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venerdì 16 giugno 2023

Ritorni d'autore: The Whale | Beau ha paura | Decision to Leave | Empire of Light | Close

Quello di Aronofsky è un cinema di corpi. Il wrestler Rourke spingeva il suo alle corde del ring; la ballerina Portman lo levigava alla ricerca ossessiva della perfezione. Fraser, vedovo gravemente obeso, ha trasformato la propria carne in prigione. Impegnato in una trasformazione indimenticabile, l'attore canadese recita con gli occhi e con quel corpo pantagruelico, sporco per tutto il tempo di muco, lacrime, cibo, sperma. Lo ha martoriato e martirizzato. Ma, al contempo, ha nutrito una commovente fede verso il prossimo. C'è davvero bontà nell'adolescente Sadie Sink? Hong Chau è un'infermiera amorevole o una carceriera? Ty Simpkins è mosso da afflato evangelico, oppure da altro? Hanno tutti luci e ombre. E Aronofsky li inchioda tutti al centro di un terrificante 4:3. Tutti in cerca di Moby Dick, tutti vittima delle loro vite passate, si lasceranno alle spalle la terraferma. E torneranno, finalmente, a vedere il mare. Solido, compatto, precisissimo, The Whale brilla per una scrittura teatrale inappuntabile e, generoso, contiene a fatica la silhouette di Charlie, così come gli strepiti di rabbia e nostalgia di un cast splendidamente assortito. Su tutti, come un Cristo amorevole, incombe l'adorato Fraser: vincitore dell'Oscar, ci regala un disperato canto del cigno. E una lezione su come amare gli altri pur odiando, fino alla morte, sé stessi. (8)

Beau ha paura. Prima della visione, ne avevo anch'io. Accolto tra applausi e pernacchie, il terzo film di Ari Aster (anzi, la terza fatica) è un'odissea psicologica che divide. Cinematografico eppure profondamente letterario, ha le nevrosi di Roth, gli atti mancati di Svevo, le metamorfosi di Kafka: il tutto messo in scena su una struttura fiabesca degna di Collodi. La visione, tappa dopo tappa, mostra il classico viaggio dell'eroe. Nello spasimato epilogo diventerà un uomo vero? Caotico, ma diviso in atti ben distinguibili, il film si apre come una distopia ambientata in un quartiere da poco riqualificato; si sposta poi in un salotto da sitcom americana, con due pimpanti coniugi pronti ad adottare il protagonista; sfocia nel teatro dell'assurdo e, all'ultimo, nell'horror psicologico, con tanto di mostro da sconfiggere. Si ride. Ci si sorprende. Si sbuffa. Sorpresi e sgomenti, proprio come questo Phoenix perennemente imbambolato, si vive la visione come un'avventura nell'avventura. Noi siamo nella testa di Beau. Ma Beau è nella testa di sua madre – una LuPone da Oscar. Si dice che i registi girino sempre il medesimo film. Questo Aster, lontano dai confini sicuri (be', si fa per dire) dell'horror, riprende i temi di Hereditary e li getta in un'autobiografia che, in contrasto con l'insostenibile pesantezza dell'essere, non poteva che farsi commedia nera. Non è troppo presto per autocitarsi? Il regista newyorkese avrà già finito le idee? Mi godo lo spettacolo; mi tengo il dubbio. Beau ha paura è una cosa divertente che non vedrò mai più. (7+)

Lui è un detective tutto d'un pezzo, a cui la ricerca della giustizia ruba finanche il sonno. Lei, cinese in Corea, è la principale sospettata dell'omicidio del marito. Questa è la storia di un'ossessione amorosa. Vietato, però, aspettarsi un torbido thriller erotico. Sontuoso nella messa in scena, a modo suo romanticissimo, l'ultimo Park Chan Wook è una schermaglia sentimentale illuminata da sprazzi impensati d'umorismo e da colori finora inediti al regista della Trilogia della Vendetta. A metà tra Insonnia d'amore e Vertigo, oscilla tra romcom e noir, mare e montagna, tenerezza e manipolazione. A tratti classico come un melodramma d'altri tempi, a tratti modernissimo per via del continuo ricorso alla tecnologia per superare la barriera linguistica tra i protagonisti, ammalia attraverso la cronaca di una dolce ossessione. La regia è di uno splendore indescrivibile, così come splendidi sono questi amanti al centro di un continuo flirtare; di un continuo inseguirsi. Ma l'intreccio, fragile e diluito, somiglia a quello di un racconto poliziesco che risulta stare un po' largo in una trasposizione cinematografica di oltre due ore. Restano le suggestioni del grande cinema festivaliero. E gli indizi, sparsi, del più infido tra i casi irrisolti: l'amore. (7)

