martedì 1 luglio 2025

Recensione: L'università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, di Goliarda Sapienza

|Autobiografia delle contraddizioni, di Goliarda Sapienza. Einaudi, € 20 |

È stata allevata in casa per sfuggire alla propaganda fascista. Staffetta partigiana, attrice, scrittrice, aspirante suicida, icona femminista, Goliarda Sapienza ha vissuto mille vite e flirtato spesso con la morte. A cent'anni dalla sua nascita, il mondo la sta riscoprendo tra letteratura e cinema. Dopo l'amore sconfinato per L'arte della gioia, ho recuperato L'università di Rebibbia e Le certezze del dubbio — entrambi hanno ispirato il film di Mario Martone presentato a Cannes.

Chi non sa che la bellezza è anche protezione dai mali della vita e dagli incubi della notte?

Due racconti autobiografici, brevi e armoniosi, guidati dallo sguardo acuto di Goliarda. In carcere per furto, descrive il suo soggiorno dietro le sbarre. Il silenzio innaturale dell'isolamento iniziale, il latte col brumoro, ma soprattutto la ritualità e i colori di un microcosmo femminile che sembra uscito da un salottino del sud. Le carcerate fumano, giocano a carte, parlano di amori e di delitti. Sciantose come uccelli esotici, si fondono in una voce sola. Disparate — disperate mai —, accolgono volentieri questa sofisticata cinquantenne che indossa camicie di seta e ringrazia per tutto. Il corso accelerato di vita di Goliarda, senza distinzioni di età né di censo, dura poco. Tornata presto in libertà, lotta contro il caldo romano e la nostalgia del “dentro”, dove le convenzioni sociali non contano e tutto è istinto. Tutto è natura. Può l'esperienza del carcere rivelarsi liberatoria? A partire da questa contraddizione, Goliarda — fuori posto nei salotti letterari italiani — rievoca con calore commovente l'intimità con le compagne di cella, la fame delle loro storie, gli andirivieni con Roberta: una detenuta politica sensuale e ipercinetica, molto simile all'indimenticabile modesta.

Perché scrivi, Goliarda?” “Per allungare di qualche attimo la vita delle persone che amo.” “E con loro anche la tua, eh, volpona?” “Certo. Chi odia a tal punto la vita da non desiderare di vederla allungata almeno per un po'?”

Benché attento al materiale di partenza, Martone ha costruito un biopic troppo lirico e frammentario, in cui la bravissima Golino interpreta una versione ben più arrendevole e naïf dell'autrice. Goliarda, invece, era ironica, indocile, a proprio agio sia con l'italiano aulico che col romanesco. Subito dopo l'arresto, dichiara la fantasia sua nemica: in cella, meglio non avere troppi grilli per la testa. Per fortuna, era bugiarda come nessuno. Innamorata della vita, innamorata degli altri, fantastica per tutto il tempo e immortala tra queste pagine un apprendistato lungo un verdetto. Ha rubato una collana. O, semplicemente, la sua parte di gioia?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mina – Città vuota

venerdì 13 giugno 2025

Recensione: Amarsi in una casa infestata, di Matteo Cardillo

| Amarsi in una casa infestata, di Matteo Cardillo. Mercurio, € 19, pp. 264 |

In X, primo capitolo della trilogia cinematografica di Ti West, c'è una sequenza in cui la terrificante Pearl — ormai anziana, ma non per questo meno sanguinaria — si intrufola nel letto della pornodiva Maxine. È attratta dal suo calore, dalle sue carni sode ed elastiche, dalla sua giovinezza. Gli spettri del romanzo d'esordio di Matteo Cardillo provano la stessa fame struggente verso la vita che hanno lasciato. È per questo che si concentrano a Bologna, la città universitaria per antonomasia, al piano terra di un palazzone in stile Liberty aperto agli studenti. Mentre un'estate implacabile svuota le strade della città e i mandarini imputridiscono sui rami, nell'appartamento di Viale XII giugno si snodano le esistenze e le relazioni degli inquilini. Storie di sesso e tradimenti, di crisi personali e lavorative, che ben presto rianimano dal sonno eterno gli antichi abitatori. Il risveglio sensoriale di Amarsi in una casa intestata, a confine tra il romanzo di formazione e la ghost story, tra il desiderio e l'orrore, contagia anche i morti.

