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sabato 18 gennaio 2020

Pillole di recensioni e inediti d'autore: Carrisi, Murgia, Avallone

(usciti nel 2011 con Corriere della Sera, al prezzo di un euro ciascuno)

Ci sono bruchi che diventano farfalle. Altri falene. È una legge della natura, non ci si può fare niente. Io l’ho sempre saputo. E non mi dispiace. 

Reduce dal successo internazionale e da polizieschi scritti sul modello dei serial statunitensi, un Donato Carrisi da riscoprire sceglie questa volta il tinello domestico per raccontare eccezionalmente orrori ordinari. Inquadrate tra Piemonte, Puglia e Spagna, le protagoniste sono tre minorenni da poco scarcerate. Rosi, una gigante buona; Cinzia, moderna Bonnie senza più il suo Clyde; infine Tecla, anima del gruppo che le ha radunate. Il loro ultimo colpo: rapinare una pensionata e farla franca. Eccole in una casetta di un borgo meridionale, con a terra il cadavere di un’anziana e un telefono che squilla incessantemente. E imprigiona le ragazze lì, nel dubbio. Rispondere o riagganciare? Chi ci sarà dall’altra parte? Più vicino alla nostra cronaca, questo Carrisi al femminile – ho pensato, ad esempio, ai thriller di Barbara Baraldi – è rapido ma nient’affatto indolore. Racconto disperato e sottile di abusi e rivalsa, con uno stile evocativo e tutti i ribaltamenti possibili in sole sessanta pagine – il tutto, senza perdere mai la giusta credibilità –, Falene è attratto dalla luce ma è destinato all’oscurità. Proprio come la sua protagonista, reduce da un’infanzia tragica e in cerca di vendetta per quella sorella bellissima – traviata da uomini e eroina – , che non dimentica né perdona i torti subiti. Anzi, se li lega al dito. E ne fa intrichi; intrighi.

Cosa può il richiamo del proprio sangue contro la consapevolezza di essere stati la causa involontaria del primo sangue sgorgato dal ginocchio di un amico?

A Cabras c’è una tradizione particolare. Durante la processione pasquale, da un capo all’altro del paese partono due statue – Maria e Gesù – che si incontrano nel momento dei festeggiamenti solenni. Qualcosa cambia quando una seconda parrocchia divide il paese in giurisdizioni diverse: si può fare una doppia processione? A raccontarci il tormento del paesello è il piccolo Maurizio, che vive una condizione sospesa: né natio né turista, guarda Cabras dalla soglia della porta – il folklore, il senso di appartenenza – e si domanda se sarà mai incluso in quel “noi”. Su uno sfondo colorato e pulsante, una Michela Murgia leggera e divertita dà vita a un gioco bellicoso che diventa infine una classica lezione sul perdono, regalata proprio dai coetanei di Maurizio. L’episodio, semplice e curioso, è sviscerato senza bisogno di grandi trame o personaggi, come nella migliore tradizione del racconto breve; ma con la suddetta tradizione ha in comune anche una vaghezza d’intenti che a volte fatico ad apprezzare. Caratterizzato da un andamento lesto e da una dimensione corale perfettamente resa, L’incontro conferma lo stile di Michela – una che con le parole fa il Tetris, centellinandole con precisione matematica – nonostante uno spunto destinato a esaurirsi tardi ma in fretta. Resta il migliore dei tre, ma è quello che meno intrattiene.

Andrea gli sedeva accanto. Con le ginocchia che toccavano le sue, e i polpacci che toccavano i suoi. Gli dava delle gomitate leggere. Sorrideva come può sorridere una statua gotica nell’anfratto più buio di una chiesa.

Piero, non nuovo dagli andirivieni dal carcere, è un criminale insospettabile. Fascinoso e furtivo, con a casa una moglie che non gli ha dato neanche la gioia di un figlio, durante una tappa in autogrill dà uno strappo in macchina all’enigmatico Andrea: biondo e spigoloso, seduto sul lavandino di un bagno pubblico, legge Tex all’una del mattino. Tra l’adulto e l’adolescente scatta un colpo di fulmine inspiegabile, che a volte somiglia a un rapporto padre-figlio, altre un’attrazione erotica. Regali, viaggi, mazzette: Piero paga per la compagnia del ragazzino, cercando di conquistarne i favori. L’uno è un gatto selvatico, che graffia e fa le fusa. L’altro è una lince, maestro del furto e dell’inganno. Quali dei due, bestie senza padrone, avrà la meglio? In una provincia italiana di acciaierie e risaie si svolge l’attrazione divorante di una canaglia verso un efebo inarrivabile. Cosa c’è dietro la sua bellezza? Cosa dietro la sua tristezza? Sulla scia di Morte a Venezia, benché le atmosfere metropolitane e torbide ricordino Le ferite originali, La lince è un racconto feroce e seducente con uno svolgimento, per forza di cose, appena abbozzato. Due personaggi tanto tormentati e contorti, nonostante l’indiscreto talento di una Silvia Avallone distante dalla freddezza dell’esordio, non hanno purtroppo il loro spazio vitale. Quando Piero perde la testa, l’autrice perde il filo. La lettura, così, si chiude con un senso d’irrisolto che non soddisfa, come se fosse l’assaggio di una storia dal grande potenziale. Sessanta pagine erano poche per una storia di crimini, desiderio e genitorialità: peccato; avremmo voluto sinceramente saperne di più.