In un piccolo cinema della costa inglese si intrecciano gli amori, i tradimenti e le tragedie dei dipendenti. Anche Sam Mendes, dopo il collega Spielberg, parla della magia della sala. Ma questa volta i riflettori non sono puntati su Hollywood, bensì sulle sale cinematografiche: qui rifugi per cuori spezzati e anime in pena. Nonostante lo spazio dedicato a figuranti d'eccezione, la protagonista è la fragile e timida bigliettaia che non ha mai il coraggio di irrompere in sala e godersi lo spettacolo. Affetta da una grave depressione, trova conforto nei colori caldi della bellissima fotografia di Roger Deakins e tra le braccia dell'ultimo arrivato: nero, giovane, pieno di vita. Accolto negativamente dalla critica, Empire of Light ha una dimensione corale mai realmente approfondita e troppa carne al fuoco. Ingenuo e sfilacciato, mostra il fianco alle critiche peggiori soprattutto nel finale: anzi, nei finali. Troppi, e didascalici. Ma mentirei se dicessi di non avergli voluto bene, vinto dalla gentilezza dei suoi protagonisti e dall'ennesima grande interpretazione di Olivia Colman. Il regista, lo stesso delle coppie scoppiate e delle battaglie in piano sequenza, torna e spiazza. Per i più, delude. Ma ci regala una coccola inaspettata, di buoni sentimenti e con vista mare. (7)

Leo e Remy sono inseparabili. Vanno a scuola in bicicletta, giovano a inseguirsi, dormono appaiati come due lenti a contatto e, sulla soglia dell'adolescenza, scelgono lo stesso liceo. Con una risatina, una compagna di classe domanda loro: “State insieme?”. Ne nasce un dramma dall'intensità straziante, che ha ridotto le sale a un silenzio tesissimo. Piangevamo tutti. Per la dolcezza disarmante della prima parte e per il dolore della seconda. Tormentati e pensierosi, infatti, i piccoli protagonisti si struggono nell'ombra della malizia sorta all'improvviso tra loro. Crescono, ma con il rischio di perdersi. A dispetto del titolo, questa è una storia di allontanamento. E quei bellissimi campi fioriti percorsi non più di pari passo, ma da soli, commuovo perfino più dell'inevitabile risvolto tragico in agguato. Cosa implica crescere? Cosa significa, ieri come oggi, essere uomini? Il secondo film di Lukas Dohnt, reduce dai fasti di Girl, è una tragedia sulle parole non dette e su quelle di troppo. Una riflessione sulla sessualità e sul dolore negati, in cui, nell'era della mascolinità tossica e nell'età acerba delle prime consapevolezze, è più lecito piangere per un braccio rotto che per un cuore spezzato. (8)

venerdì 18 febbraio 2022

And the Oscar goes to: La fiera delle illusioni | The Lost Daughter | Don't Look Up | CODA

