Murphy,
americano, ed Electra, giramondo, fanno coppia fissa da un po'. Sono
a quel punto della relazione in cui amano stuzzicarsi, scoprire cosa
sogna il partner quando chiude gli occhi. Si sono visti, si sono
piaciuti, si sono spogliati a Parigi. Hanno avuto i corpi, adesso
ambiscono alla mente: cos'ha in testa lui, cosa lei? La realizzazione
di un sogno erotico comune ai più – un ménage à trois con una
sconosciuta – porterà la coppia a scoppiare. Crack, e viene
meno la fiducia reciproca. Crack, e si rompe il preservativo
di lui e l'altra ragazza, amante occasionale, aspetta un figlio che
chiamerà Gaspar. Crack, e ad Electra – con un nome da
eroina tragica e un'inclinazione alla tristezza – si spezza il
cuore. Love, dopo un incipit shock, ci porta nella vita del
protagonista, due anni dopo. Quando un altro amore – quello per il figlio, però – ha rimpiazzato l'innamorata mai dimenticata.
Quando, a Capodanno, una chiamata dal passato lo getta nello
sconforto: cos'è successo ad Electra, così vulnerabile e così allo
sbando? Ha un titolo presuntuoso, Love, e un'etichetta coniata
dalla critica: il porno d'autore del provocatorio Gaspar Noé saprà
forse portare a termine il suo folle volo - raccontare l'amore
tutto, quello con l'articolo determinativo davanti e la
lettera maiuscola -, mostrando il dentro e il fuori, i corpi giovani
e le anime sofferenti dei suoi personaggi in crisi? Ha, a precederlo,
una fama losca, una serie di poster espliciti e l'accoglienza
tiepida di Cannes. Dove qualcuno si era scandalizzato e qualcuno
annoiato. Il clamore mi ha incuriosito in fretta e la provocazione
non mi trova, generalmente, scosso: a mio agio con il nudo – con
quello degli altri, almeno, ché io sono un "tipo" già coi vestiti
addosso -, ma stomacato, a tratti, dall'insistenza e dal voyeurismo
della pornografia – se fosse il contrario, sapete che lo ammetterei pure.
Love è un melodramma di struggente intensità, che mostra
cosa succede alla coppia - negli amari e chiacchierati boy meets
girls che sempre fanno breccia, da queste parti – prima e dopo la
passione. Per la prima volta, però, lunghe inquadrature ci mostrano
il durante. Le cose belle, quando si è assonnati; le cose brutte, se
immersi nel quotidiano. Le droghe e la gelosia a fare prima da
collante, poi da ponte tibetano, sospeso tra loro: reggerà mai? Ci si
abitua presto, quindi, al nudo e al resto. In due ore e quindici,
dunque tante, Murphy ed Electra si acchiappano e si lasciano, si
amano e si riamano – sono leggeri, liberi e, qualche volta,
trasgrediscono – ma è una sola la sequenza di cattivo gusto,
pensata per gli occhialini 3D e la sfida gratuita al pubblico; un
isolato esempio di provocazione fine a sé stessa. I bravissimi Karl
Glusman, marcio d'amore, e Aomi Muyock, una visione, parlano di
desideri reconditi, oppiacei, nomi di bambini, Kubrick e Robert
Frost. Fanno faville fuori e dentro il letto. Stesi senza vergogna,
sotto le luci rosse, e proiettati al futuro. Noé – alter ego del
protagonista, che vorrebbe dirigere un film di “sangue, sperma e
lacrime”, di “sessualità sentimentale” – ci accompagna sulla
sua arca spregiudicata, con scatti rubati e ritrovati, un senso di
segreto, le lenzuola spiegazzate, i messaggi in segreteria e i
ricordi lampo. La colonna sonora è incalzante, inquieta, e la
fotografia un gioiello oltre la soglia massima del realismo. Mentre i protagonisti, duo aperto alle
sperimentazioni, ti danno, nel frattempo, il benvenuto nel loro trip e nella loro
camera da letto. Quanto sei disinibito e quanto innamorato, tu? Le
inquadrature fisse, i corpi in moto. I giri di vite. Il fuoco dei
lombi e il gelo dei cuori. Sempre prima, dopo e durante. Com'è
il sesso, incensurato, ai tempi dell'amore. (8)
Ho
scoperto il piacere delle liste; degli appunti al volo sui post-it,
ché poi mi dimentico. I più, in questi giorni, stavano appuntando
i bei propositi per l'anno nuovo. Io, blogger all'improvviso
allergico alle festività, ho compilato una lista, un'altra, per
