
Lei,
sorridente e con una messa in piega inappuntabile, è la classica
mogliettina pronta ad accogliere gli ospiti alla porta. Lui,
impiegato sottopagato, si dedica a testa bassa al lavoro d'ufficio ma
nasconde un'identità segreta. Lei strega
potentissima, lui robot dal cuore d'oro, sono moglie e marito su uno
sfondo saltato fuori dagli anni Cinquanta. Cosa
hanno da spartire Wanda e Visione – due degli eroi più amati
della squadra degli Avangers – con quelle sitcom senza tempo in
stile Vita da strega? Cosa ho da spartire io, ancora, nemico
giurato delle produzioni Marvel, con la serie più attesa e
chiacchierata dei fumetti? Bene a conoscenza degli eventi del MCU
grazie agli spoiler frequentissimi di amici e parenti, ho approcciato
la serie in nove episodi senza confusione. Perché questo
sacrificio? Gli stessi amici e parenti mi dicevano di vincere il
pregiudizio e di gettarmi a capofitto in questo esperimento
metatelevisivo senza precedenti.
Man mano che la famiglia dei protagonisti si amplia – nascono due
gemelli; la vicina di casa, Agnes, diventa una presenza fissa –, la
serie cambia aspetto. Si avanza dagli anni Cinquanta ai Duemila,
passando da Genitori in blue jeans a
Malcolm in the Middle. Quale
stregoneria è mai questa? Cosa succede nella cittadina di Eastview,
protetta da una barriera impenetrabile e da leggi tutte sue? Inutile
spendere parole di troppo, gli spoiler sarebbero dietro l'angolo. Tra omaggio luccicante
e immancabile thriller a tinte action, WandaVision non
è forse il capolavoro di cui si è letto qui e lì – sono troppi i buchi di sceneggiatura e l'epilogo, chiassoso, non mi è all'altezza della raffinatezza del resto –, ma resta in ogni caso
una serie deliziosa. È l'anello di congiunzione tra il
cinecomic e il film d'autore. È il ritratto sovrumano del più umano
dei drammi, ossia l'elaborazione del lutto. È la consacrazione di
Elizabeth Olsen, interprete splendida e versatile, accompagnata dal
più dimenticabile Paul Bettany. È, sopratutto, uno spassionato atto
d'amore verso l'amore e le serie TV: che, ora come non mai, ci
salvano dai conflitti, dall'isolamento e, qualche volta, perfino dai
noi stessi. (7,5)

Già
profetico lo scorso anno, con il distopico Years and Years, Russell T. Davies si conferma la penna più adatta per
catturare il meglio e il peggio dei nostri anni matti. Questa volta fa un passo indietro
e si guarda alle spalle. Verso un passato che brucia ancora.
Dichiaratamente omosessuale, Davies doveva avere la
stessa età dei suoi protagonisti quando la paura ha cominciato a
monopolizzare le conversazioni di un'intera generazione. Inizialmente
sembrava una cosa destinata a sconvolgere soltanto i lontani Stati
Uniti. In Inghilterra giovani, sfrenati, continuavano a
darsi alla pazza gioia. Succede a Ritchie, aspirante
attore che colleziona rapporti a rischio; a Roscoe, in fuga dalle
restrizioni della famiglia; a Colin, discreto ma non per
questo al sicuro. Unica donna della compagnia, la solerte Jill: un
personaggio di una bontà mai vista, devota tanto ai propri
coinquilini quanto alla causa gay. Inquadrati nella Londra dei primi
anni Ottanta, i protagonisti sono un gruppo di ventenni che
fronteggiano l'avvento
spaventoso dell'Aids. L'ansia, le bugie, il negazionismo, gli
ospedali affollati, i funerali in solitaria, la pulizia ossessiva e
maniacale, il terrore viscerale del contatto fisico. Se tutto appare
attualmente come non mai, in tempi di emergenza sanitaria, a
risollevare gli animi ci pensa una dimensione corale
degna di una sitcom bellissima. Qualche storia è a lieto fine,
qualcun'altra purtroppo no. Scopriremo di famiglie accoglienti e di
altre tenute all'oscuro. Vedremo le
conseguenze della malattia – sarcomi, linfomi, perfino demenza –
e i mezzi più ignoranti per scongiurarla – bere la propria urina,
ingerire il liquido delle batterie. Quanta umanità e quanta follia
nei protagonisti. Quanto bene gli ho voluto, nonostante avessero in
molti casi il destino segnato. Che fosse una miniserie ironica,
ben recitata e scritta benissimo, avrei potuto urlarlo al mondo anche
soltanto dopo una manciata di episodi. Ma reduce dal quinto e ultimo,
butto via i kleenex stropicciati e vi dico che la miniserie sulla
morte ai tempi dell'amore resterà tra le più indimenticabili
dell'anno corrente. (8,5)

Il
lungo addio di Francesco Totti: l'ottavo re di Roma. Sei
episodi dai toni indovinati, a metà strada tra la
verve grottesca di Boris e il piglio esistenzialista di Paolo
Sorrentino, per il biopic calcistico che non sapevi di stare
aspettando. Lontano dal
diventare un'agiografia stucchevole di matrice Rai, la serie diretta da Luca Ribuoli si conferma una fiera commedia
nazional popolare: leggerissima, ma dotata altresì di una malinconia
contagiosa, racconta cosa succede quando le luci dei riflettori
stanno per spegnersi e cita con gusto Rocky, L'attimo
fuggente e il cinema western di Sergio Leone. Nel mezzo del
cammin della sua vita, dopo venticinque anni di onorato servizio, un
“Pupone” sulla soglia dei quaranta si prepara a malincuore a
riporre gli scarpini al chiodo. E a diventare finalmente uomo. Ma
come non assecondare d'altra parte la tentazione tutta umana di
inseguire un ultimo derby; un secondo tempo della giovinezza? Al
congedo solenne partecipano figuranti d'eccezione – Del Piero,
Pirlo, Calabresi, Memphis, Guzzanti –, quei genitori onnipresenti,
dolcissimi e un po' cafoni – Guerritore e Colangeli –, i compagni
di squadra – l'esilarante Antonio Cassano su tutti, dipinto come
una sorta di delirante Lucignolo –, il nemico giurato Spalletti, la Blasi di una preziosissima Greta Scarano. Ma se la
serie andata in onda su Sky si rivela essere la sorpresa televisiva
di questo 2021 è soprattutto grazie al figlio d'arte Pietro
Castellitto: una scommessa vinta. Che ci importa che sia più giovane
e meno prestante del Francesco in carne e ossa, se becca a colpo
sicuro la parlata strascicata, le smorfie e la capacità di far battute restando serio come Buster
Keaton? Re e prigioniero all'interno di una Roma piena di
contraddizioni, il capitano giallorosso si
lascia raccontare tra pubblico e privato. E in una narrazione fluida,
dove i ricordi d'infanzia si mescolano ad autentiche visioni a occhi
aperti, segna il goal decisivo conquistando anche l'ammirazione di un
profano mai stato all'Olimpico. (7,5)