Il cinema di Guillermo Del Toro è il Paese dei balocchi. Irresistibile all'apparenza, ha sempre nascosto un cuore buio. Ma le sue favole, anche quando contaminate dall'horror, non hanno mai rinunciato alla speranza: spesso, a portarla, era la morte stessa. Il suo ritorno al cinema, passato talmente inosservato che la nomination al Miglior Film è parsa un fulmine a ciel sereno, sorprende anche senza colpi di scena. È un Del Toro senza magie. È un Del Toro senza speranza Adattamento dell'omonimo romanzo, racconta l'ascesa e la caduta di un Bradley Cooper più bravo che mai: in fuga dai sensi di colpa, si rifugia prima tra gli artisti di un circo itinerante; successivamente, accompagnato da una dolcissima Rooney Mara, punta a mettere in pratica i trucchi appresi (anzi, rubati) presso riccastri affascinati dal mentalismo. Come non soccombere però alla seduzione di Cate Blanchett, perfida femme fatale esperta di psicologia e spiritismo? Diviso in due metà antitetiche, unite dalla beffarda chiusa circolare, La fiera delle illusioni inizia come un'epopea alla Steinbeck e ammalia, poi, con le atmosfere da noir: lo zampino del regista è lì, in un'estetica ineccepibile, e nella resa agrodolce della vita dei saltimbanchi (la giostra dei cavalli ispira romanticismo, ma la sorte dell'uomo bestia, intanto, fa raggelare). Al di là di uno stile ormai perfettamente riconoscibile, glissando sui cliché di un genere antiquato, il film si rivela una morality play amara, nichilista, dalla puntualità spaventosa. A muovere i passi (falsi) di Cooper è l'amore (per chi?), o la disperazione? Cosa spinge i suoi facoltosi clienti, invece, a lasciarsi illudere? Metafora della settima arte, forse la fabbrica di menzogne per antonomasia, è la perdita dell'innocenza di un autore Premio Oscar. Nel suo petto, batte un cuore nerissimo. E dal Paese dei balocchi, questa volta, si esce trasformati tutti in asini raglianti. (7,5)

Una professoressa di mezza età trascorre le vacanze al mare in solitaria. Qui viene attratta da una giovane mamma, dalla sua bambina e dalla bambola di lei: suggestionata dall'incontro, mette inconsciamente in moto vecchi e dolorosi ricordi. La trama di uno dei primi romanzi di Elena Ferrante, all'apparenza elementare, era in realtà materia incandescente difficile da maneggiare. Ci voleva qualcuno coraggio come l'attrice Maggie Gyllenhaal, qui al suo esordio alla regia, che forse sarebbe stata una scelta ben più giusta della solita Olivia Colman per incarnare le fragilità della protagonista femminile. Per non uscire fuori dai margini, Gyllenhaal rischia pochissimo (cambia l'ambientazione: non più l'Italia, ma la Grecia) e adatta il tutto con fedeltà filologica. Ma mentre il romanzo è sottile, una scheggia perfetta, il film si trasforma per eccesso di zelo nella sua versione più densa, caotica e pesante. Pur conservando i vaghi simbolismi horror, la regista rinuncia all'aura perturbante e saffica della vicenda – leggendo avevo pensato a un incrocio bollente tra Swimming Pool e Chiamami col tuo nome –, concentrandosi sui flashback di gioventù: per quanto la candidata all'Oscar Jessie Buckley si confermi un'interprete straordinaria, avremmo voluto vedere più Datoka Johnson. Motore dell'azione, l'attrice delle Sfumature di grigio ha poche battute e nessuna alchimia con il personaggio di Leda, che su carta immaginavo più intrigante e sensuale di questa Colman un po' goffa sotto l'ombrellone. Si può trarre un film da una storia pressoché infilmabile? Può una sceneggiatura sciogliere i non detti dell'inconscio? Qualcuno come Jane Campion, spietata e morbida perfino nel suo ultimo western, avrebbe osato il miracolo. Maggie Gyllenhaal, per quanto audace nelle scelte – ricordiamo, infatti, una carriera attoriale costellata di piccoli ruoli scandalosi –, fa il passo più lungo della gamba e non si dimostra all'altezza. (6)

