Aspettare
il ritorno di Wicked ha scandito il mio anno in maniera
precisa. Un'emozione infantile, lieve, che si è rinnovata in una
sala con i cosplayer all'ingresso e un pubblico abbigliato a tema. Il prosieguo
della storia ha un difetto: anche a teatro, il secondo
atto è meno memorabile e più ingenuo. Le canzoni da
cantare a squarciagola sono poche. I colpi di scena non mancano, ma, come spesso succede a Broadway, è un deus ex
machina — non il Mago di Oz — ad alimentare i triangoli, a
trasformare i comprimari in cattivi, a scaraventare Dorothy giù dal
cielo. Epico, ma con un eccezionale amore per i dettagli, Chu omaggia
il talento delle maestranze — scenografi e costumisti su tutti —
e quello di un cast perfetto. Se la forza di Erivo ha già brillato,
qui si ha la consacrazione di Grande: incantevole, frivola e
fragilissima, punta all'Oscar con una favola politica che ne fa ora
una pedina, ora un simbolo. L'attesa di Wicked: For Good
è stata più emozionante del film in sé? Forse. Ma perfino
l’esplosione di una bolla di sapone finisce per suonare assordante
— e magica, come le rivoluzioni. (7,5)
Dopo
Queer
, Guadagnino torna e divide. Yale trema per un'accusa di molestie. Nella
caccia alle streghe, gli interrogativi incalzano. E tutti, pur di
proteggere la propria reputazione, diventano capaci di tutto. Roberts, di bianco vestita ma moralmente in chiaroscuro,
giganteggia accanto a Stulhbarg in un thriller senza
vincitori né vinti. L'istrionico Garfield è davvero un predatore?
Adebiri, mai all'altezza del resto del cast, usa la propria
vulnerabilità per occultare un plagio? E cosa spinge la Roberts a
schierarsi, o a non farlo? Citando Allen - il maggiore regista vittima della cancel culture -, Guadagnino provoca
con un film sontuoso e ambiguo. Smaschera le ipocrisie della Gen Z
dell'inclusione e dei trigger warning, ma anche l'omertà dei Boomer
mai scesi a patti coi loro scheletri nell'armadio. Lo scontro avviene
lasciando fuori i corpi: questa volta solo il pomo della discordia in
un cinema dove i non detti, come in Anatomia di una caduta, feriscono più dei dialoghi o degli stridori
della colonna sonora. «Di' tutta la verità», scriveva Dickinson,
«ma dilla obliqua». After the Hunt la dice così, sbieca e
tagliente, fino a confondere giusto e corretto. (8)
, Guadagnino torna e divide. Yale trema per un'accusa di molestie. Nella
caccia alle streghe, gli interrogativi incalzano. E tutti, pur di
proteggere la propria reputazione, diventano capaci di tutto. Roberts, di bianco vestita ma moralmente in chiaroscuro,
giganteggia accanto a Stulhbarg in un thriller senza
vincitori né vinti. L'istrionico Garfield è davvero un predatore?
Adebiri, mai all'altezza del resto del cast, usa la propria
vulnerabilità per occultare un plagio? E cosa spinge la Roberts a
schierarsi, o a non farlo? Citando Allen - il maggiore regista vittima della cancel culture -, Guadagnino provoca
con un film sontuoso e ambiguo. Smaschera le ipocrisie della Gen Z
dell'inclusione e dei trigger warning, ma anche l'omertà dei Boomer
mai scesi a patti coi loro scheletri nell'armadio. Lo scontro avviene
lasciando fuori i corpi: questa volta solo il pomo della discordia in
un cinema dove i non detti, come in Anatomia di una caduta, feriscono più dei dialoghi o degli stridori
della colonna sonora. «Di' tutta la verità», scriveva Dickinson,
«ma dilla obliqua». After the Hunt la dice così, sbieca e
tagliente, fino a confondere giusto e corretto. (8)
Chase
Infiniti è una figlia che non ha mai conosciuto la madre. Leonardo DiCaprio è
una padre sempre in hangover, con un passato da sovversivo per
amore. Sean Penn è un militare repubblicano che, a dispetto dei segreti feticismi sessuali, vorrebbe sedere fra i suprematisti bianchi.
