Mai andati molto a genio i Coen. Fintamente
leggeri, sofisticati, freddi nel loro buon gusto e in una perfezione
formale che, ancora una volta, è innegabile. Semplicemente, mi
ripeto, avrò visto i più sbagliati tra i loro film. Dopo A
proposito di Davis, di cui avevo molto apprezzato gli
sciarponi sgualciti, i gatti rossi e la voce di uno
splendido Isaac, è questo Ave,
Cesare! che guardo. E lì per lì rido, lo trovo spassoso e
consapevole, ma c'è un ma non trascurabile. Ambientato negli anni
Cinquanta, mi ha ricordato un capolavoro di nome Cantando sotto la
pioggia e la mia recente visita, lo scorso dicembre, a Cinecittà.
Quel film storico, che all'inizio definivo vecchio e basta, che
all'universita mi aveva incantato; quel casermone dalle linee severe
che, all'interno, nascondeva un'autentica fabbrica dei sogni. La loro
ultima commedia, in ordine casuale, è di questo che racconta: attori
che interpretano altri attori, magie. Un gioco di metacinema per
soli appassionati, che ha colori sgargianti, una parata di star e una
direzione da maestro. Ma, film ad episodi non dichiarato e con un
debolissima cornice ad unirli tutti, presenta
situazioni slegate – sequenze brillanti, omaggi nostalgici – che
mancano di un filo conduttore; di nerbo. Una squadra di fuori classe
e tanta eleganza, sì, ma i Coen si divertono più dello spettatore. E mollano le
redini. La loro commedia, che avrà pure tutti i pregi del mondo ma i
pezzi di scotch a vista d'occhio, diverte perché allo sbaraglio,
essenzialmente: mentre si girano musical, western e peplum, ecco il
rapimento dell'attore principale e gli sceneggiatori comunisti che reclamano sottomarini sovietici e attenzioni. La critica
ufficiale, forse, lo etichetterebbe come divertissement o
pastiche; uno di quegli eufemismi leziosi e ambigui, per dire
che non lo ricorderai il giorno successivo ma, per carità, è
d'autore, fa sorridere, e quindi i suoi meriti li ha. Meriti del
comparto tecnico, grosso modo, e di una Scarlett sirena, di un Tatum
marinaio e ballerino, di un Alden Ehrenreich pistolero e giullare,
all'ombra dei ben più gigioni – troppo – Brolin e Clooney. (6)
Tornatore
è un regista a cui voglio bene. Fino a qualche
anno fa, prima che il cinema italiano, almeno, si desse a una
rinnovata giovinezza, era l'unico autore di cui andavo fiero. Se ci
si trova ad accogliere a braccia aperte giovani registi e si dà il benvenuto a generi che un tempo non ci
appartenevano, mi addolora il passo falso di un conterraneo che
ha sempre avuto cura dell'emozione. Cosa dire sulla sua
ultima fatica – anche se, nel seguirlo, la fatica più grande è la
nostra – che non sia già stato detto? L'insuccesso di La
corrispondenza non lo comprendevo, prima di vederlo. E, ancora,
non mi capacito del risultato. Un melodramma stucchevole con due protagonisti male
assortiti, un'idea gettata alle ortiche e un regista che ha dato
forfait. Senza mezzi giri di parole, bruttissimo. Di chi è la
colpa? Una caccia al tesoro che si fa ripetitiva in fretta, un
doppiaggio pessimo, una storia d'amore che risulta insana? Indipendentemente da tutto ciò, La
corrispondenza parte male sin dall'incipit. Due amanti lontani
per età, lui professore e lei studentessa, che si baciano come in
Via col vento e si sussurrano parole gonfie di enfasi. E le
parole, dopo la morte improvvisa di lui e il dolore di lei, non
cessano: retoriche, zuccherose, irrazionali. Un Jeremy Irons
irritantissimo, all'indomani del suo trapasso, lascia a una Olga
Kurylenko in stato catatonico sms, lettere, email e case sul lago. Il