Non me ne frega niente, cantava Levante, se il mondo crolla e non mi prende. La stessa indifferenza avvolge i protagonisti dell'ultima commedia di Adam McKay. Minacciata dall'arrivo di un cometa, la Terra ha cinque mesi prima della collisione: gli scienziati DiCaprio (bollato come il più sexy della TV) e Lawrence (vittima di una caccia alle streghe a colpi di meme) ci hanno avvisati. Peccato che, tra uno scandalo della Presidente Streep, le disavventure sentimentali della pop star Ariana Grande e i piani megalomani di un novello Steve Jobs, a nessuno importi dell'umanità. Se nell'era del consumismo tutto può essere monetizzato, chi ci salverà da noi stessi? Lungi dall'essere il miglior film del 2021, Don't Look Up è il più rappresentativo per ridere di gusto dei nostri folli anni e dei nostri folli coinquilini in quest'immensa casa blu chiamata Terra. Di quelli che negano ottusamente l'evidenza, anche davanti alle fosse riempite dal Covid-19; di quelli che minimizzano, procrastinano, inquinano; di quelli, stolti, che quando il saggio DiCaprio indica la luna (anzi, la cometa) guardano tuttalpiù il suo dito teso. Un cast di nomi altisonanti, per fortuna tutti adoperati al meglio, ci bacchetta prontamente in due ore tanto inquietanti quanto deliziose. L'apocalisse è già qui, ma siamo troppo impegnati a guardare altrove. Tranquilli: non è niente di serio, grazie a un quarto di Xanax e a una sceneggiatura originale (si fa per dire: si limita a mettere in fila i nostri cliché, i nostri orrori, il nostro peggio) già in odore di Oscar. (7)

Cosa si prova a essere l'unica persona udente in una famiglia di sordi? Lo ha raccontato Claudia Durastanti in un libro finalista al premio Strega e, ancora prima, un film francese di qualche anno fa: La famiglia Belier. Grande successo di pubblico e critica, si è inevitabilmente prestato a un remake americano. A sorpresa, l'ennesimo rifacimento non richiesto ha stravinto anche all'ultimo Sundance. E allora meglio concedere un'opportunità a CODA (acronimo di Child of Deaf Adults), diventato uno dei protagonisti della stagione dei premi. Ruby, diciassette anni, ha una doppia vita. Ogni mattina sale come mozzo su un peschereccio per poi appisolarsi in classe. Sbeffeggiata dai coetanei, in casa è comunque a disagio a causa di quei familiari rumorosi, libertini, imbarazzanti. Sordi. Destinata a seguire le loro orme nell'attività di famiglia, la giovane si impensierisce quando scopre un talento inespresso: la musica. Ma come potrebbe una carriera da cantante non apparire un affronto verso i genitori? Di buoni sentimenti, perfetto in tempi di inclusività, questo remake prende molti degli sketch comici del film originale, ma con un convincente alternarsi dei punti di vista approfondisce il disagio vissuto dai protagonisti. Nonostante gli occhi (lucidi) siano puntati sul talento di Emilia Jones, attrice emergente di straordinaria empatia, c'è spazio anche per gli altri membri della famiglia. Per le loro paure, per il legittimo egoismo, per il loro drammatico isolamento. Apparentemente esclusi dalla ricerca dell'indipendenza della secondogenita, provano tuttavia il doloroso bisogno di capirla. Questa volta non si chiamano Belier, ma Rossi. Non parlano francese (be', si fa per dire), ma inglese. E lì dove non arrivano le parole intervengono magicamente l'università dei gesti, delle canzoni e un'emozione chiamata cinema. (7,5)

sabato 17 aprile 2021

Verso gli Oscar: Minari | Nomadland | The Father | Un altro giro

Davanti alla presenza di una pellicola coreana agli Oscar, è impossibile non pensare ai fasti di Parasite: che il miracolo si ripeta anche quest'anno? Per quanto sorga spontaneo il confronto tra gli outsider asiatici alla conquista di Hollywood, i paragoni insensati andrebbero a discapito di Minari: lontano dalla folgorazione del thriller satirico, ma a modo suo bello e speciale comunque. Ambientato negli Stati Uniti degli anni Ottanta, il film segue la famiglia Yi dall'Oriente all'Arkansas. Partiti con il desiderio di mettere su una fattoria dove coltivare frutti e ortaggi asiatici, i protagonisti si ritrovano a condividere una bizzarra casa su ruote e venti ettari che, nei giorni pari, somigliano al giardino dell'Eden in terra. Mentre il cocciuto capofamiglia Steven Yeun investe anima e corpo nel suo sogno americano, la moglie trascurata patisce l'isolamento: smetteranno di litigare grazie alla suocera – Yoon Yeo-Jeong, in odore di statuetta –, esilarante vecchina che non cucina biscotti né prega per il Paradiso, ma in compenso impreca e rubacchia. In una casa in cui c'è bisogno di acqua corrente, manodopera e benedizioni, a portare dolcezza incommensurabile è il punto di vista del piccolo David: primo di una lunga galleria di personaggi adorabili, indossa gli stivali da cowboy e cerca di non affaticare troppo il suo cuoricino malandato. Meglio evitare le emozioni negative. Su misura del protagonista, così, Lee Isaac Chung cuce una saga familiare quieta, solare, delicata in maniera disarmante. Un incanto bucolico ben più significativo di Elegia americana, dove l'erba commestibile sulle anse del fiume – il “minari” del titolo – viene a simboleggiare l'arte di cavarsela. Un gioiello d'altri tempi, per imparare a vivere meglio e saggiamente i nostri. (8)

