Un
Oscar Isaac dalla barba incolta parla della rottura con Olivia Wilde
sul divano della psicologa Annette Bening: aspiranti sceneggiatori, i
due facevano faville vestiti da Pulp Fiction
a Halloween e aspettavano un bambino. Olivia Cooke, cantante
arrabbiata con il mondo intero, annienta il romanticismo di una
ballata di Bob Dylan urlandola a squarciagola in chiave metal. Da qualche parte
in Spagna, invece, Antonio Banderas – proprietario terriero, ma non
del “Mulino che vorrei” - aiuta il figlio di Laia Costa a
superare un trauma insanabile. Una manciata di nomi noti, personaggi
agli antipodi nel tempo o nello spazio, le cui storie ruotano attorno
allo stesso avvenimento tragico. A lungo, così, è dalla tragedia che cercheranno
di allontanarsi. Sebbene sia un melodramma corale da inserire nel
filone di Collateral Beauty,
Life Itself lo si
approccia con un occhio di riguardo: merito del taglio indie e di un
inatteso black humor, delle audaci variazioni sul tema della prima
parte, dei cambi di rotta shock. Soprattutto, inutile negarlo, del
tocco magico di chi ha ideato This is us e
consumato 500 giorni insieme
a furia di visioni. La voce narrante della Wilde ci racconta con toni
alterni di famiglie disfunzionali, sentimenti da elaborare e altri
drammi; del destino sfortunato degli orfani e della bellezza
pericolosa di New York, scomodando fra le righe implicazioni
filosofiche e narratologiche che rendono senz'altro più estremo il
classico intreccio intergenerazionale. Questo nuovo giro di vite
prende avvio in maniera violenta e proseguendo, poi, si scopre più
accomodante senza grandi sensi di colpa. La morale, già consolidata:
cosa fare se la vita ti dà dei limoni? Facile, fanne una limonata:
spremila, zuccherala, bevine fino all'ultima goccia. E ricomincia
daccapo. Magari, all'interno di una sinfonia polifonica che si muove
al solito in cerca di risposte esistenziali, e al solito funziona
bene con i toni dolci della seconda metà. Grazie ai dettagli, ai
volti, alle piccole cose in cui piace riconoscersi. E di cui, nella
sera giusta, magari ci commuoviamo un po'. I narratori, si afferma, sono inaffidabili per loro stessa
natura: la narratrice per eccellenza, in teoria, resterebbe la vita
stessa. Come crederlo, però, davanti a una frenata agghiacciante, a
uno sparo a bruciapelo, a una malattia innominabile, a un tradimento
che ancora brucia nell'anima? Ci si affida, in quel caso, agli
sceneggiatori che non si allontanano mai dalla comfort zone.
Se anche la vita si rivela inaffidabile, Dan Fogelman, per fortuna,
non troppo. (6,5)
Prendete
un trio di amici e collocateli nell'Inghilterra punk. Alla ricerca
dell'ennesima festa trasgressiva, guardateli seguire la musica e
imbattersi in una casa di stranezze, sesso e piaceri in stile Rocky
Horror Picture Show: tutine in
latex coloratissime, proposte indecenti, bassi solletichi che d'un
tratto ti aprono le gambe e mondi interi, in barba alla virilità. I
protagonisti pensano che i tenutari siano gente strana perché
americana. In realtà, sono alieni in trasferta – e, per di più,
cannibali. Elle Fanning, così perfetta da apparirci a tratti una
marziana davvero, per quarantotto ore abbandona la base e segue con
il batticuore Alex Sharp, bruttino ma con carattere. Tempo a
sufficienza per affezionarsi all'idea di cantare in un gruppo, ai
baci ribelli di lui, alla tentazione di restare lì? La
classica relazione breve e impossibile, che ricorda un po' una fiaba
moderna in stile Splash: Una sirena a Manhattan,
regala sorprese se proviene, come in questo caso, dalla folle
inventiva di Neil Gaiman. Fantasiosa metafora di quel decennio di lotta
generazionale e incomprensione reciproca, How to talk to
girls at parties è una commedia
rock 'n' roll con la testa fra le nuvole e risvolti straordinari, che
fa faville nei momenti da puro boy meets girl –
questi ultimi culminano con un allucinato duetto, prima che il film
imbocchi la poco convincente mezz'ora conclusiva – e purtroppo si
sfilaccia un po' in un epilogo infarcito di dialoghi esplicativi,
toni grotteschi, stanze affollate. Festa discinta, rumorosa e
dispersiva – nella folla scorgiamo la talent scout Nicole Kidman, in un ruolo piccolo ma incisivo –, con un'irresistibile messa
in scena e un messaggio tutt'altro che sottile a sfavore, ma
una candida storia d'amore per centro nevralgico. Lontano dall'essere
un manifesto generazionale, How to talk to girls at
parties resta comunque un
apprezzabile teen movie d'autore. John Cameron
Mitchell, decisamente nel suo fra travestitismo, giovinezze scatenate
e pentagrammi, questa volta è troppo immalinconito per provocare.