assicurarmi di non aver perso qualcosa lungo il tragitto. In crisi
davanti all'imminenza dei famosi listoni, ho saccheggiato
idee dai miei siti di fiducia per darmi ai recuperi finali. In fondo
alla lista, un nome su cui non riponevo particolari aspettative:
senza vergogna, non vi nascondo quanta antipatia mi faccia il cinema
del sopravvalutato Sorrentino. A costo di rischiare il linciaggio
pubblico, sul triondo della Grande Bellezza ne ho dette di
cotte e di crude, tra amici. Forse ero in difetto io, non abbastanza
sensibile al fascino del film antinarrativo – in quel caso, lontano
nipote di La dolce vita, che compensava con il manierismo e
l'ingiustificata autostima alla pochezza di idee e a un modesto
talento. Forse erano in difetto loro, che non avevano visto quanto
fosse strappacuore la concorrenza di Il sospetto e
Alamaba Monroe. In una Roma di tentazioni e ambizione, i
personaggi del film Premio Oscar ricercavano feste su feste: il film,
per me insostenibile, era un circo lungo e grottesco; cacofonico. In
Svizzera, all'ombra dei monti, si persegue la pace dei senti.
Harvey Keitel, ignaro che di lì a poco la grande diva Jane Fonda gli
darà il benservito, lavora al suo ultimo film – stando a lui, un
testamento morale – attorniato da una squadra di sceneggiatori
hipster; Paul Dano, giovane portento, è una star di Hollywood che
medita su un ruolo storico che poco gli si confà; un meraviglioso
Michael Caine, direttore d'orchestra in pensione, tenta come può di
eludere le proposte di un insistente funzionario reale e di consolare
Rachel Weisz, nevrotica e bellissima, che gli rimprovera di essere
stato un padre assente e un marito ancora peggiore. Si spia, inoltre,
quel che combinano gli altri ospiti, e giusto qui, in siparietti
talora stranianti e surreali, fa capolino il Sorrentino che meno
tollero: il cameo trash di un falso Pibe de Oro; una massaggiatrice
con l'apparecchio ai denti che fa fitness; una colonna sonora
instabile che, tra l'indie rock, gli arpeggi delicati, le arie
liriche e l'accompagnamento onnipresente e discreto della chitarra,
ho trovato – altro pregiudizio sfatato, dunque – intensa e, a
tratti, conciliante. Dal ritorno del regista napoletano, dalla prova
del nove che va sotto il nome di Youth, sono passati
esattamente un'estate e un autunno; acqua abbondante, sotto i ponti
e nelle piscine termali sui monti spruzzati di neve. Ma per i
protagonisti, galantuomini attempati in villeggiatura, il tempo è
come cristallizzato: non si invecchia, coccolati e viziati, tra le
mura di un Grand Budapest Hotel in cui gli anziani sperano di
liberarsi del peso degli anni – fanno miracoli i massaggi e le alte
temperature delle saune; le visioni conturbanti di Miss Universo
senza veli smuovono i pochi ormoni ricettivi – e i giovani, stanchi
dei tradimenti coniugali o di impegni stressanti, imparano a
inspirare ed espirare, piano. Quante probabilità c'erano che
questoYouth, che da quel che leggo ha deluso gli estimatori
doc di Jep Gambardella, a sorpresa, mi piacesse oltre qualsiasi mio
fondato pregiudizio? Quieto, fotografato d'incanto, recitato da
leggende viventi. Diretto con attenzione, senza strafare. Scritto molto bene - e non pensavo che avrei mai potuto ammetterlo -, con
i suoi dialoghi buffi, mordaci, veri. La poesia, più che negli
estemporanei aforismi cari al furbissimo Paolo, è allora nelle rughe
d'espressione di impareggiabili gentlemen, nella visione di
un'orchestra invisibile in mezzo a un prato verde. Dove tutto è
musica, dove tutto è – davvero, questa volta – "grande bellezza".
(7,5)
L'irruzione
nella casa di un quartiere periferico. Una sparatoria violenta che
apre voragini nei muri e la scoperta, dietro le pareti, di un puzzo
terrificante – l'odore della morte – e di
tasselli di delitti irrisolti. Un'indagine che diventa qualcosa di
più grande e che coinvolge tante teste, tante squadre, fino a
smarrire i concetti di verità e bugia, giustizia e vendetta.