Sono i nomadi di oggi. Hanno condotto vite uguali ma diverse. Adesso, reduci da drammi e declassamenti, si riconoscono in quanto simili. Si sfiorano. Negli spiazzi affollati. Nei parcheggi per le roulotte. In un film ispirato all'omonimo reportage di Jessica Bruder. C'è una malata terminale all'inseguimento di un ultimo viaggio della speranza. C'è chi, in pensione anticipata, sogna la libertà. Chi, ancora, giovanissimo, è appena scappato di casa. Poi c'è lei, Fran: vedova in cerca di lavoro. Che si arrangia, chiede aiuto e, qualche volte, lo dà. Che si sposta inseguendo l'ispirazione, la fortuna, sé stessa. Finché un brav'uomo non la tenta con la stabilità. La rivelazione Chloé Zhao ha un bel bagaglio di storie dal quale attingere e uno sguardo partecipe, commosso. Piacciono i rituali e l'armonia dei suoi nomadi. Piace al solito Frances McDormand, tenera e ruvida come soltanto lei sa essere, alle prese con il personaggio di una novella Thoreau (non cita a memoria Walden, però, bensì un celebre sonetto di William Shakespeare). Ma Nomadland, piccolo, onesto, genuino, nonché splendidamente musicato dal nostro Einaudi, in parte confonde: è un documentario, più che un film, e stranisce allora trovare un'attrice affermatissima, per quanto aderente al ruolo, in mezzo ai reali attanti. Probabilmente, dopo il Leone d'oro a Venezia e il trionfo annunciato ai Golden Globe, vincerà anche l'Oscar al Miglior Film. La cosa non scontenterà nessuno, neanche il sottoscritto, ma il risultato complessivo mi è parso frammentario e delicato. Sin troppo. (7)

Un ingegnere in pensione viene accudito dalla primogenita mentre l'Alzheimer, inarrestabile, gli ruba gli ultimi scampoli di vita e di memoria. Esordio alla regia per il drammaturgo Florian Zeller, The Father racconta la senilità con un approccio parzialmente nuovo. Dramma dai risvolti inesorabili, vanta infatti un montaggio da thriller e una sceneggiatura caleidoscopica fedele alle percezioni falsate del protagonista. Sospettoso, crudele e aggressivo, anche se ironico e affascinante all'occorrenza, l'ultraottantenne Anthony Hopkins lascia attoniti davanti all'ennesima prova magistrale; un delirio ossessivo in cui subodora cospirazioni e tradimenti, puntando il dito a destra e a manca. Chi ha rubato il suo orologio? Chi ha cambiato l'arredamento? Come mai i più non vedono l'ora di chiuderlo in un ospizio? Amorevole e devota, benché sull'orlo di una crisi nervosa, lo assiste una misurata Olivia Colman. Rigorosamente britannico, il film d'impostazione teatrale trasuda eleganza e manierismo. Per certi versi troppo patinato, per altri originalissimo nel restituirci la confusione di Hopkins, The Father è un singolare home invasion in cui le nebbie della malattia cozzano un po' con la lucidità della regia. Troppo cerebrale, troppo scritto, troppo ragionato, dimentica presto l'intenzione di raccontare l'Alzheimer dal punto di vista di chi soffre realmente d'Alzheimer. In ogni caso, nella moquette di questo salotto alto-borghese, in questo magma temporale tenero e spaventoso insieme, è una goduria sprofondare in compagnia di un interprete impareggiabile. (7)

Chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere, scriveva il francese Charles Baudelaire. In una Danimarca altrettanto decadente, un gruppo di frustrati professori di mezza età decide di sottoporsi a un esperimento sociale per migliorare le loro relazioni in famiglia e a scuola: ossia, bere. Stando a un filosofo realmente esistito, infatti, per ogni litro di sangue il nostro corpo avrebbe bisogno di 0,5 grammi di alcol per essere perfettamente bilanciato. All'improvviso più partecipi dome docenti, mariti e amici, i protagonisti con l'etilometro sempre in tasca giurano di non superare i limiti del consentito. Ma quanto è facile perdere la bussola, se ci si mette di mezzo l'imprevedibile dio Bacco? Dopo le infruttuose parentesi americane, Thomas Vinterberg torna alle origini danesi. Porta con sé il sempre grande Mads Mikkelsen – misuratissimo, qui depone la consueta aria ammaliante per un personaggio fragile e insicuro – e la fidata camera a mano, puntando agli Oscar. Pare, vincerà. Ma per me, a lungo indeciso tra provocazione e moralismo, tra dramma e commedia, il film è ben lontano dai fasti del Sospetto. Dopo una brillante prima, la riflessione sull'insostenibile leggerezza dell'essere (sbronzi) esaurisce in fretta lo spunto eversivo e si trascina su sé stessa, in un prevedibile vortice di autodistruzione. Martin, uomo di mezza età e marito insoddisfatto, riuscirà a lasciarsi alle spalle le inibizioni? E a smettere quando vuole con il vizio dei cicchetti di prima mattina? Nonostante tutto, la chiusa danzereccia è già cult. (6,5)

venerdì 1 febbraio 2019

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: La favorita | Green Book

Nemmeno un anno fa, parlando del Sacrificio del cervo sacro, mi dicevo attratto e disgustato dal mondo matto di Yorgos Lanthimos: il greco da concedersi a piccole dosi, tanto forte era il disturbo nei suoi lungometraggi, a cui ho sempre riconosciuto un tocco da maestro – Kubrick e Haneke, tocca scomodarvi – ma intrecci troppo ermetici, troppo strani, per conquistarmi. È tornato in anticipo con un film che su carta poteva scoraggiare: mai stato un appassionato di ricostruzioni storiche tutte intrighi e minuzie, infatti, e i pochi mesi di distanza trascorsi dall'horror con Colin Farrell e Nicole Kidman acuivano il rischio d'indigestione. Gli applausi, per fortuna, lo hanno preceduto. Mi sono giunti all'orecchio prima gli echi degli apprezzamenti a Venezia, poi la notizia delle dieci nomination agli Oscar. Davanti a una tale scrittura, a un tale trio, a un tale Lanthimos il pensiero vien da sé: per favore, diamogli tutti i premi che merita. La regina della fuoriclasse Olivia Colman, volto del piccolo schermo qui in attesa della definitiva consacrazione a star, tiene in gabbia diciassette conigli in memoria dei diciassette figli che ha perso. Nevrotica e bisognosa, si è attorniata di cuccioli, amanti e serve in una corte che dev'essere il capolavoro di architetti e scenografi. Immobilizzata dalla gotta, si trucca come un pagliaccio triste e, sul finale, una paralisi le renderà il viso rattrappito per metà. Mentre gli uomini indossano parrucche, importunano le ultime arrivate per dispetto, lanciano frutta ai buffoni nel ludibrio generale, le donne fanno. Hanno l'ultima parola nello scontro con i francesi, e la crudele Weisz vota per l'attacco, l'imprevedibile Stone per l'armistizio. Hanno parole di solidarietà, perfino di passione, verso una reggente patetica e abbandonata che si circonda di bellezza per contrastare il proprio decadimento fisico: la Weisz, amica di sempre e sempre stupenda, ci prova con modi brutali e consigli mirati; la Stone, sottovalutato agnellino sacrificale deciso a tornare nobildonna, si svende con moine, attenzioni, baci. Chi avrà la meglio? Non è questione di onore. Soprattutto, non è questione di bon ton. Il risultato, strepitoso e straniante, è una catfight che diverte da morire seppure con i corsetti e le gonne di costumisti in stato di grazia; di un Lanthimos che piace addirittura più del solito, grazie a una sceneggiatura affidata a terzi. Il suo tocco comunque non manca: dall'uso deformante del grandangolo al sesso promiscuo con cui puntualmente si sollazza, dalle parentesi grottesche agli attimi toccanti all'improvviso. Il dramma in costume non è mai stato così maleducato, tanto nudo e crudo: la storia è liberata dalla sua patina polverosa a suon di pallottole volanti, scariche di vomito, colpi proibiti sotto la cintola. La guerra non è mai stata priorità del sesso dominante, bensì un gioco caustico e lezioso per dame in prova e dame provette. Sorretto da un umorismo feroce, dalle autentiche eccellenze del cast e da un eleganza esageratissima, il regista greco rischia di rimanere purtroppo a bocca asciutta: non ci sono rivali che gli tengano testa, inutile dire il contrario, ma i pronostici sembrano aver parlato chiaro – qualche speranza soltanto per la Colman, per il comparto tecnico. Resterà uno dei colpi di fulmine dell'annata, posso già stabilirlo a febbraio. Resterà il mio favorito. (8)