Ci saremmo di nuovo baciati con affetto come facevamo un tempo, sulle spalle, sulle clavicole, dicendoci ti amo, rispondendoci ti amo anch'io, perché in quello spazio fuori dal tempo, quel luogo della notte, nel tempo dei morti, tutto vale e tutto esiste ancora e non esiste più, e così anche i noi due di una volta.

Aggrappato a quel che resta dei vent'anni e a una relazione ormai al capolinea, il protagonista — per tutto il tempo senza nome — diventa un diapason per gli spiriti intrappolati dietro le pareti e, soprattutto, la voce di una generazione in cerca di risposte: la mia. Alle pareti ci sono poster di Argento. Le sorelle Morelli, le enigmatiche proprietarie di casa, somigliano alle dame velate dei film di Plaza e Balagueró. La campagna emiliana della medium Beniamina è la stessa del capolavoro di Avati. Con una scrittura personale e magmatica, Cardillo attinge a piene mani al cinema di genere, di cui è dichiaratamente fan, ma non dimentica che il linguaggio dell'horror ben si presta alla metafora. Tra le pagine, così, l'autore pugliese ospita un dolente giro di vite dove presente, passato e futuro si confondono e gli amanti abbandonati, insieme ai traumi rimossi, scivolano inesorabilmente nell'intercapedine dei nostri ricordi. Esiste forse tragedia peggiore della bellezza sciupata? I fantasmi ci spiano dalle porte a vetri, scavano nella carta da parati, picchiano contro i muri. Un po' ci tormentano e un po' ci consolano — vittime come siamo del precariato, della schiavitù delle app d'incontri, degli strascichi fisici e psicologici del Covid-19. Sarà proprio il loro fiato gelido a ricordarci che siamo caldi. E vivissimi. Tanto vale, allora, lasciare che i lamenti si confondano coi gemiti di piacere. E dormire insieme, popolando il buio di carezze, per scoprirsi meno estranei e spaventati di quanto non fossimo la notte prima.

Il mio voto:  ★★★★
Il mio consiglio musicale: Matia Bazar – Elettochoc

martedì 3 giugno 2025

Per trenta minuti: Dying for Sex | The Studio | Overcompensating | The Four Seasons

Può una miniserie sulla morte scoppiare di vita? È la scommessa, vinta, di Shannon Murphy. Già premiata a Venezia per Babyteeth, la regista torna a declinare la malattia in chiave umoristica trasponendo la storia vera di Molly Kochan: quarant'anni, due tumori, nessun orgasmo, abbandona il marito imbelle pur di realizzare i suoi desideri più inconfessabili. In francese, d'altronde, chiamano l'orgasmo così: petit mort. Dovremmo quindi stupirci se assisteremo al sesso più libero e pazzo dell'anno in Dying for Sex, storia di una malata al quarto stadio, anziché nel patinato Babygirl? Tragici e spregiudicati, gli otto episodi seguono l'odissea della protagonista dalla diagnosi fino all'ultimo respiro, senza mai staccarsi dal viso di una Michelle Williams radiosa come non mai — sarà colpa della radioterapia? In scena: l'assoluta centralità del corpo femminile. Nel piacere. Nel dolore. Vittima di abusi da bambina, continuamente in balia dei medici da adulta, Molly esercita il pieno dominio di sé stessa soltanto nelle vesti di mistress. Tutto è scoperta, perfino i kink più assurdi, ma potrebbero esserci effetti collaterali: rompersi il femore prendendo a calci gli attribuiti del vicino di casa, ad esempio, o finire per innamorarsi di lui. Ma quella diretta da Murphy è soprattutto una grande storia di sorellanza: l'amicizia tra Williams e l'inseparabile Jenny Slate si candida a rimanere la storia d'amore più struggente dell'anno. (8,5)

Immaginate di poter conoscere i meccanismi produttivi di un immaginario studio cinematografico a Los Angeles. Il responsabile, un Seth Rogen strepitoso come non mai, è un sognatore sprovveduto  e pasticcione che vorrebbe conciliare cinema d'autore e film commerciali. È possibile, però, tra acquisizioni, problemi di budget e pressioni crescenti da parte di pubblico e media? Il cinema è cambiato. È in crisi? Se sì, quanto è grave? A metà tra Boris e Call my Agent, Apple produce una delizia metacinematografica sui retroscena più folli del microcosmo hollywoodiano. Se i Continental Studios contano in squadra anche gli iconici Bryan Cranston, Catherine O'Hara e Kathyn Hahn, il resto del cast vanta cameo non da meno: registi (Scorsese, Howard, Polley, Wilde, Snyder) e attori (Kravitz, Franco, Lee, Efron) sulla cresta dell'onda, infatti, si prestano con autoironia a una satira che si prende estremamente sul serio. Senza mai dimenticare i fasti dei Golden Globe e del CinemaCon, The Studio mostra la frustrazione dei piani sequenza, gli inconvenienti della pellicola, i casting al tempo del politicamente corretto, le guerriglie interne e le mancata riconoscenza. Il tutto con dialoghi fluviali e una regia elettrizzante, che somiglia a un'improvvisazione jazz di Damien Chazelle. (8)

