Qual
è il prezzo del sogno americano? Recentemente se l'era chiesto
Anora, commedia amara in cui il risveglio dalla favola somigliava a un pianto. La domanda riecheggia anche in The
Brutalist, un film con la solennità di un cinema che non c'è
più. Ambientato in quarant'anni, diviso in due capitoli con tanto di
intervallo al centro, è un'epopea degna di Philip Roth. Corbet,
classe 1988, sceneggia dal nuovo l'odissea di un architetto ungherese
al soldo del filantropo Guy Pierce. Finalmente riunitosi alla moglie
Felicity Jones, sopravvissuta ai campi di concentramento, vivrà una
parabola oscura dopo un viaggio tra i bianchi marmi di Carrara.
Mentre il suo capolavoro si eleva, infatti, la sua vita sprofonda in
un abisso di vergogna. È un genio o un parassita? Sulle spalle
nervose di Adrien Brody, a lungo a digiuno di ruoli memorabili,
poggia il peso immane di una struttura grigia e austera, con corridoi
angusti e soffitti altissimi. Il simbolismo del progetto sarà
spiegato in un finale, purtroppo, troppo didascalico. The
Brutalist, per il resto, è una morality play degna di
Scorsese, Coppola, Anderson, in cui lo spirito di onnipotenza del
committente e l'ossessione dell'architetto si scontreranno con
l'impossibilità di cambiare le proprie origini. L'innesto, giacché
forzato, non fiorirà. (8)
Dopo
la morte dell'affezionata nonna, miracolosamente sopravvissuta ai campi di
sterminio, due cugini americani dai caratteri agli antipodi volano
insieme fino a Varsavia, Polonia, con lo scopo di omaggiarla. Jesse
Eisenberg, per un po' pupillo di Woody Allen, scrive, dirige e
interpreta una classica commedia indie dai toni dolce-amari,
ritagliando per sé il classico personaggio del newyorkese nevrotico,
privilegiato, ipocondriaco. Il ruolo migliore? In un atto
generosissimo, lo regala all'amico e collega Kieran Culkin: già in
odore di Oscar, nonostante un personaggio cucito addosso, veste qui i panni trasandati di una sorta di Zach
Galifianakis votato all'ipersensibilità e agli eccessi. Affascinante e
imprevedibile negli sbalzi d'umore, Culkin è il bellissimo cuore
emozionale di un film on the road assai poco memorabile per
approccio e scrittura — il pensiero corre ai cult Ogni cosa è
illuminata o Little Miss Sunshine: A Real Pain è ben
lontano dalla loro iconicità —, ma con il pregio di sapere
riflettere con un sorriso a fior di labbra di colpa, memoria,
elaborazione. Quanto pesa il fardello di essere immigrati di terza
generazioni, magari non all'altezza dei sacrifici dei propri antenati?
Quanto pesa, soprattutto, questa leggerezza? (6)
Il
film animato più bello dell'anno (scorso) arriva dalla sconosciuta Lettonia. Meritatamente
candidato a due Oscar, è il diretto rivale di Il robot selvaggio.
I due film, favole ambientaliste in cui gli animali imparano per forza di cose a
collaborare, hanno a ben vedere più di qualche punto in comune. Ma mentre il film
DreamWorks si perde in una seconda parte inutilmente roboante, questo
film è un esempio perfetto di tecnica e delicatezza. Sensibile, minimalista,
sperimentale, racconta l'odissea di un gatto nero all'indomani di un
inspiegabile diluvio. Come un novello Noè, il gatto vincerà la
diffidenza per radunare una piccola arca con un labrador, un lemure,
un capibara: con loro anche un misterioso airone, che li guida – e
giudica – come un dio imperscrutabile. In mancanza di dialoghi,
parlano l'espressività dei protagonisti e i rumori d'ambiente, in un
gioiello d'immagini e suoni che ha il nitore del documentario. I
90 minuti di durata sembrano forse troppi per uno spunto che si
sarebbe prestato meglio al mediometraggio; la morale si perde di vista nel lirismo dell'epilogo. Eppure la visione di Flow
angoscia, incanta e stupisce, portandoci alla deriva in un mondo in
cui a mancare, per una volta, è l'animale più infestante: l'uomo.
(7,5)
Irresistibili
atmosfere da fiaba nera. Una fotografia ispirata al meglio del cinema
espressionista. Una donna sessualmente repressa, sempre a un passo da
un abisso di oscurità. Non sto parlando del sopravvalutato
Nosferatu, bensì del danese The Girl with the Needle,
in lizza per il Miglior Film Straniero. Ambientato nella Copenhagen
del dopoguerra, sceglie un claustrofobico bianco e nero –
accompagnato al 4:3, immancabile in questi angosciosi film di nicchia
– per rievocare una spaventosa catena di infanticidi realmente
accaduti. Indeciso tra il dramma sociale e l'horror, sin troppo
manierato per strappare veri brividi, racconta comunque con solidità la vicenda di
un'operaia sedotta dal suo datore di lavoro. Rimasta incinta, con un
marito invalido appena tornato dal fronte, affiderà il nascituro a
una donna misteriosa. Più simile del previsto al film della nostra
Maura Delpero, che in definitiva avrebbe meritato un posto in
cinquina ben più dell'algido ibrido di Von Horn, non è tanto la storia di
una efferata serial killer, quanto uno spaccato su un gruppo di donne
mute e abbandonate, private della facoltà di scegliere, qui
costrette a commettere l'indicibile pur di assaporare in extremis un briciolo di
libertà. Per non essere le vittime della Storia, infatti, tocca
forse diventare le carnefici? (7)
Non bellissimo a livello di animazioni, soprattutto in alcuni passaggi (ma ci sta, visto come è stato realizzato), Flow è riuscito comunque ad incantarmi e commuovermi. Tra lui e Il robot selvaggio sarà una bella lotta.
RispondiEliminaThe Girl in the Needle terribile e bellissimo, una delle migliori visioni pre-Oscar.
Gli altri due conto di vederli per tempo, in settimana. Purtroppo la distribuzione di The Brutalist è stata tremenda.