Prendete un regista parte di un duo demenziale, Peter Farrelly, e assolvetelo grazie a una commedia tanto americana quanto funzionale. Gli ingredienti segreti, furbi ma altamente vincenti, amalgamati tutti in una sceneggiatura ammiccante – verso i temi giusti, verso le simpatie ormai sdoganate dell'Academy – eppure efficace dall'inizio alla fine, tra le atmosfere calorose del vicino Natale e la fidata supervisione del produttore Steven Spielberg. Uno splendido Viggo Mortensen, italo-americano con lo stomaco capiente e il cuore più grande ancora, condisce ogni conversazione con esilaranti improperi in siciliano stretto (d'obbligo, pertanto, la visione in lingua originale) e ha un fare attaccabrighe che spesso torna utile. Autista a tempo pieno, non ha grandi richieste per i successivi due mesi in viaggio se non tornare in tempo per il cenone. Nel mentre, da bravo sentimentale, scrive lettere sgrammaticate e dolcissime alla moglie e fa i conti con la propria natura di immigrato, con gli sgarbi e i soprusi di un'America doppiamente intollerante. Impara, così, a onorare l'amicizia con il suo datore di lavoro, un Mahershala Ali in cerca di un secondo Oscar: seduto sui sedili posteriori con le gambe accavallate e la coperta sulle ginocchia, il musicista lo rimbecca all'inizio con falsa antipatia e gli confessa infine le contraddizioni della propria solitudine. A che serve essere un virtuoso del pianoforte richiesto in lungo e in largo, infatti, se non è abbastanza bianco per gli illustri committenti, non abbastanza nero per la comunità afroamericana, non abbastanza uomo per sgualcire le giacche d'alta sartoria a suon di pugni? Grazie a una delle migliori coppie che avremo modo di ammirare al cinema quest'anno, la visione fila liscia come l'olio senza il rischio di perdersi strada facendo né di sorprendere. I confronti, il loro adorabile punzecchiarsi, rende godibilissimo il viaggio insieme nonostante le due ore di lunghezza. La strada di quest'ennesima strana coppia è già stata rodata da predecessori noti e sconosciuti, ma gli autori hanno un asso nella manica accanto ai ritmi perfetti e al cast indovinato: un manuale tascabile, il libro verde del titolo per l'appunto, che da un lato contiene dritte preziose su quali città evitare se sei un nero in trasferta nei violenti anni Sessanta; dall'altro, al contrario, le svolte da imboccare per un cinema vecchio stile che punti dritto all'obiettivo. Farci gioire e commuovere, nello spirito scanzonato delle commedie a tesi. Delle avventure con una morale nell'ultima riga, finale stucchevole a parte, forse troppo perfettine per piacere all'unisono, ma verso cui sembra impossibile muovere critiche sostanziali. È un film che sta alla controversa presidenza Trump come l'uvetta al panettone. È un film a cui, nel mentre, si vuole bene davvero, per quanto la benedizione dell'ottima compagnia sia preferibile a un andirivieni dagli indiscreti scossoni emotivi, ma senza curve a gomito. (7)