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venerdì 21 giugno 2024

Miniserie fatali: L'arte della gioia | Baby Reindeer | Mary and George

Inganno, sesso, omicidio. Ma, al termine di una lunga catena di nefandezze, ecco sopraggiungere un'incontenibile gioia. Sopravvissuta a un'infanzia verghiana, l'orfana Modesta gioca con le vite altrui. Prima accolta in convento, poi ospitata in un asfissiante palazzo nobiliare, si muove, scandalosa, nel buio seducente della miniserie di Valeria Golino. In arrivo su Sky nel 2025, l'adattamento del romanzo omonimo è in sala per farsi ammirare sul grande schermo. I sei episodi traspongono le prime 150 pagine di un cult che ne conta 500. I primi tre mostrano Modesta alle prese con l'infatuazione per suor Jasmine Trinca: l'erotismo è alle stelle. Gli ultimi si spostano nei salotti del cinema di Ivory, dove una Modesta ancora più machiavellica attenta al potere della principessa Valeria Bruni Tedeschi: esilarante e impietosa, l'attrice franco-italiana si conferma la nostra Streep. A palazzo Brandiforti la protagonista bramerà le carezze della principessina Alma Noce, ma vibrerà di passione a cavallo con Guido Caprino. Sontuoso e liberatorio, folle ed erotico, L'arte della gioia arriva dopo Povere creature e Saltburn, ma li precede nel tempo: il romanzo, infatti, è degli anni Settanta. L'antieroina diretta dall'eccezionale Golino diffida della sua stessa ombra ma ammicca allo spettatore. È la progenie di Bella Baxter e cammina, assetata di mare, nella Catania di inizio Novecento: è il primo passo affinché Barry Keoghan, poi, possa ballare nudo sulla scena del delitto. Piromane, mette a ferro e fuoco le convenzioni sociali e ci regala il ritratto di una nuova ragazza in fiamme: (im)modestamente, si chiama Tecla Insolia. Vent'anni, indimenticabile, senza catene. (8,5)

Siamo vittime e carnefici della società che i nostri padri ci hanno lasciato in eredità. Ma essere maschi non ci rende automaticamente figli del patriarcato. Soffocati da una visione machista della mascolinità, sottoposti a standard di prestanza fisica o coraggio irrealizzabili, viviamo anche noi un segreto senso di inadeguatezza. Anche noi ci sentiamo frangibili. E, a volte, fatichiamo a riconoscerci come vittime. Cosa direbbero in questura se un ragazzo forte e in salute denunciasse gli abusi subiti da una donna, per di più in sovrappeso e di mezza età? Cosa direbbero se questo stesso ragazzo, etero a suo dire, aggiungesse di essere stato stuprato da uno sceneggiatore televisivo? Il cromosoma Y non protegge dalla violenza. Baby Reindeer, la miniserie di cui tutti parlano, è una visione inedita della vulnerabilità maschile. Breve e affilata, racconta l'odissea psicologica di un aspirante comico perseguitato da una stalker. Nel passato di lui, però, si nasconde una vicenda di bugie e vergogna che l'ha condotto in una spirale senza ritorno. Può una psicopatica rispondere al nostro disperato bisogno di attenzioni? Può una violenza lacerarci a tal punto da portare alla luce aspetti di noi mai metabolizzati? Breve, scomodissima e dall'epilogo perturbante, la dark comedy autobiografica del sorprendente Richard Gadd non ha paura di mostrare al pubblico le contraddizioni dei protagonisti. Stratificati, contorti, incoerenti, hanno anime fragili e un ego masochista. Sono due facce dello stesso disagio; l'uno lo specchio dell'altra. Per l'orgasmo hanno bisogno del dolore, per amare hanno bisogno di odiarsi. E la tenerezza? Somiglia ai messaggi, ora patetici, ora minatori, che ci intasano la segreteria telefonica. Per scrittura e interrogativi, per coraggio e reticenza, per bile e catarsi, resterà la serie rivelazione del 2024. (8,5)

