giovedì 26 settembre 2019

Recensione: Nel profondo, di Daisy Johnson

 
| Nel profondo, di Daisy Johnson. Fazi, € 18, pp. 274 |

Ha un nome da fiaba, Gretel, ma non vive nel fitto di un bosco. Almeno non più. Ha scelto una casa un po’ appartata, in collina, e una professione insolita quanto lei: lessicografa, in ufficio setaccia parole per compilare dizionari – quando da bambina, una vita prima, era stata invece solita inventarne di nuove di sana  pianta. Il suo hobby è chiamare tutti gli obitori del circondario: cerca disperatamente tracce di sua madre, infatti, creduta ormai morta. Ora che allo specchio inizia a somigliarle, i ricordi passano a domandarle gli interessi ed è più decisa che mai a sapere che fine abbia fatto la genitrice, responsabile un giorno di averla caricata sul primo autobus condannandola all'infinita trafila degli assistenti sociali. 
Il pensiero di quella madre folle e fragile, in lotta contro l’oblio dell’Alzheimer, le ispira una caccia al tesoro. Cos’è stato di lei, e dove trovarla? Come mai Marcus, loro amico per una stagione, a un certo punto sparì nel nulla? Vivevano accanto a un fiume dal nome inquietante – Isis –, su una chiatta ormeggiata a riva. Erano allergiche alla terra ferma e puntavano a un altrove vago, irraggiungibile.

I luoghi dove siamo nati ritornano. Si travestono da emicranie, mal di stomaco, insonnia. Sono la sensazione di cadere con cui a volte ci svegliamo, brancolando in cerca della luce, certi che tutto ciò che abbiamo costruito sia scomparso nella notte. I luoghi dove siamo nati ci diventano estranei. Non ci riconoscono più, anche se noi li riconosceremo per sempre. Ci sono cresciuti dentro, sono il nostro midollo. Se ci rovesciassero come un guanto, troverebbero delle mappe incise dietro la pelle. Servono proprio a ritrovare la strada di casa. Solo che dietro la mia pelle non ci sono canali, binari ferroviari e una barca, ma sempre e solo tu.

Quella regione aveva leggi tutte sue. Innumerevoli i morti, i furti, le stranezze inspiegabili. Inutile avvertire la polizia in caso d’emergenza. Perfino la lingua parlata da quelle parti era diversa. Un lessico spiccio e volgare, che alle orecchie di un nuovo arrivato sarebbe suonato ostico quanto un idioma straniero. Donna selvaggia e inquisitoria, dotata di una sensualità esplosiva che affascinava uomini, donne e belve feroci, Sarah costringeva anche la piccola Gretel a fuggire il mondo reale. E involontariamente, in un periodo indimenticabile, irretiva anche il giovane Marcus: scappato di casa, il forestiero era in realtà nato femmina – ai tempi si chiamava Margot – ed era stato costretto a peregrinare a causa dell’influenza sinistra della vicina di casa, Fiona, che sotto un trench rosso nascondeva il sesso maschile e doti da maga. Una prosa tanto particolare quanto faticosa ci presenta pian piano questi quattro personaggi femminili: gatti selvatici, sfuggenti e sostanzialmente malfidati, che vivono un intreccio dagli echi edipici immersi in una fauna pericolosissima.

Eravamo come degli alieni. Come gli ultimi sopravvissuti sulla terra. Se in qualche modo è vero che il linguaggio condiziona il nostro modo di pensare, non avrei mai potuto essere diversa da com’ero. E la lingua che avevo imparato fin da piccola, non la parlava nessun altro. Quindi sarei rimasta sempre emarginata, sola, a disagio con gli altri. Era la mia lingua a imporlo. La lingua che mi avevi insegnato tu.

Ci sono figlie che si prendono cura delle mamme. Ci sono uomini che si sentono donne. Ci sono donne che si sentono uomini. Abbondano le profezie, i ritorni all’ovile, le relazioni morbose. Ma la suddivisione del romanzo – articolato in tre diversi piani temporali; caratterizzato dall’assenza di discorsi diretti e da soggetti che spesso si confondono – me l’ha reso un garbuglio caotico e affascinante, benché a tratti inestricabile. Deluso, mi aspettavo una lettura bella e contorta nello stile di Favola di New York; l’esordio dell’eppur talentuosa Daisy Johnson, invece, è soltanto contorto, al punto che risulta difficile scorgere fra le righe il dipanarsi di una trama. 
Possono equilibri così malsicuri convivere con una scrittura ammaliante? Forse, ma nell’immergermi nella storia ho fatto la tipica resistenza dei bagnanti in spiaggia, quando l’acqua è troppo fretta. Troppo fredda anche l’autrice. Qualcosa di torbido, fatto sta, si muove sul fondo. Un vedo-non vedo che spaventa e alletta, ma nel finale confonde fino a innervosire. Era richiesta al lettore, probabilmente, una pazienza che non ho. Pescare, d’altronde, può essere un’attività frustrante e infruttuosa; non da tutti. Soprattutto in acque nerissime. Non sappiamo mai se tireremo a galla una carpa, una vecchia scarpa, oppure un mostro marino degno del cinema di Guillermo Del Toro. Strano ma vero, strano vero, Nel profondo – con me – è rimasto in superficie.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Evanescence – Going Under 

8 commenti:

  1. Non so come fai a farmi venire voglia di leggere anche i libri a cui dai un voto negativo.

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    1. Ahahahahah, ti ringrazio.
      Guarda, questo sta piacendo molto.
      Probabilmente sono io che non ho capito.

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  2. Hum... contorto, con una trama e uno stile inutilmente ingarbugliati...: passo :-D

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  3. Sebbene il tuo giudizio non propriamente bello, c'è qualcosa che mi attira in questa storia.... Sarà la copertina?!? Vedremo, se leggerlo o meno. Magari dopo aver smaltito qualche lettura 🤗🤗

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    1. Spero per il tuo tempo che la penseremo diversamente. Da lettrice donna, magari, comprenderai meglio i pensieri e la sensibilità delle protagoniste.

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  4. A livello superficiale non sembra malaccio.
    Nel profondo, mi sa invece che è meglio evitarlo. :)

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    1. Ad averlo capito...
      Ci pensavo proprio oggi, ma niente.

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