L'obiettivo, su cui i fucili di precisione non osano distogliersi: la
lotta ai signori della droga; la ricerca di un tunnel, nascosto tra
le dune e le piante spinose. Una bocca che sputa, negli Stati Uniti,
un po' del peggio. Le atroci barbarità di una terra di confine. Cosa
c'è realmente in ballo? Quella è una guerra – al narcotraffico,
alla paura -, ma alla fine cosa si vincerà? Se la mia tipica
impassibilità davanti al cinema d'azione mi rende incapace, anche in
questo caso, di distinguere una sparatoria dall'altra – corpi in
moto, esplosioni e spari in cielo mi sembrano grossomodo tutti
uguali, indipendentemente dalla cornice: sono una persona
superficiale e tanto annoiabile, perdonatemi -, di Sicario ho
però apprezzato il peso degli interrogativi etici e la chiusa
amarissima, la fretta che va da qualche parte, il cast smagliante. Il
meglio di Villeneuve. Benicio Del Toro, che ha gioco facile in uno
spigoloso ruolo dei suoi, con i metodi poco ortossi e un ritorno –
dopo Soderbergh – alle frontiere messicane. Un Josh Brolin
istrione. Gli occhi belli e cristallini di Emily Blunt – inglese e
troppo delicata per i climi aridi e il fuoco incrociato, eppure in gamba – che coincidono, alla fine, con quelli dello spettatore
medio: stordito e, a lungo, tenuto all'oscuro di una verità che
sfugge. In Sicario,
secondo lungometraggio americano del canadese il cui stile ricorda
quello dei più grandi, spettatore e personaggi – tranne quello di
Kate, forse, idealista e donna in un ambiente tutto al maschile – hanno punti
di vista incompatibili e un diverso grado di conoscenza. Li si
osserva agire in silenzio, presubilmente per una causa di forza
maggiore che ci piace far coincidere con il sommo bene. Prima si
spara a bruciapelo, poi si muovono le prime domande. E ci accolgono i
corpi penzolanti dei capri espiatori – sembra di essere in un borgo
medievale, cent'anni fa, eppure si tratta della contemporanea El Paso
– e la disincantata morale che mali estremi richiedono estremi
rimedi. La legge parla una lingua già morta.
(7)
L'anno scorso,
scorrendo la lista delle mie letture, si direbbe che sia riuscito a
leggere qualcosa in più. Cento libri, più o meno, ma di una
decina, sul blog, non trovereste traccia. Testi teatrali che ho letto
per un esame. Il dovere si era rivelato piacere, alla scoperta della grande tradizione partenopea. E
Napoli, poco dopo, l'ho ritrovata in Il ladro di nebbia e in
Elena Ferrante; come a ricordarmi che un po' – con nonni e genitori
campani – faceva parte di me. Con dicembre che finiva, vi ho fatto ritorno con Per amor vostro, il dramma di Giuseppe Gaudino
che, a Venezia, ha visto trionfare una Golino al suo massimo. Gli
appellativi di film d'autore o, ancora, di pellicola surreale, mi
facevano però tremare: la magniloquenza e il visionario mi trovano
purtroppo incompatibile. Dov'è il surreale, penserete, sentendo che
parla di Anna, una donna di mezz'età, vittima di un marito usuraio e
di visioni ad occhi aperti? Napoli, e lì brilla sempre il sole, si
spegne, se si accende la scintilla nel regista. Un limpidissimo
bianco e nero, in un'unione a una fotografia di raro lirismo, avvolge
la città e i suoi personaggi pensierosi. La depressione di Anna,
donna fragile e di buon cuore, è assenza di colore. Ma il curioso
espediente formale risulta ora romantico – il bianco e nero d'altri
tempi si addice all'infatuazione della protagonista per l'attore
Adriano Giannini, con cui desidererebbe vivere un'ingenua passione da
soap – e ora inquietante; la sua infelicità rende Napoli la
dantesca città dolente, burrascoso il mare, spaventoso il cielo. Ma
ogni tanto irrompe il blu, tenue come un acquerello, e la narrazione
si ferma, per dare spazio alla visione di variopinti inserti musicali
– il neomelodico, le canzoni sanremesi alla radio, le arie di
Handel – e per dipingere intorno ad Anna, santificandola, aureola e
manto. L'idea è semplice, la resa visiva accattivante e kitsch: una