Una spietata arrampicatrice sociale alleva il suo secondogenito alla seduzione con un solo obiettivo: farne l'amante prediletto dal re d'Inghilterra. In ballo non ci sono soltanto titoli nobiliari e privilegi, ma perfino una potenziale guerra civile. Ispirato alla storia vera della famiglia Villiers e ambientato nella corte dissoluta di re Giacomo, noto sia per le pessime decisioni in materia di politica estera che per le trasgressioni sessuali, Mary & George è un intrigante dramma in costume in cui le prime quattro puntate promettono un'orgia sfrenata a base di sangue, eccessi, nudità. Il sesso è un gioco tra potenti. Il sesso è un'arma. All'inizio irresistibile, finisce purtroppo per appesantirsi negli ultimi episodi: le macchinazioni dei protagonisti abbandonano la camera da letto, minacciano di condurre a una guerra con gli spagnoli per puro capriccio, e i toni diventano più convenzionali; i ritmi più compassati. L'emergenza politica toglie spazio al vizio. Più accurata del previsto senza però rinunciare a una vena rock 'n roll, la miniserie Sky ha i suoi punti di forza nella magnificenza del comparto tecnico e nel cast. È un piacere vedere gigioneggiare Julianne Moore: mai così divertita e crudele, inanella l'ennesima performance magnetica. Ma mentre Tony Curran è un sovrano tormentato e vulnerabile, non convince l'ormai onnipresente Nicholas Galitzine. Bello sì, ma di una bellezza troppo adolescenziale e contemporanea, stona in una ricostruzione seicentesca ed è sprovvisto del sex appeal richiesto al ruolo. Non memorabile, la miniserie mette però a nudo scandali e personaggi: consigliata agli amanti dei period drama più spicy. (6)

sabato 10 aprile 2021

Sulla bocca di tutti: WandaVision | It's a Sin | Speravo de morì prima

Lei, sorridente e con una messa in piega inappuntabile, è la classica mogliettina pronta ad accogliere gli ospiti alla porta. Lui, impiegato sottopagato, si dedica a testa bassa al lavoro d'ufficio ma nasconde un'identità segreta. Lei strega potentissima, lui robot dal cuore d'oro, sono moglie e marito su uno sfondo saltato fuori dagli anni Cinquanta. Cosa hanno da spartire Wanda e Visione – due degli eroi più amati della squadra degli Avangers – con quelle sitcom senza tempo in stile Vita da strega? Cosa ho da spartire io, ancora, nemico giurato delle produzioni Marvel, con la serie più attesa e chiacchierata dei fumetti? Bene a conoscenza degli eventi del MCU grazie agli spoiler frequentissimi di amici e parenti, ho approcciato la serie in nove episodi senza confusione. Perché questo sacrificio? Gli stessi amici e parenti mi dicevano di vincere il pregiudizio e di gettarmi a capofitto in questo esperimento metatelevisivo senza precedenti. Man mano che la famiglia dei protagonisti si amplia – nascono due gemelli; la vicina di casa, Agnes, diventa una presenza fissa –, la serie cambia aspetto. Si avanza dagli anni Cinquanta ai Duemila, passando da Genitori in blue jeans a Malcolm in the Middle. Quale stregoneria è mai questa? Cosa succede nella cittadina di Eastview, protetta da una barriera impenetrabile e da leggi tutte sue? Inutile spendere parole di troppo, gli spoiler sarebbero dietro l'angolo. Tra omaggio luccicante e immancabile thriller a tinte action, WandaVision non è forse il capolavoro di cui si è letto qui e lì – sono troppi i buchi di sceneggiatura e l'epilogo, chiassoso, non mi è all'altezza della raffinatezza del resto –, ma resta in ogni caso una serie deliziosa. È l'anello di congiunzione tra il cinecomic e il film d'autore. È il ritratto sovrumano del più umano dei drammi, ossia l'elaborazione del lutto. È la consacrazione di Elizabeth Olsen, interprete splendida e versatile, accompagnata dal più dimenticabile Paul Bettany. È, sopratutto, uno spassionato atto d'amore verso l'amore e le serie TV: che, ora come non mai, ci salvano dai conflitti, dall'isolamento e, qualche volta, perfino dai noi stessi. (7,5)