Ambientato in una polveriera a ridosso del confine messicano, Una battaglia dopo
l'altra è un film tra il thriller e la commedia nera, l'impegno
politico e il grande intrattenimento, i fratelli Coen e Breaking
Bad. Esilarante a dispetto dell'urgenza delle tematiche,
frenetico nonostante la durata fiume, adatta Vineland di
Thomas Pynchon ai giorni nostri e, in mezzo ad assalti, guerriglie e
inseguimenti, non dimentica di indirizzare una lettera di speranza alle nuove
generazioni: la meglio gioventù che erediterà dai padri il gusto
della disobbedienza civile, ma non la mascolinità tossica. Se
l'antieroe DiCaprio è un boomer lontano dai cliché action, l'Oscar
sembra brillare per un Penn iconico come non mai. Il
cinema è una cosa meravigliosa, soprattutto quello di un Paul Thomas
Anderson in forma smagliante. Quando fa la rivoluzione, di più. (9)
Emma
Stone (in sala anche con il brutto Eddington) è un'aliena sotto copertura con l'obiettivo di portare il
genere umano all'estinzione? È
la teoria del complotto di un imprevedibile Jesse Plemons, che insieme al cugino autistico progetta un
rapimento in cui l'emergenza ambientale si mescola alla vendetta. Con
un pugno di attori fidati, Yorgors Lanthimos torna con una commedia nera
dalle derive splatter in cui mancano i suoi vezzi stilistici (grandangoli, fish-eye, campi lunghi o lunghissimi) e, soprattutto,
il graffio vero nella scrittura. Sarà perché, questa volta, si tratta
del remake di un piccolo cult coreano? O forse è per via della vaga noia per
i soliti nomi, i soliti registi che sfornano un film all'anno, i
soliti film appesantiti da venti minuti troppo? Nel dubbio che ci accompagna fino a fine visione, si
sorride comunque al pensiero di ciò che i
protagonisti sarebbero capaci di fare. Bugonia - il cui titolo
spoilererà il finale ai secchioni del classico - è il
Lanthimos meno disturbante e più sopra le righe. Ma anche quello
inedito, perché finalmente divertente. (6,5)
Che
fine hanno fatto le commedie romantiche: quelle leggere e
patinate, a lieto fine, tipiche degli anni Novanta? Celine Song, reduce dal successo dell'intenso ma sopravvalutato
Past Lives, risponde con un triangolo
sentimentale degno dei classici di Jane Austen. La splendida Dakota
Johnson è una novella Emma divisa tra lo scapolo d'oro Pedro
Pascal e il cameriere di belle speranze Chris Evans, ragione e
sentimento, in un film ambientato nell'inferno del dating, degli
algoritmi e del consumismo sfrenato. I soldi non faranno la felicità,
forse, ma garantiscono una serena vita di coppia. È la tesi di un
film classico, ma diversissimo da come gli spot promozionali e il discutibile titolo italiano ce lo hanno raccontato. Cinico, contemporaneo e
calcolatore, Materialists fa del
matrimonio un contratto e dell'amore merce di scambio. La nostra
affascinante eroina newyorkese troverà il suo principe azzurro, o
rischierà il burnout? Inevitabile, a fine visione, sentirsi un po'
più brutti, soli, poveri e bassi rispetto all'inizio. Celine, diccelo, per favore: cosa
ti hanno fatto di male gli uomini alti soltanto uno e settanta? (7)




D'accordissimo su Bugonia e soprattutto su Una Battaglia dopo l'altra, film epocale (letteralmente: è lo specchio di un'epoca). Meno su Guadagnino, ma probabilmente è un mio problema... ad ogni modo ottimo post, con ottime sintesi.
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