Il cinema di Guillermo Del Toro è il Paese dei balocchi. Irresistibile all'apparenza, ha sempre nascosto un cuore buio. Ma le sue favole, anche quando contaminate dall'horror, non hanno mai rinunciato alla speranza: spesso, a portarla, era la morte stessa. Il suo ritorno al cinema, passato talmente inosservato che la nomination al Miglior Film è parsa un fulmine a ciel sereno, sorprende anche senza colpi di scena. È un Del Toro senza magie. È un Del Toro senza speranza Adattamento dell'omonimo romanzo, racconta l'ascesa e la caduta di un Bradley Cooper più bravo che mai: in fuga dai sensi di colpa, si rifugia prima tra gli artisti di un circo itinerante; successivamente, accompagnato da una dolcissima Rooney Mara, punta a mettere in pratica i trucchi appresi (anzi, rubati) presso riccastri affascinati dal mentalismo. Come non soccombere però alla seduzione di Cate Blanchett, perfida femme fatale esperta di psicologia e spiritismo? Diviso in due metà antitetiche, unite dalla beffarda chiusa circolare, La fiera delle illusioni inizia come un'epopea alla Steinbeck e ammalia, poi, con le atmosfere da noir: lo zampino del regista è lì, in un'estetica ineccepibile, e nella resa agrodolce della vita dei saltimbanchi (la giostra dei cavalli ispira romanticismo, ma la sorte dell'uomo bestia, intanto, fa raggelare). Al di là di uno stile ormai perfettamente riconoscibile, glissando sui cliché di un genere antiquato, il film si rivela una morality play amara, nichilista, dalla puntualità spaventosa. A muovere i passi (falsi) di Cooper è l'amore (per chi?), o la disperazione? Cosa spinge i suoi facoltosi clienti, invece, a lasciarsi illudere? Metafora della settima arte, forse la fabbrica di menzogne per antonomasia, è la perdita dell'innocenza di un autore Premio Oscar. Nel suo petto, batte un cuore nerissimo. E dal Paese dei balocchi, questa volta, si esce trasformati tutti in asini raglianti. (7,5)
Davanti alla presenza di una pellicola coreana agli Oscar, è impossibile non pensare ai fasti di Parasite: che il miracolo si ripeta anche quest'anno? Per quanto sorga spontaneo il confronto tra gli outsider asiatici alla conquista di Hollywood, i paragoni insensati andrebbero a discapito di Minari: lontano dalla folgorazione del thriller satirico, ma a modo suo bello e speciale comunque. Ambientato negli Stati Uniti degli anni Ottanta, il film segue la famiglia Yi dall'Oriente all'Arkansas. Partiti con il desiderio di mettere su una fattoria dove coltivare frutti e ortaggi asiatici, i protagonisti si ritrovano a condividere una bizzarra casa su ruote e venti ettari che, nei giorni pari, somigliano al giardino dell'Eden in terra. Mentre il cocciuto capofamiglia Steven Yeun investe anima e corpo nel suo sogno americano, la moglie trascurata patisce l'isolamento: smetteranno di litigare grazie alla suocera – Yoon Yeo-Jeong, in odore di statuetta –, esilarante vecchina che non cucina biscotti né prega per il Paradiso, ma in compenso impreca e rubacchia. In una casa in cui c'è bisogno di acqua corrente, manodopera e benedizioni, a portare dolcezza incommensurabile è il punto di vista del piccolo David: primo di una lunga galleria di personaggi adorabili, indossa gli stivali da cowboy e cerca di non affaticare troppo il suo cuoricino malandato. Meglio evitare le emozioni negative. Su misura del protagonista, così, Lee Isaac Chung cuce una saga familiare quieta, solare, delicata in maniera disarmante. Un incanto bucolico ben più significativo di Elegia americana, dove l'erba commestibile sulle anse del fiume – il “minari” del titolo – viene a simboleggiare l'arte di cavarsela. Un gioiello d'altri tempi, per imparare a vivere meglio e saggiamente i nostri. (8)