vita opaca, che chissà se scoprirà mai l'avvento del colore. Un po'
come in Mommy: l'alter ego di Dolan poteva concedersi la
libertà dei 16:9? Il flusso di coscienza di una impareggiabile
Golino riesce nell'impresa ardua di mostrarsi agli occhi, con un
esperimento coraggioso che non risulta mai manierismo fine a sé
stesso. La verità non si mette in discussione, con siparietti
domestici toccanti – i litigi furibondi, l'uso del linguaggio dei
segni per spiegare a un figlio sordomuto cosa dice la tivù - e
quelle famiglie in cui non c'è pace. Infelici a modo loro, ma anche
a modo nostro. “Non c'è niente”, dice Anna, per nascondere con
fierezza le sue fatiche di donna e le lacrime. “Non sei niente”,
le dicevano quand'era figlia e adesso che è mamma. Nell'esplorazione
del suo mondo, triste e illuminato a sprazzi, le spieghiamo però
quanto si sbaglia. In Per amor vostro se non c'è tutto,
comunque c'è tanto. E lei – che non a caso porta il nome della
Magnani – è qualcuno che non scorderai. (7,5)
Ci
sono arrivi che sconvolgono, come quello di Abe – insigne
professore di filosofia, stimato saggista, dongiovanni impenitente –
in un college americano dove non succede mai niente e, all'improvviso, tra colpi di fulmine e morti sospette, succede di
tutto un po'. Ci sono arrivi, invece, che neanche aspetti più: la
troppa puntualità vizia, genera un curioso disinteresse. E' il
caso, ad esempio, dei film di Woody Allen: al cinema, nel periodo di
Natale, da quando ho memoria. Arriva inatteso dai più – ci
culliamo, oramai, nella certezza che salterà fuori, con le luminarie
e i pacchi regalo -, ma pur sempre degno di una visione o due. A
volte dirige film belli e a volte film brutti. Tipo chiacchierone,
bizzarro, che ama i dialoghi fiume e detesta le vie di mezzo. Ogni
volta, dunque, è una roulette russa: avrà il colpo in canna, la
marcia in più, il lungometraggio che ci proporrà sotto l'albero?
Dopo Blue Jasmine – acidulo, freddo, ma con una memorabile
diva in crisi di nervi – e il nostalgico Magic in the
moonlight – omaggio dai colori pastello alla commedia anni
trenta -, eccolo con Irrational Man.
Profondamente suo, con l'accompagnamento jazz, gli inconfondibili
titoli d'apertura, il citare sé stesso –, in questo caso, quel
Match Point che, da ragazzino, mi fece rivalutare da capo un
cinema che ritenevo borghese, logorroico, lontano da me. Un film - al contrario di ciò che dice il titolo - razionale, sì, ma quanto fine a sé stesso? Pareri positivi, eppure, mi rassicuravano: non c'è due senza tre. La storia è quella di
un insegnante in in crisi esistenziale, ma carismatico,
che è pane per i denti di donne crocerossine. Più delle attenzioni di
Parker Posey, madre di famiglia che abbandonerebbe tutto a un suo
cenno del capo, e della venerazione di una leziosa Emma Stone,
promettente studentessa dal fidanzato noiosissimo e dalle ambizioni
chiare, a stuzzicare l'appesantito e affascinante Joaquin Phoenix –
e lui, ovvio, merita sempre il prezzo del biglietto – è il
pensiero della morte. Uccidere uno sconosciuto, pianificare il
delitto perfetto. Ritrovare, così, l'ispirazione, il vigore fisico,
la gioia di vivere. Ma a che prezzo? Il cineasta nevrotico che non
ama le mezze misure, il film uscito a metà, invece pianifica
Irrational Man bene, ma pochissimo. O, comunque, non abbastanza: con i suoi bravi
attori, le citazioni colte, il senso globale che gli manca per essere
bello e la maestria presente, al contrario, che gli impedisce di
essere brutto con faccia tosta. Una pistola inceppata, al gioco della
roulette, salva il protagonista dalla sua stessa avventatezza; il
film – incrocio insapore, incolore e inodore tra la commedia e il thriller e destinato a un
epilogo tragicomico – spara a salve, nel vuoto. (5)
Concordo su woody allen, io questo non sono nemmeno riuscita a finirlo, gli ho dato un occhio solo perchè molti lo avevano messo in classifica.
