giovedì 14 febbraio 2019

Mr. Ciak: La vita in un attimo | How to talk to girls at parties | Film stars don't die in Liverpool

Un Oscar Isaac dalla barba incolta parla della rottura con Olivia Wilde sul divano della psicologa Annette Bening: aspiranti sceneggiatori, i due facevano faville vestiti da Pulp Fiction a Halloween e aspettavano un bambino. Olivia Cooke, cantante arrabbiata con il mondo intero, annienta il romanticismo di una ballata di Bob Dylan urlandola a squarciagola in chiave metal. Da qualche parte in Spagna, invece, Antonio Banderas – proprietario terriero, ma non del “Mulino che vorrei” - aiuta il figlio di Laia Costa a superare un trauma insanabile. Una manciata di nomi noti, personaggi agli antipodi nel tempo o nello spazio, le cui storie ruotano attorno allo stesso avvenimento tragico. A lungo, così, è dalla tragedia che cercheranno di allontanarsi. Sebbene sia un melodramma corale da inserire nel filone di Collateral Beauty, Life Itself lo si approccia con un occhio di riguardo: merito del taglio indie e di un inatteso black humor, delle audaci variazioni sul tema della prima parte, dei cambi di rotta shock. Soprattutto, inutile negarlo, del tocco magico di chi ha ideato This is us e consumato 500 giorni insieme a furia di visioni. La voce narrante della Wilde ci racconta con toni alterni di famiglie disfunzionali, sentimenti da elaborare e altri drammi; del destino sfortunato degli orfani e della bellezza pericolosa di New York, scomodando fra le righe implicazioni filosofiche e narratologiche che rendono senz'altro più estremo il classico intreccio intergenerazionale. Questo nuovo giro di vite prende avvio in maniera violenta e proseguendo, poi, si scopre più accomodante senza grandi sensi di colpa. La morale, già consolidata: cosa fare se la vita ti dà dei limoni? Facile, fanne una limonata: spremila, zuccherala, bevine fino all'ultima goccia. E ricomincia daccapo. Magari, all'interno di una sinfonia polifonica che si muove al solito in cerca di risposte esistenziali, e al solito funziona bene con i toni dolci della seconda metà. Grazie ai dettagli, ai volti, alle piccole cose in cui piace riconoscersi. E di cui, nella sera giusta, magari ci commuoviamo un po'. I narratori, si afferma, sono inaffidabili per loro stessa natura: la narratrice per eccellenza, in teoria, resterebbe la vita stessa. Come crederlo, però, davanti a una frenata agghiacciante, a uno sparo a bruciapelo, a una malattia innominabile, a un tradimento che ancora brucia nell'anima? Ci si affida, in quel caso, agli sceneggiatori che non si allontanano mai dalla comfort zone. Se anche la vita si rivela inaffidabile, Dan Fogelman, per fortuna, non troppo. (6,5)

Prendete un trio di amici e collocateli nell'Inghilterra punk. Alla ricerca dell'ennesima festa trasgressiva, guardateli seguire la musica e imbattersi in una casa di stranezze, sesso e piaceri in stile Rocky Horror Picture Show: tutine in latex coloratissime, proposte indecenti, bassi solletichi che d'un tratto ti aprono le gambe e mondi interi, in barba alla virilità. I protagonisti pensano che i tenutari siano gente strana perché americana. In realtà, sono alieni in trasferta – e, per di più, cannibali. Elle Fanning, così perfetta da apparirci a tratti una marziana davvero, per quarantotto ore abbandona la base e segue con il batticuore Alex Sharp, bruttino ma con carattere. Tempo a sufficienza per affezionarsi all'idea di cantare in un gruppo, ai baci ribelli di lui, alla tentazione di restare lì? La classica relazione breve e impossibile, che ricorda un po' una fiaba moderna in stile Splash: Una sirena a Manhattan, regala sorprese se proviene, come in questo caso, dalla folle inventiva di Neil Gaiman. Fantasiosa metafora di quel decennio di lotta generazionale e incomprensione reciproca, How to talk to girls at parties è una commedia rock 'n' roll con la testa fra le nuvole e risvolti straordinari, che fa faville nei momenti da puro boy meets girl – questi ultimi culminano con un allucinato duetto, prima che il film imbocchi la poco convincente mezz'ora conclusiva – e purtroppo si sfilaccia un po' in un epilogo infarcito di dialoghi esplicativi, toni grotteschi, stanze affollate. Festa discinta, rumorosa e dispersiva – nella folla scorgiamo la talent scout Nicole Kidman, in un ruolo piccolo ma incisivo –, con un'irresistibile messa in scena e un messaggio tutt'altro che sottile a sfavore, ma una candida storia d'amore per centro nevralgico. Lontano dall'essere un manifesto generazionale, How to talk to girls at parties resta comunque un apprezzabile teen movie d'autore. John Cameron Mitchell, decisamente nel suo fra travestitismo, giovinezze scatenate e pentagrammi, questa volta è troppo immalinconito per provocare. Effetto non tanto delle droghe pesanti quanto della nostalgia di chi, insieme a Gaiman, rimpiange il graffio dei vinili, i vent'anni e quell'occasione persa un trentennio fa: con una aliena uguale alla Fanning che, nell'allegria sconsiderata delle prime volte, ci aveva promesso perfino le stelle. (7)