Tornate indietro a quindici anni fa. Su MTV andavano in onda Blue Mountain State, Hard Times, Faking It. Eravamo felici e lo sapevamo. Coprodotta da Amazon e A24, la serie scritta e interpretata dal brillante Benito Skinner è un atto d'amore alle commedie universitarie di quegli anni. Qui aggiornate, però, in una versione immancabilmente più gentile, inclusiva, queer. Tante le partecipazione delle icone televisive del passato: James Van Der Beek, Connie Britton, Kyle MacLachlan. Immancabili, ma questa volta con autoironia, gli attori trentenni chiamati a impersonare un gruppo di matricole. Ambientata all'incirca nel 2014, vanta poster di Megan Fox alle pareti e una colonna spudorata dove Britney, Lady Gaga e Charli XCX guidano i protagonisti tra feste, sesso e segreti. Per quanta lieve ed esilarante, la serie ha un titolo che è tutto un programma: sovracompensazione. Chi non ha mai mentito per aderire alle aspettative del prossimo? Tutti, non soltanto il protagonista gay, nascondono non detti e fragilità private. Tutti, perfino i cattivi di turno, sono vittime delle pressioni sociali e degli stereotipi. Riusciranno, tra una risata e l'altra, a liberarsi delle maschere superflue – e dei vestiti? E noi, riusciremo? (7,5)

Dopo l'esageratissima Unbreakable Kimmy Schmidt, Tina Fey torna come sceneggiatrice e interprete di una nuova dramedy approdata su Netflix sotto silenzio – almeno in Italia. Questa volta più amara e misurata che in passato, vicina alle atmosfere del cinema di Woody Allen, raduna tre coppie di amici di mezza età mostrate in quattro diverse stagioni dell'anno e della vita. Nonostante vantino matrimoni longevi, nessuno è al sicuro: la crisi dei cinquant'anni minaccia di mettere in forse vacanze, relazioni, amicizie. Fey patisce l'apatia del marito, Will Forte; Colman Domingo trova soffocanti le moine dell'iperprotettivo Marco Calvani – che rivelazione, quest'ultimo –; e poi c'è Steve Carell, sempre immancabile, sempre più fascinoso, che all'indomani di un anniversario in pompa magna abbandona la moglie Kerri Kenney-Silver per una trentenne. La trama non è tra le più originali: anzi, si ispira all'omonimo film degli anni Ottanta. Tutto è estremamente classico, ma altrettanto ben scritto. Tutti sono privilegiati, annoiati, ciarlieri, come nei migliori romanzi di Peter Cameron, eppure è matematicamente impossibile non volere loro bene. Occhio all'episodio finale, però: dopo tanta leggerezza, un colpo di scena da crepacuore è in agguato. (7)

martedì 27 maggio 2025

Recensione: Le sorelle Blue, di Coco Mellors

| Le sorelle Blue, di Coco Mellors. Einaudi, € 20, pp. 432 |

Con alcune storie, forse, tocca soltanto litigare per entrarci in sintonia. Mi è successo con il nuovo romanzo di Coco Mellors. Da me attesissimo, si è lasciato leggere per buona parte in perfetto silenzio: non riuscivo ad ammettere nemmeno a me stesso, infatti, quanto mi stesse deludendo. Colpa di dinamiche familiari non sempre credibili — i genitori, all'indomani di un lutto terribile, sono completamente assenti —, di dialoghi talmente verbosi da rubare la scena al cordoglio, di un gruppo di protagoniste descritte tutte con i superlativi assoluti delle donne toste, forti, indipendenti. Per fortuna, ci ho fatto la pace nella seconda metà. Cresciute nel Upper West Side, Le sorelle Blue sembrano le figlie di Cleopatra e Frankenstein.