RispondiEliminaPoi anche quel Blu Jasmine... l'interpretazione di Cate e della sua comprimaria erano davvero notevoli, la sua davvero da oscar, ma quel film non finisce!
A me, invece, Blue Jasmine era piaciuto, non solo per la magnifica Cate. Gli script teatrali, da qualche anno a questa parte, mi fanno impazzire. Su Irrational Man: mio padre ha fatto più o meno come te; ha abbandonato presto il divano. ;)
Eliminanon posso dire che non mi fosse piaciuto, ma non ho trovato sensato che finisse così. Secondo me un film con tanti monologhi e dialoghi come dici tu molto teatrali dovrebbe comunque finire con un segno di chiusura o all'apice della tensione. Non so se è chiaro il mio ragionamento ;)
EliminaSì, capisco benissimo. Guarda, può darsi che non lo ricordi bene io, anzi, senz'altro. Ricordo questa grandiosa crisi di nervi sulla panchina, nel parco, ma non come ci si è arrivati, ahahah ;)
EliminaA me, però, è mancato qualcosa. A distanza di settimane, ho scordato le scene d'azione - per carità, splendide - e mi è restato in testa solo il bel finale. Villeneuve, nel bene e nel male, si fa ricordare, di solito, un po' di più ;)
RispondiEliminaNon avevo intenzione di recuperare Youth dato che La grande bellezza è un film che ho trovato insopportabile (non sono riuscita a finirlo), vista la tua recensione potrei dargli una chance. Mi dispiace invece per Allen, che spesso mi regala qualche ora di svago e qualche dialogo intelligente.
RispondiEliminaConcordo sulla Grande Bellezza, tronfio e interminabile. Questo, invece, mi ha piacevolmente sorpreso. Anche grazie a un cast non proprio da poco. In quanto ad Allen: ci riproverà il prossimo anno, dài.
EliminaLove ancora non lo vedo, sicario per me tra i migliori film di quest'anno, youth carino ma non troppo con un finale molto bello,per amor vostro devo vederlo in questi giorni e su Irrational man la penso più o meno allo stesso modo per me Match Point è tra i film più sottovalutati di Allen
RispondiEliminaMatch Point, infatti, conto di rivederlo. Ho in mente giusto il finale.
EliminaCondivido decisamente.
RispondiEliminaLove e Youth molto affascinanti, anche se da me non ce l'hanno fatta a entrare nella top 10 dell'anno.
Sicario ha dei punti a suo favore, però è stato ampiamente sopravvalutato.
L'ultimo di Woody Allen pure per me decisamente spento e da buttare via.
E la Golino ancora mi manca, però con quell'accostamento a Mommy quasi quasi...
Mommy è di ben altri livelli, e vabbe', però è da premiare la buona idea, formulata in "casa nostra". :)
EliminaCon Love è stato amore a prima vista, non vedo l'ora di parlarne! Su Youth, già sai, il fatto che tu lo abbia apprezzato lo rende ancor più il miglior film dello scorso anno ai miei occhi, convincere un allergico a Sorrentino la dice lunga :)
RispondiEliminaSicario film solidissimo, ma che purtroppo a lungo andare si dimentica per la trama più che per la regia fantastica, Irrational Man è invece un Woody riciclone, che non mi ha convinto, ma mi ha annoiato e anche irritato. Sarà per il prossimo anno :)
E concordiamo!
EliminaDi Love ne avevo sentito parlare, piuttosto male, durante il periodo dell'ultimo festival di Cannes. Bollato come un porno qualsiasi, meno male che ci sono i blogger che fanno critica indipendente e non moralista.
RispondiEliminaComunque questi film in lista vorrei recuperarli tutti, mi dispiace che Phoenix si sia trovato a collaborare con un Allen spento, se entrambi fossero stati in forma avrebbero potuto fare scintille assieme.
Phoenix, in ogni caso, fa un figurone.
EliminaA Cannes, di Noé, ne hanno dette di cotte e di crude: mi hanno rassicurato prima Marco, poi Lisa, e così l'ho recuperato. Bella sorpresa, minimo scandalo.
Solo 7 al mio adorato Sicario???nahhhh...mi ha incuriosito love mentre di Irrational Man parlerò nei prossimi giorni!
RispondiEliminaColpa tua - e di Ford. Troppo entusiasmo! :-D
EliminaAlcuni mi mancano, ma spero di recuperare presto per un confronto su tutti! :)
RispondiEliminaPasso a leggerti :)
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