Ci sono quei film belli e sfortunati che passano in sordina. Ignorati ai piani alti, non trovano nessuna distribuzione italiana: l'avvento del sottotitolo, per fortuna, ha salvato dall'oblio la visione di Film stars don't die in Liverpool – a carico, la bellezza di tre candidature agli scorsi Bafta – e il ricordo agrodolce di Gloria Grahame, diva già una volta sparita dai radar. Probabilmente nessuno di noi, oggi, la ricorderà. Classe 1923, vincitrice di un Oscar nell'anno di Cantando sotto la pioggia, l'attrice aveva collezionato quattro matrimoni fallimentari, pochi ingaggi e un tumore al seno mai del tutto debellato. Meglio rinunciare alla chemioterapia, nella paura di perdere i capelli, la bellezza e il lavoro. Stella del muto ormai in caduta libera, negli anni Ottanta nascondeva la cicatrice della mastectomia e s'innamorava di un aspirante attore più giovane di tre decenni. Gloria porta Peter a New York, lo invita in ristoranti frequentati da leggende del cinema, gli regala una favola da seguire senza un briciolo di scetticismo. Lui, dalla sua, ricambia con un altro copione; quello dell'ultimo grande amore. La Grahame fumava come Lauren Bacall, si atteggiava alla maniera di una Marilyn seducente e falsamente svampita: piena di femminilità e decoro, permalosissima, faceva sparlare per le relazioni scandalose e sognava di interpretare Giulietta benché non avesse più l'età. Ignorò strenuamente il suo male, fingendo fosse indigestione; prima fuggì, come fanno gli animali morenti, e infine si rifugiò a Liverpool presso la famiglia di Peter, circondandosi di trucchi, pellicce e affetti sinceri. Si reincarna alla perfezione, qui, nei gesti di una Bening somigliante e straordinaria, al punto da non spiegarsi la mancata considerazione dell'Academy. E si gode la compagnia di un ritrovato e cresciuto Jamie Bell, che dopo i fasti di Billy Elliot torna a ballare e a condividere il set con l'adorabile Julie Walters. La biografia sentimentale di Paul McGuigan scivola con grazia invidiabile dal presente al passato. Il famoso umorismo britannico e qualche guizzo stilistico donano alla Grahame il batticuore finale, allora, e a noi qualche furtiva lacrima in poltrona. Soprattutto, nuovo lustro alle stelle offuscate dalla memoria breve di Hollywood. Film stars don't die in Liverpool è l'altra faccia di Viale del tramonto: quella felice. (7,5)

10 commenti:

  1. Faccio l'en plein: non ne ho visto nessuno ma vorrei vederli tutti, si spera prossimamente. Tra flop che abbassano le aspettative, attesissimi da Cannes e piccole scoperte che mi hai fatto fare. A presto, allora!

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    1. A parte Fogelman, che potrebbe lasciarti perfino interdetta, vai sul sicuro!

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  2. Non ne ho visto nessuno, ma Film stars don't die in Liverpool sembra proprio il genere di film che mi strapperà il cuore, e lo ringrazierò pure.

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    1. Hai detto benissimo.
      Nel mentre, si sta un po' male e un po' bene.
      Adorabile.

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  3. Mi incuriosisce molto il secondo :) Sembra davvero carino :)

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    1. Ci sarebbe anche un titolo per la distribuzione italiana, La ragazza del punk innamorato, ma chissà se uscirà mai...

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  4. Evvai, finalmente ho trovato qualcun altro che promuove Life Itself/La vita in un attimo!

    Non so bene perché, ma soprattutto la critica Usa l'ha massacrato. Anche a me è sembrato abbastanza valido. Drammone un po' in stile Collateral Beauty, pure quello demolito da quasi tutti ma che a me non era dispiaciuto, sa come difendersi e come narrare (in maniera inaffidabile ma nemmeno troppo). Cosa che oggi non così tanti film sono in grado di fare.
    Il tocco del creatore di This Is Us si sente tutto e, pur senza stupire particolarmente e con qualche eccesso di retorica, il lavoro fa il suo dovere.

    How to Talk to Girls at Parties un gioiellino. E' vero, nel finale si perde un po', ma tutto sommato si lascia ricordare in maniera piacevole.

    Film Stars Don't Die in Liverpool l'avevo incrociato, credo, tra i film che si trovano sul web, ma le stars del suo cast non mi avevano convinto a guardarlo... Ora potrei ricercarlo, ché un Viale del tramonto positivo una visione sembra meritarsela. ;)

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    1. Sai che pensavo ti unissi anche tu agli haters di Life Itself? Giammai. La prima parte è strambissima, e già meriterebbe soltanto per quella. La seconda mano, ma lì mi ha strappato una lacrima.

      Idem Film stars don't die in Liverpool, che però massacrato non è stato. Allora perché nessuna distribuzione?

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  5. Il primo non mi interessava minimamente, ma se lo promuovi magari un'occhiata gliela posso anche dare. Il secondo sembra interessantissimo, così come il terzo, quei due penso che li recupererò senza dubbi.

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    1. Resta solo il fastidio, te lo dico, di procurarsi i sottotitoli a parte...
      Fogelman trascurabile, a meno che non si adori come me This is us.

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