Ti voglio bene anch'io. Senza “anche”.

Nate da una coppia di genitori inseparabili e disfunzionali, ne hanno ereditato le dipendenze. Fuggite da un capo all'altro del mondo per scappare al dolore e ai rimorsi, si ritrovano nella casa in cui sono state bambine per l'anniversario della morte di Nicky. Da quando una overdose di antidolorifici l'ha portata via, le superstiti si sono trovate a fare i conti con una nuova formazione. Come funziona un terzetto? Avery, la primogenita, si è costruita una vita perfetta in un sobborgo inglese alla giusta distanza dal suo passato di eroinomane: da sempre punto di riferimento per le sorelle, si scopre pietrificata all'evenienza di diventare madre, rischiando di ricascare nelle antiche abitudini. Bonnie, la meno memorabile, è un'ex campionessa di boxe: l'attrazione segreta verso il suo allenatore l'ha spinta a trasferirsi in California, dove lavora come buttafuori. Lucky, la più piccola, è una modella a Parigi nella settimana della moda: dedita alle notti in bianco e agli eccessi, è cresciuta troppo in fretta in un mondo dove gli uomini sono predatori e alle donne è richiesta la massima frivolezza. Rotta per sempre l'armonia di un'infanzia di letti a castello e Spice Girls, possono riuscire a innamorarsi nuovamente della vita?

Si erano scritte pagine e pagine sull'amore romantico, sul legame profondo che unisce gli amanti. Ma anche quest'altro tipo di amore meritava estasi, meritava canzoni. Prima ancora di conoscere il corpo di un amante, lei conosceva già quello delle sorelle: si era specchiata nei loro piedi lunghi, negli occhi chiari, nelle membra eleganti e nelle orecchie arrotondate.

Di gran lunga più convenzionale del romanzo d'esordio, per me malinconico ed effervescente come alcune commedie newyorkesi di Woody Allen, l'opera seconda di Mellors è una parabola esistenziale imperfetta ma vivissima, che la speranza incrollabile e le simmetrie sottili trasformano in una versione contemporanea di Piccole donne. Peccato che protagoniste pretendano tutte indistintamente di essere Jo March. Alleate contro il mondo, ma per il resto acerrime rivali, serbano i peggiori segreti per loro stesse pur di proteggersi. Il rischio: isolarsi. Toccherà salvare un frigorifero rosa dalla nettezza urbana, convertire una lite in piena regola in una toccante occasione di confronto, per rivalutarsi. E rivalutarle. È una storia che parla di rapporti di sangue, d'altronde. Era necessario prima azzuffarsi un po' per diventare parte della famiglia.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Billie Eilish - Birds of a Feather

lunedì 12 maggio 2025

Recensione: Scelgo tutto, di Valerio Mieli

| Scelgo tutto, di Valerio Mieli. La Nave di Teseo, € 22, pp. 432 |

La vita, spesso, ci pone davanti a un bivio. Ecco biforcarsi due strade destinate a non incrociarsi mai. Come sarebbe percorrerle contemporaneamente anziché scegliere? Può sperimentarlo Cosimo — diciannove anni, da sempre fidanzato con Sabina —, che cova il sogno di una vita sbadabam. Accontentarsi? Una parolaccia. Davanti a sé ha due opzioni: restare nella periferia romana, oppure spiccare il volo. Il regista di Dieci inverni e Ricordi?, questa volta in veste di scrittore, ci mostra in un montaggio alternato le vite potenziali del suo protagonista. Perfino l'impaginazione si adegua, per rendere ancora più cinematografico questo novello Sliding Doors. In una vita, così, Cosimo si ritrova padre di due gemelli e impiegato comunale, con un rudere nei boschi da ristrutturare. Nell'altra, parte per Parigi con lo zaino in spalla e frequenta i cenacoli culturali più elitari. Ci sono, ovviamente, delle costanti: è destino, infatti, che una tragedia metta tutto in forse; che la natura preservi un rifugio segreto in cui nascondersi a leccarsi le ferite; che, in un caso come nell'altro, faccia capolino una nuova donna. A metà tra Mary Poppins e Amèlie, Giacoma diventa un personaggio fisso nella seconda parte del romanzo: avventurosa e un po' mistica, figura ora come babysitter e ora come barista, diventando l'alter-ego di Cosimo. Ma mentre lui osa soltanto immaginare vite diverse, lei ne crea in prima persona, collezionando così esperienze e viavai.