mercoledì 26 luglio 2017

Recensione: Accabadora, di Michela Murgia

Accabadora, Michela Murgia. Einaudi, € 11, pp. 164 |


Leggere per la prima volta un'autrice e stimarla a prescindere: si può? Esempio inequivocabile di eleganza, umorismo e sagacia, Michela Murgia è una delle persone che mi piacerebbe diventare da grande. Scrittrice che non ha bisogno di presentazioni, su Quante Storie è solita dispensare stroncature secche e consigli spassionati. Si è meritata un posto d'eccezione sulla poltrona di Corrado Augias, nei pomeriggi di Rai Tre, e l'accento e la postura hanno ispirato in fretta un'imitazione divertentissima di Virginia Raffaele – Dante, Collodi e Manzoni, perciò, vengono sconsigliati in sketch lampo tanto quanto l'ultima fatica editoriale di Fabio Volo. Mi mancava un tassello non da poco. Mi mancava scoprire com'è, fuori onda: nel suo. Accabadora, vincitore del premio Campiello e oggetto di un libero adattamento cinematografico, è la storia della seconda vita della piccola Maria.

Ci volle qualche minuto per ricordarsi chi e cosa era, che riemergere da sé stessi è tanto più difficile quanto più si è profondi.

Quarta figlia femmina di una vedova indigente, nella Sardegna del secondo dopoguerra, viene riscattata dalla pietà di Tzia Bonaria. Una sarta vestita sempre a lutto, forse mai stata giovane, che piange il promesso sposo perso in guerra, si prende cura delle bambine abbandonate in un angolo e, nottetempo, indossa il suo scialle nero e bussa a qualche porta. Cosa fa la sua seconda mamma, si domanda la bambina, mentre il paese dorme? Cos'ha visto in lei, tratta in salvo da un avvenire di scarti e occhiate di sufficienza? Una smania birichina, una scintilla: un potenziale da educare con le buone o con le cattive, anche a costo di spezzarle il cuore. A Soreni tutti ricoprono un ruolo. Quello di Bonaria è tabù, eppure appare necessario: l'accabadora è il contrario di una levatrice. C'è chi ti guida verso la vita e c'è chi, come lei, ti conduce a una morte dolce. Alla faccia di chi fa gli scongiuri. Alla faccia di chi nega a un'anima la dignità di andarsene via a modo suo. Come Vanessa Roggeri, amica di lunga data del blog, Michela Murgia rievoca una Sardegna brulla, antichissima, lontana dal tremolare del mare. In contrapposizione: una Torino fredda e schematica, in quel continente lontano un passo di troppo dalle maglie del destino.

Nell'ora della debolezza alcuni preferiscono diventare credenti piuttosto che forti.

Storia breve di arrivi e partenze, di eredità, affascina raccontando l'arte del cucito e dell'assassinio. Essendo passato qualche tempo dalla pubblicazione e avendone letto un po' qui e un po' lì, posso dirmi tante cose ma non sorpreso. Se la storia, di cui perfino la quarta di copertina svela troppo, non è una rivelazione, lo stesso non vale per uno stile bello in maniera clamorosa: semplice e scorrevole, eppure sorretto da una perfezione matematica che fa una conta esatta delle parole, delle sillabe, delle pagine. Lirica ma oculata, brusca neanche per un attimo, l'autrice sa quando mettere e quando togliere; sa quando dire e quando non dire. La suggestione e l'inquietudine di cui il realismo magico è capace, qui, ne escono al loro meglio. Crescere è realizzare che tra giusto e sbagliato c'è un confine invisibile, protetto da una fattura che né la razionalità né la fuga per mare possono sciogliere. Accabadora è la presa di coscienza di Maria, che si fa donna e saggia in duecento pagine da centellinare. Un'educazione morale e sentimentale dal taglio classico, con posti e liturgie d'altri tempi. Amore e morte hanno la stessa radice. Lasciarsi morire, lasciarsi uccidere, a volte è l'atto di fiducia più grande. Un debito da estinguere. O un dono, meglio, al pari di certe prose.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Hozier – Work Song