danno vero, oltre a un Morricone letargico, lo fa una scrittura che si scopre surreale,
pur di non incappare nei passi del ben più godibile P.S. I Love
you. Si ride dell'impiego di stuntman di lei – a cui, in una
sequenza ridicola, taglia la strada un'anziana in
carrozzella – e i comprimari, burattini senza fili,
sono inanimati smista-posta mandati lì dal caso. Troppe le
coincidenze, infinite le falle narrative: le loro età distanti, tra
l'altro, rendono irreale, carico e gelido cotanto struggersi.Tornatore, ti sei
perso? Tornatore, però torna. (4)
Alice,
impiegata in uno studio legale, si è presa una pausa di riflessione
dal suo fidanzato: vuole sperimentare. Sua sorella, Meg, ha 40 anni, nessuna relazione stabile e il desiderio improvviso di
avere un bambino, da sola. Robin, strabordante e sboccata, un
fidanzato non lo cerca; Alice, invece, ha creato
un algoritmo per trovare quello perfetto. Il fidanzato di Alice la molla per un'altra; Meg, in
attesa del fiocco rosa, conosce una tipo bizzarro ma dolce; Robin è
Robin e Alice, che scrocca il wi-fi al bar sotto casa, fa mettere la
testa a posto al barman dongiovanni di turno. Single ma
non troppo – imbarazzante trasposizione dell'inglese How to
be single – mi ha fatto compagnia in una seria
infrasettimanale e, a sorpresa, si è rivelato meglio del previsto;
gradevolissimo. Io, che immaginavo un Sex & The City con
un rinnovo generazionale, mi sono trovato davanti, invece, una
commedia corale ben recitata e piuttosto ben pensata, lunga e
popolosa, ma a cui la regia del fresco Christian Ditter e la penna di
Marc Silvestein, già sceneggiatore di La verità è che non gli
piaci abbastanza, danno ironia, ritmo e, qui e lì, un
romanticismo che non intacca il proposito iniziale: mostrare un
gruppo di amiche che bastano a loro stesse. New York è bella, e più belle ancora sono Dakota Johnson e Leslie
Mann, sorelle indipendenti; poi c'è la classica Rebel,
volgarissima, e una superflua Alison Brie, che invece, dalla sua, non
ha neanche la simpatia esagerata della Wilson. Qualche personaggio –
la Brie, appunto, il vedovo facoltoso e il barista per trombamico –
apparentemente non ha una collocazione precisa. Aveva senso
inserirli, se una protagonista ci mette la freschezza, l'altra la
maturità e la terza i doppi sensi a gogò? Direi di no, ma Alice,
abbarbicata su un monte e con una copia di Wild sul
comò, in un elogio ponderato alla solitudine, ci dice che qualche
donna resiste ai vuoti e qualcuna si accasa, che qualche uomo cambia
e qualcuno viene a patti con l'abbandono. (6,5)
Will
e Eden si sono separati. Si rivedono a
cena, due anni dopo la tragedia, con i rispettivi compagni e gli
amici di sempre. I faccia a faccia, inevitabili;
l'ingresso di nuove figure, in una compagnia altrimenti affiatata;
meccanismi che scattano e di rado si inceppano, tra fascinazione,
gelosie e eros. Chi è più strano fra loro, tutti gaudenti e
amichevoli, e Will, al contrario, sospettoso e inaffidabile? The
Invitation, invito a casa con mistero, è un thriller
indipendente che in rete ha subito fatto parlare di sé. Per alcuni,
addirittura, siamo al cospetto del thriller dell'anno; per chi non porta pazienta, invece, altro non è che una lunga noia. Io mi
colloco tra un eccesso e l'altro. Incrocio ideale tra il nostro
Perfetti sconosciuti e The Path, serie Hulu attualmente
in onda, ha tutta l'aria di un dramma da camera a tinte fosche,
sull'elaborazione e il perdono. L'ultima mezz'ora si rivelerà,
infine, un'escalation di violenza e tensione non così prevedibile.