Sai una cosa: invece la realtà non è tanto male. Dagliela, una possibilità.

Da Valerio Mieli mi aspettavo qualcosa di simile e di opposto. Nella lettura ho trovato il passo sognante e frammentario del suo cinema — in particolare del secondo film, che mostrava la stessa storia d'amore dalle prospettive di Luca Marinelli e Linda Caridi —, ma anche un gusto per l'accumulo di dettagli e storie, aneddoti e immagini, che hanno reso la lettura troppo prolissa. Felice o infelici, affollate o ascetiche, le vite di Cosimo hanno le gioie e i dolori delle nostre, ma anche piccoli momenti miracolosi che potrebbe ricordare Sandro Veronesi. Irrequieto come Il colibrì, il protagonista si affanna inseguendo l'eccezionalità. Ingegnere con la vocazione dell'architetto, vorrebbe fare della sua esistenza un capolavoro. Ma è impossibile opporsi al caso, al caos, e all'amara consapevolezza che il nostro destino influenzerà anche quello altrui. Esiste davvero il libero arbitrio? Siamo protagonisti del nostro film, o spettatori inconsapevoli? Davanti al famoso bivio, dunque, Mieli posizione una macchina da presa. E la punta sul mondo. Il tempo scorre in presa diretta, incerto e dolcissimo, ma senza un vero plot né un regista a salvare gli attori dall'empasse. Cercavo il cinema, ho trovato la vita.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Olly – Balorda Nostalgia

martedì 6 maggio 2025

Recensione: Il giorno dell'ape, di Paul Murray

| Il giorno dell'ape, di Paul Murray. Einaudi, € 22, pp. 664 |

A casa Barnes non c'è nessuna foto incorniciata a ricordare il matrimonio tra Imelda e Dickie. La colpa è di un'ape che la mattina delle nozze si intrufolò sotto il velo, pizzicando il viso alla sposa. Come può nascere una famiglia felice sotto simili auspici? Siamo in Irlanda. La crisi economica ha intaccato la fortuna dei protagonisti, condannandoli al declassamento, ma non la magia del folklore locale. C'è chi legge i fondi di caffè, chi vede cani neri all'alba delle dipartite più tragiche, chi pensa che alle cerimonie i fantasmi si mescolino agli invitati. Mai trascurare i segni. È l'assunto di partenza del romanzo più chiacchierato dell'anno — per qualcuno, già il migliore. Sempre scorrevole e appassionante, nonostante la mole minacciose, è per me più debitore alla HBO che alle saghe di Jonathan Franzen.

I tempi cambiano, dice Victor. E poi tornano com'erano prima.

Strutturato come una serie TV dal complesso montaggio alternato — immancabili, a tratti forzatamente, le tematiche dettate dall'algoritmo: privilegio bianco, omosessualità, ambientalismo —, Il giorno dell'ape restituisce i punti di vista dei diversi membri della famiglia, senza renderceli amabili a tutti i costi. Ci sono Cassie, la figlia adolescente, ossessionata dai confronti con la migliore amica bella e facoltosa; PJ, il timido secondogenito vittima della disattenzione degli adulti. Poi Imelda, l'indimenticabile madre, che in un flusso di coscienza si racconta come una novella Miss Havisham: sopravvissuta a un'infanzia miserabile, si è resa protagonista di una sudata scalata sociale con il solo passaporto della bellezza. Peccato che alla morte di Frank, il promesso sposo stella del calcio gaelico, sia finita insieme al fratello del defunto. Quanto ci si può sentire soli in un matrimonio? È la domanda che si pone infine anche Dickie — il padre dei suoi figli, il rimpiazzo —, che vende automobili ma preferisce andare in bicicletta e nasconde un ammanco nei conti, un segreto negli anni universitari, un bunker nel bosco.

Immagino che chiunque lo vorrebbe. Essere come gli altri. Ma nessuno è come gli altri. È questa la cosa che abbiamo in comune. Siamo tutti diversi, ma pensiamo tutti che gli altri siano uguali, disse. Se ce lo insegnassero a scuola, il mondo sarebbe un posto più felice, credo.