Già profetico lo scorso anno, con il distopico Years and Years, Russell T. Davies si conferma la penna più adatta per catturare il meglio e il peggio dei nostri anni matti. Questa volta fa un passo indietro e si guarda alle spalle. Verso un passato che brucia ancora. Dichiaratamente omosessuale, Davies doveva avere la stessa età dei suoi protagonisti quando la paura ha cominciato a monopolizzare le conversazioni di un'intera generazione. Inizialmente sembrava una cosa destinata a sconvolgere soltanto i lontani Stati Uniti. In Inghilterra giovani, sfrenati, continuavano a darsi alla pazza gioia. Succede a Ritchie, aspirante attore che colleziona rapporti a rischio; a Roscoe, in fuga dalle restrizioni della famiglia; a Colin, discreto ma non per questo al sicuro. Unica donna della compagnia, la solerte Jill: un personaggio di una bontà mai vista, devota tanto ai propri coinquilini quanto alla causa gay. Inquadrati nella Londra dei primi anni Ottanta, i protagonisti sono un gruppo di ventenni che fronteggiano l'avvento spaventoso dell'Aids. L'ansia, le bugie, il negazionismo, gli ospedali affollati, i funerali in solitaria, la pulizia ossessiva e maniacale, il terrore viscerale del contatto fisico. Se tutto appare attualmente come non mai, in tempi di emergenza sanitaria, a risollevare gli animi ci pensa una dimensione corale degna di una sitcom bellissima. Qualche storia è a lieto fine, qualcun'altra purtroppo no. Scopriremo di famiglie accoglienti e di altre tenute all'oscuro. Vedremo le conseguenze della malattia – sarcomi, linfomi, perfino demenza – e i mezzi più ignoranti per scongiurarla – bere la propria urina, ingerire il liquido delle batterie. Quanta umanità e quanta follia nei protagonisti. Quanto bene gli ho voluto, nonostante avessero in molti casi il destino segnato. Che fosse una miniserie ironica, ben recitata e scritta benissimo, avrei potuto urlarlo al mondo anche soltanto dopo una manciata di episodi. Ma reduce dal quinto e ultimo, butto via i kleenex stropicciati e vi dico che la miniserie sulla morte ai tempi dell'amore resterà tra le più indimenticabili dell'anno corrente. (8,5)

Il lungo addio di Francesco Totti: l'ottavo re di Roma. Sei episodi dai toni indovinati, a metà strada tra la verve grottesca di Boris e il piglio esistenzialista di Paolo Sorrentino, per il biopic calcistico che non sapevi di stare aspettando. Lontano dal diventare un'agiografia stucchevole di matrice Rai, la serie diretta da Luca Ribuoli si conferma una fiera commedia nazional popolare: leggerissima, ma dotata altresì di una malinconia contagiosa, racconta cosa succede quando le luci dei riflettori stanno per spegnersi e cita con gusto Rocky, L'attimo fuggente e il cinema western di Sergio Leone. Nel mezzo del cammin della sua vita, dopo venticinque anni di onorato servizio, un “Pupone” sulla soglia dei quaranta si prepara a malincuore a riporre gli scarpini al chiodo. E a diventare finalmente uomo. Ma come non assecondare d'altra parte la tentazione tutta umana di inseguire un ultimo derby; un secondo tempo della giovinezza? Al congedo solenne partecipano figuranti d'eccezione – Del Piero, Pirlo, Calabresi, Memphis, Guzzanti –, quei genitori onnipresenti, dolcissimi e un po' cafoni – Guerritore e Colangeli –, i compagni di squadra – l'esilarante Antonio Cassano su tutti, dipinto come una sorta di delirante Lucignolo –, il nemico giurato Spalletti, la Blasi di una preziosissima Greta Scarano. Ma se la serie andata in onda su Sky si rivela essere la sorpresa televisiva di questo 2021 è soprattutto grazie al figlio d'arte Pietro Castellitto: una scommessa vinta. Che ci importa che sia più giovane e meno prestante del Francesco in carne e ossa, se becca a colpo sicuro la parlata strascicata, le smorfie e la capacità di far battute restando serio come Buster Keaton? Re e prigioniero all'interno di una Roma piena di contraddizioni, il capitano giallorosso si lascia raccontare tra pubblico e privato. E in una narrazione fluida, dove i ricordi d'infanzia si mescolano ad autentiche visioni a occhi aperti, segna il goal decisivo conquistando anche l'ammirazione di un profano mai stato all'Olimpico. (7,5)