Effetto non tanto delle droghe pesanti quanto della nostalgia di chi,
insieme a Gaiman, rimpiange il graffio dei vinili, i vent'anni e
quell'occasione persa un trentennio fa: con una aliena uguale alla
Fanning che, nell'allegria sconsiderata delle prime volte, ci aveva
promesso perfino le stelle. (7)
Ci
sono quei film belli e sfortunati che passano in sordina. Ignorati ai
piani alti, non trovano nessuna distribuzione italiana: l'avvento del
sottotitolo, per fortuna, ha salvato dall'oblio la visione di Film stars don't
die in Liverpool – a carico,
la bellezza di tre candidature agli scorsi Bafta – e il
ricordo agrodolce di Gloria Grahame, diva già una volta sparita dai
radar. Probabilmente nessuno di noi, oggi, la ricorderà. Classe
1923, vincitrice di un Oscar nell'anno di Cantando sotto la pioggia, l'attrice aveva collezionato
quattro matrimoni fallimentari, pochi ingaggi e un tumore al seno mai
del tutto debellato. Meglio rinunciare alla chemioterapia, nella paura
di perdere i capelli, la bellezza e il lavoro. Stella del muto ormai
in caduta libera, negli anni Ottanta nascondeva la cicatrice della
mastectomia e s'innamorava di un aspirante attore più giovane di tre
decenni. Gloria porta Peter a New York, lo invita in ristoranti
frequentati da leggende del cinema, gli regala una favola da seguire
senza un briciolo di scetticismo. Lui, dalla sua, ricambia con un
altro copione; quello dell'ultimo grande amore. La Grahame fumava come Lauren
Bacall, si atteggiava alla maniera di una Marilyn seducente e
falsamente svampita: piena di femminilità e decoro, permalosissima,
faceva sparlare per le relazioni scandalose e sognava
di interpretare Giulietta benché non avesse più l'età. Ignorò strenuamente il
suo male, fingendo fosse indigestione; prima fuggì, come fanno gli
animali morenti, e infine si rifugiò a Liverpool presso la famiglia
di Peter, circondandosi di trucchi, pellicce e affetti sinceri. Si
reincarna alla perfezione, qui, nei gesti di una Bening somigliante e
straordinaria, al punto da non spiegarsi la mancata considerazione
dell'Academy. E si gode la compagnia di un ritrovato e cresciuto Jamie Bell, che
dopo i fasti di Billy Elliot torna
a ballare e a condividere il set con l'adorabile Julie Walters. La
biografia sentimentale di Paul McGuigan scivola con grazia
invidiabile dal presente al passato. Il famoso umorismo britannico e
qualche guizzo stilistico donano alla Grahame il batticuore finale, allora, e a
noi qualche furtiva lacrima in poltrona. Soprattutto, nuovo lustro
alle stelle offuscate dalla memoria breve di Hollywood. Film
stars don't die in Liverpool è
l'altra faccia di Viale del tramonto:
quella felice. (7,5)
Faccio l'en plein: non ne ho visto nessuno ma vorrei vederli tutti, si spera prossimamente. Tra flop che abbassano le aspettative, attesissimi da Cannes e piccole scoperte che mi hai fatto fare. A presto, allora!
RispondiEliminaA parte Fogelman, che potrebbe lasciarti perfino interdetta, vai sul sicuro!
EliminaNon ne ho visto nessuno, ma Film stars don't die in Liverpool sembra proprio il genere di film che mi strapperà il cuore, e lo ringrazierò pure.
RispondiEliminaHai detto benissimo.
EliminaNel mentre, si sta un po' male e un po' bene.
Adorabile.
Mi incuriosisce molto il secondo :) Sembra davvero carino :)
RispondiEliminaCi sarebbe anche un titolo per la distribuzione italiana, La ragazza del punk innamorato, ma chissà se uscirà mai...
EliminaEvvai, finalmente ho trovato qualcun altro che promuove Life Itself/La vita in un attimo!
RispondiEliminaNon so bene perché, ma soprattutto la critica Usa l'ha massacrato. Anche a me è sembrato abbastanza valido. Drammone un po' in stile Collateral Beauty, pure quello demolito da quasi tutti ma che a me non era dispiaciuto, sa come difendersi e come narrare (in maniera inaffidabile ma nemmeno troppo). Cosa che oggi non così tanti film sono in grado di fare.
Il tocco del creatore di This Is Us si sente tutto e, pur senza stupire particolarmente e con qualche eccesso di retorica, il lavoro fa il suo dovere.
How to Talk to Girls at Parties un gioiellino. E' vero, nel finale si perde un po', ma tutto sommato si lascia ricordare in maniera piacevole.
Film Stars Don't Die in Liverpool l'avevo incrociato, credo, tra i film che si trovano sul web, ma le stars del suo cast non mi avevano convinto a guardarlo... Ora potrei ricercarlo, ché un Viale del tramonto positivo una visione sembra meritarsela. ;)
Sai che pensavo ti unissi anche tu agli haters di Life Itself? Giammai. La prima parte è strambissima, e già meriterebbe soltanto per quella. La seconda mano, ma lì mi ha strappato una lacrima.
EliminaIdem Film stars don't die in Liverpool, che però massacrato non è stato. Allora perché nessuna distribuzione?
Il primo non mi interessava minimamente, ma se lo promuovi magari un'occhiata gliela posso anche dare. Il secondo sembra interessantissimo, così come il terzo, quei due penso che li recupererò senza dubbi.
RispondiEliminaResta solo il fastidio, te lo dico, di procurarsi i sottotitoli a parte...
EliminaFogelman trascurabile, a meno che non si adori come me This is us.