Il giusto compromesso tra l'introspezione degli inizi e la fretta
dell'epilogo. The Invitation spicca per una scrittura profonda
– più nel dramma dei due genitori che nei risvolti da brivido – e una recitazione, nonostante un cast di bellocci del
piccolo schermo, sopra la media. Ma come un incensato
Honeymoon, curato nel romanticismo e sbrigativo se alle prese
con l'omaggio allo sci-fi d'altri tempi, il thriller psicologico
funziona più parlando dell'elaborazione che dei coltelli nascosti
dietro la schiena. Del dolore, e di tutti i mezzi a nostra
disposizione per sfuggirvi. Al lutto, e ai ricordi scomodi. Allora,
c'è la rabbia silenziosa di Logan Marshall-Green, che non dimentica.
Sorrisi falsi, per la seducente Tammy Blanchard, e la complicità del
sempre corteggiatissimo Michiel Huisman, che in una comunità
religiosa – e in un amore non del tutto disinteressato – han
trovato illusoria consolazione. (7)
Steven, giovane ai vertici di una casa discografica, in anni in cui la musica vendeva, e di musica si viveva o
si moriva, ha tanti potenziali nemici, troppe grane e più di qualche
grattacapo. Per fortuna, Steven non ha peli sulla lingua e
nessuno scrupolo. Accattivante e spietato, perennemente su di
giri, avrà forse paura di sporcarsi un po' le mani per ottenere ciò
che desidera? Tratto da un romanzo di John Niven e diretto
con agilità dal semi-esordiente Owen Harris, Kill Your Friends
è una commedia nera e a tinte splatter, con una colonna sonora
preziosa, il panorama musicale anni Novanta a fare da suggestivo
sfondo e, infine, un protagonista cinico e divertentissimo che regala
al film le sue trovate migliori. Maestro nelle
macchinazioni, shakesperiano negli umori, ha il volto di un bravissimo Nicholas Hoult, che con una prova
piacevolmente sopra le righe fa dimenticare gli
errori di ingenuità: un epilogo crudissimo contrapposto a un incipit
canonico, ad esempio; meno eccessi di quanti ne avrei graditi; risvolti
intuibili. Il prodigioso bambino di About a boy e Skins
è cresciuto, ed è diventato un perticone di un metro e novanta,
bello come il sole e sfacciato in modo assurdo: arrivista come pochi. Perché
questo Steven, che sembra un Patrick Bateman rivisto e corretto o,
ancora, il "lupo" Jordan Belfor passato dai titoli in borsa ai
pentagrammi, si rivolge a tu per tu alla macchina da presa, manda giù
sciacquabudella a fantasia, conosce a fondo la cocaina e le sue
infinite derivazioni e, come se avesse importanza, la musica che
produce nemmeno gli piace. (6,5)
Forse, più di noi.
RispondiEliminaTanto da perdere di vista il fatto che il cinema, soprattutto quello dei tempi d'oro, era un veicolo di belle storie. ;)
Ai fratelli Coen non so resistere, Kill your friends mi incuriosisce e Tornatore neanche se mi pagano (se dovesse tornare però non mi dispiacerebbe ;-) ).
RispondiEliminaun saluto da Lea
Il Tornatore che gioca a farsi l'internazionale poco m'ispira - come "canta" la Sicilia lui, però, nessuno -, ma La migliore offerta era elegantissimo. Questo è un pasticcio assurdo col suo nome sopra!
EliminaUn saluto a te e, intanto, mi riprometto di studiarmi meglio i Coen. Non li afferro.
