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martedì 8 aprile 2025

Recensione: Ava Anna Ada, di Ali Millar

| Ava Anna Ada, di Ali Millar. Sur, € 19, pp. 310 |

Cosa succederebbe se Yorgos Lanthimos dirigesse Saltburn, ma in chiave saffica e apocalittica? Lei, Anna, è una influencer con una ricca rete di follower e un lussuoso faro ristrutturato per casa. L'altra, Ava, è una prostituta adolescente, all'occorrenza anche babysitter. Si incontrano in circostanze scioccanti: Anna sta prendendo a calci il cadavere del suo cane, morto di overdose. Ava la raggiunge, nel suo impermeabile giallo, e il riconoscimento è immediato: quella ragazzina è la copia sputata di Ada, la figlia della protagonista. Ma mentre Ada si è lasciata morire di anoressia, Ava ha fame di tutto. Ha inizio un ménage fatto di collezioni macabre e sadomasochismo, di morsi sul seno e spine sotto pelle, mentre la natura minaccia di prendere il sopravvento: quell'estate elettrica preannuncia realmente tsunami?

Il tempo è una cosa da caderci dentro e attraversarlo, se uno sa come si fa.

Tre personaggi femminili sui generis, tre nomi palindromi, tre maschere che si divertono ad alternarsi e confonderci in un gioco delle parti senza inibizioni né regole. Si può far rivivere chi non c'è più? Nell'esordio di Ali Millar — imperdibile per i fan della letteratura weird di Schweblin, Awad, Rouopenian — tutti, perfino il fratellino minore che fantastica di avere una cerniera per cambiare pelle, vorrebbero essere la compianta Ada. Sullo sfondo della Punta, un non-luogo sospeso tra Inghilterra e Scozia, il romanzo è inscenato in una società distopica in cui le persone sono schedate sulla base del loro Valore: l'apparenza, allora come oggi, conta più di tutto.

La prima volta che io e Leo siamo usciti dopo la nascita di Adam, mi sono resto conto che me ne stavo seduta in mezzo a un pub dondolandolo leggermente, abituata com'ero a cullarlo per farlo addormentare. Una serie di minuscole follie: è questo che significa amare con quell'intensità. Che significava.

Popoloso di donne splendide e crudeli, nonché intriso di un umorismo nerissimo, Ava Anna Ada è una psichedelia sull'elaborazione del lutto, i lati oscuri della maternità e i misteri del piacere, a cui l'autrice scozzese conferisce l'andamento liquido delle onde e una sensorialità sorprendente. Morboso, oscuro, caleidoscopico, mostra la stessa scena da prospettive diverse e fa un uso brillante della prima persona plurale. Il Noi, così, è sintomatico del legame inscindibile tra le protagoniste — dove finisce l'una, dove inizia l'altra? Ma anche il punto di vista degli Dei, a volte annoiati, altre crudeli, davanti allo spettacolo catastrofico della nostra scompostezza. Quest'anno, scommetto, non leggerete niente di simile.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lady Gaga – Abracadabra

lunedì 1 giugno 2020

Recensione: Bunny, di Mona Awad

Bunny, di Mona Awad. Fandango, € 18,50, pp. 350 |

Quando vai alle feste, fai attenzione a quello che ti mettono nel bicchiere: le mamme si raccomandano così, indipendentemente dalla tua età. A mia discolpa, ho abbassato la guardia. Ma questa non era una festa qualsiasi, bensì l’open day della Warren University: potevo forse immaginare che in un ambiente tanto prestigioso – l’università, infatti, ospita un pionieristico corso di scrittura –, qualcuno potesse drogarmi? Le sensazioni sono inequivocabili. La mollezza degli arti, la pesantezza della testa e delle palpebre, in bocca un sapore dolciastro. Le percezioni falsate che, tutt’intorno, trasformano il mondo o in un incubo o in un luna park. Perfetto titolo di punta per inaugurare la collana Weird Young – è decisamente strano, ma niente affatto adolescenziale: le riflessioni metaletterarie piaceranno infatti più agli adulti –, ciò che segue è un delizioso groviglio di merletti, catene, esplosioni splatter e asce affilate. Caratterizzato da dettagli curiosi che lo renderebbero stilosissimo anche in un’eventuale trasposizione – i guizzi artistici dell’autrice si notano anche nelle descrizioni meticolose degli oggetti d’arredo o dei guardaroba delle protagoniste –, risulta esilarante, visionario, profondo. Un rituale con leggi tutte da scoprire, con uno stile talmente suadente da sembrare una stregoneria.