I capitoli sono personalizzati, lunghi, quasi indipendenti, se non fosse per sottili simmetrie interne rintracciabili soprattutto col senno di poi. Fino a un passo dell'epilogo, i Barnes sono irraggiungibili gli uni agli altri: barricati nelle loro rispettive solitudini. A stringerli insieme sarà un finale fortemente sospeso, angoscioso e polifonico, dove misteriose forze centripete sembreranno volerli nello stesso posto, nella stessa notte di lampi. Se ne scriverà in lungo e in largo: benissimo e malissimo, come capita soltanto ai bestseller. Io stesso, nel corso della lettura, ho rimproverato il manierismo della scrittura e gli ammiccamenti di troppo, tra dialoghi senza virgolette e tematiche calde non sempre approfondite a dovere. Sono sottigliezze, però, nell'ottica di un romanzo che, per il resto, è un invidiabile congegno a orologeria retto interamente dalla bravura di Paul Murray. Con stile acido e brillante, anche capace delle concitazione del thriller, lo scrittore irlandese firma una tragicommedia sull'impossibilità di tornare alla normalità quando la carrozza della fiaba torna a trasformarsi in zucca. Alluvioni, siccità, animali in via d'estinzione: il mondo è alla deriva, e le nostre famiglie ne sono lo specchio esatto. Lo scoiattolo rosso non si trova; la serenità familiare altrettanto. Entrambi appartengono, forse, a un mondo che non esiste più. È possibile però costruire un rifugio contro disastro, chiamarlo “casa”, quando il disastro siamo noi?

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: The National – Sleep Well Beast 

mercoledì 30 aprile 2025

Recensione: Il weekend, di Peter Cameron


| Il weekend, di Peter Cameron. Adelphi, € 18, pp. 177 |

Fine luglio, anni Novanta. Se bianchi, ricchi e privilegiati a New York, può apparire legittima la tentazione di ritirarsi dal mondo per un po'. Magari di trasferirsi in campagna? Lyle, un attempato critico d'arte, prende il treno per raggiungere John e Marian: legati da un'amicizia decennale, hanno in comune anche un lutto da elaborare. Tony, compagno del protagonista e fratellastro di John, è infatti morto di Aids l'anno prima. Un fine settimana di ricordi condivisi all'ombra dei gelsi e di nuotate al fiume è stravolto, però, da due ospiti dell'ultimo momento. Il primo, Robert, è l'ultima frequentazione di Lyle: meno inconsolabile del previsto, infatti, il vedovo si accompagna con un bel pittore con la metà dei suoi anni. La seconda, Laura Ponti, è un'italiana in vacanza: ai ferri corti con la figlia attrice, accetta volentieri l'invito a cena dei vicini di casa. Siamo nel più classico dei romanzi di Peter Cameron. E, con il senno di poi, nel più sottovalutato.

Ci sono cose che si perdono e non tornano indietro; non si possono riavere mai più, se non nella copia carbone della memoria. Ci sono cose a cui sembra impossibile rassegnarsi, ma a cui rassegnarsi è inevitabile. Lo scorrere dei giorni leviga il dolore, ma non lo consuma: quello che il tempo si porta via è andato, e poi si resta con un qualcosa di freddo e duro, un souvenir che non si perde mai.

Sono tutti cinici, colti, snob. Parlano troppo, e a sproposito, alimentando aperte ostilità a dispetto del perbenismo diffuso. Per tutto il tempo serpeggia un disagio strisciante. Per fortuna, Cameron si riconferma l'artefice dei dialoghi più belli del mondo. Le lunghe contestazioni dell'esistenza dell'anima gemella, le frecciate al vetriolo contro la vacuità della narrativa contemporanea e le massime vibranti di spocchia — gli immobili sarebbero preferibili agli innamorati — suoneranno acide e assolutamente deliziose alle orecchie di coloro che hanno amato le vite segrete di Perfetti sconosciuti. All'apparenza meno caustico del film del nostro Paolo Genovese, Il weekend è una commedia umana densa di tensioni latenti, dove la vicinanza forzata cambierà per sempre dinamiche e relazioni. Possono due soli giorni essere percepiti come un secolo? Mentre la padrona di casa cerca di scongiurare i silenzi imbarazzanti con considerazioni a sproposito, mentre gli uomini si rifugiano in nuovi hobby per superare il lutto, gli ospiti faranno notare il disgustoso perbenismo dei protagonisti e, forse, troveranno una soluzione ai loro errori di percorso. Secondo Cameron, la vita è una vacanza. Ma chi, nel bel mezzo della villeggiatura, esaurito il divertimento di iniziale, non ha mai sperato di poter tornare immediatamente a casa?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Sufjan Stevens – Forth of July