano idee. Non mi riferisco, ovvio, a Non è un paese per vecchi, che aveva il romanzone di McCarthy alle spalle. ;)

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  10. Ai Coen io voglio bene e questo divertissment, o pastiche, mi ha intrattenuto a dovere, piacendomi come giornata all'interno di uno studios hollywoodiano.
    Saltando a piè pari le single, ché rimango una snob, mi hai incuriosito sia con The Invitation (cene fra "amici" chiusi in una stanza? Segno!) sia con Kill your friends (atmosfere pulp anni '90? Segno!).

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    1. ps: non c'entra con il post, ma ho visto che stai leggendo Lo strano viaggio di un oggetto smarrito: è bello bello come me lo ha descritto Vanity Fair?

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