Il film dei Coen Bs. (che giustamente tu definisci un film a episodi cuciti alla meglio) io lo vedo come un atto d'amore verso il cinema in quanto tale: il protagonista potrebbe guadagnare molto di più occupandosi di aerei, ma è attratto magicamente da quel mondo di sogni e di personaggi sbirolati
RispondiEliminaPerò, ecco, io questa magica attrazione dell'incasinato Brolin non l'ho vista. Non l'ho trovato neanche il protagonista, non saprei dirti. Spassoso, sì, ma mi ha confuso le idee...
EliminaQuesta volta non mi ispira nessuno di questi titoli :)
RispondiEliminaLascio il beneficio del dubbio solo a The Invitation, ma solo perché tu hai dato un 7! XD
The Invitation è curioso, indubbiamente, e in America sta facendo parlare di sé. ;)
EliminaCon la corrispondenza confermi quello che già pensavo.. il resto dei film passo, i coen poi proprio non li reggo XD
RispondiEliminaAhi, ahi, Tornatore...
EliminaThe Invitation guarderòllo stasera, mentre il divertissment (sì, lo chiamo anche io così XD) dei Coen mi era piaciuto un sacco;l'unico difetto che ho trovato è lo spreco di bravi attori che compaiono troppo poco, in effetti.
RispondiEliminaPoi Hill, con un cameo di due secondi, in copertina?
EliminaPotevano lasciare spazio anche a noi, vicino a Scarlett.
La Swinton, però, è sempre perfetta.
Ho recuperato qualcosa da te sponsorizzato nelle puntate precedenti: The Dressmaker and The VVitch!
RispondiEliminaEntrambi belli, ma il film horror di più!
Tra questi mi pare interessante Invitation, ma potrei concedere il beneficio del dubbio anche ai Coen. ;)
I Coen piacciono, quindi non ti fidare di me ;)
EliminaTroppo buono con Single ma non troppo!
RispondiEliminaIo l'ho trovato una poracciata assurda. Dakota Johnson peggio che in 50 sfumature e Rebel Wilson ormai insopportabile.
Sui Coen invece decisamente d'accordo: mai andati a genio nemmeno a me e qui mediocri come al solito.
Kill Your Friends da ragazzo cresciuto negli anni '90 ovviamente mi ha gasato parecchio, anche se non è esattamente originale.
La corrispondenza boh, non ho capito se l'ho detestato o se in fondo, nella sua assurdità, un pochino mi è piaciuto. Ma forse giusto un pochino pochino. :)
The Invitation è tra le prossime visioni...
Prima di vedere The Invitation, pensa un po', Single ma non troppo era il film meno brutto visto in settimana, secondo me, ahahah! Pasticciato, però piacevole.
Eliminaper i Coen posso capire... ma a me è piaciuto, giù solo la scena con i patriarchi vale una sacco di film che ci sono ora in sala e il loro nichilismo nebbioso nella mia testa è sempre ben accetto :-)
RispondiEliminaQuello di Tornatore non lo guarderò nemmeno con una pistola puntata....
Senz'altro sono di alt(r)i livelli e c'è sempre qualcosa che mi piace molto - in quello con Isaac, ovviamente, la colonna sonora pazzesca, qui costumi e coreografie - però, per me, dovrebbero rinunciare a fare tutto da soli: un film dopo l'altro, mi accorgo di come non abbiano idee. Non mi riferisco, ovvio, a Non è un paese per vecchi, che aveva il romanzone di McCarthy alle spalle. ;)
EliminaAi Coen io voglio bene e questo divertissment, o pastiche, mi ha intrattenuto a dovere, piacendomi come giornata all'interno di uno studios hollywoodiano.
RispondiEliminaSaltando a piè pari le single, ché rimango una snob, mi hai incuriosito sia con The Invitation (cene fra "amici" chiusi in una stanza? Segno!) sia con Kill your friends (atmosfere pulp anni '90? Segno!).
ps: non c'entra con il post, ma ho visto che stai leggendo Lo strano viaggio di un oggetto smarrito: è bello bello come me lo ha descritto Vanity Fair?
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