Perché scappavamo sempre, io e la mia immaginazione. Ci tenevamo per mano sul margine della scogliera sul Mare del Nord, salivamo sempre più in alto tra i rami di una sequoia, viaggiavamo su un treno per Parigi, guadavamo il fiume con le labbra blu per cercare di raggiungere l’India a nuoto. Oppure correvamo e basta, cazzo. Giù per il pendio ripido di una collina che non finiva mai, lei e io, mano nella mano. Lei era una grande foresta a forma di ragazza. Era qualcosa che andava a fuoco. La sua mano era foglie e fumo e neve e carne tutto in una volta. […] Ero eccitata. La mia vita poteva cambiare. E non ero più sola.
La trama – un mix tra Suspiria e Schegge di follia – segue l’iniziazione di Samantha durante un seminario di arti narrative. Legata a un’unica buona amica, Ava, la protagonista nutre pretese da outsider in una città popolata da brutti ceffi e aspiranti Virginia Woolf. Profumate di zucchero filato, vestite di rosa, con una perenne aria zen, le Bunny sono il suo esatto opposto: quattro venticinquenni dedite ai pigiama party e alle sedute spiritiche che le aprono le porte della loro cerchia elitaria. Uniformarsi alle Bunny o farle scoppiare dall’interno? 
Gli artisti vivono in un mondo impenetrabile. Quelli di Mona Awad, la Isabella Santacroce statunitense, un po’ di più. Con ironia corrosiva, l’autrice stupisce per lo stile arzigogolato e per la sua satira pungente: vengono messe alla berlina le pratiche new wave; gli intellettuali pretenziosi; le giovani femministe che, magari dopo la lettura dei Monologhi della vagina, si vantano di essere novelle suffragette.

Con quanta ferocia quei corpi bianchi e rosa si stringono in un piccolo, caldo cerchio di amore frantuma-costole, e ogni volta rendendomene conto rimango senza fiato. E quando strofinano quei nasi all’insù che sembrano trampolini da sci, e le guance coperte da pelle di pesca. Tempia contro tempia mi fanno pensare al modo in cui strusciano le labbra degli scimpanzé, o alla telepatia dei bambini bellissimi e sanguinari nei film horror. Tutti e otto i loro occhi chiusi, come se quest’asfissia collettiva fosse una sorta di estasi religiosa. E le loro quattro bocche dalle labbra lucide emettono squittii che parlano di un amore mostruoso che è quasi un pugno in faccia. 
La seconda parte, almeno all’apparenza, gira più a vuoto della prima. I personaggi delle Bunny sono a lungo assenti dalla scena e le riflessioni della protagonista abbondano dopo la comparsa di Max, un tenebroso sconosciuto dagli occhi di fumo. Per fortuna Samantha è un personaggio affascinante. Mossa da pulsioni segrete, fa ragionare i lettori sul lato oscuro dell’immaginazione; sugli angeli e i demoni del processo creativo; sull’ansia da prestazione che ci assale quando tocca condividere la nostra opera – dunque, un pezzo di cuore – col resto del mondo. Adeguarsi, tanto nell’editoria quanto nelle amicizie, significa vendere l’anima? Bunny, ambientato nella città che ispirò il genio di Lovecraft, sembra scritto sotto oppiacei e leggerlo provoca uno stordimento simile. Scriverne, poi, significherebbe essersi finalmente ripresi dai postumi. Io, lo ammetto, ne sono ancora vittima.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Britney Spears – I’m a Slave 4 U