Ciao a tutti,
amici. Come state? Oggi, per riempire un vuoto lungo quasi una
settimana, causa studio ed esami tragicamente imminenti, ho deciso di
proporvi una puntata della rubrica Mr. Ciak – che ormai,
quando le mie letture vanno a rilento e il blog è in stato comatoso,
è un po' il mio jolly. In realtà, non guardo un film da tipo una
settimana – e no, la mia maratona di How to get away with murder
non vale: le puntate sono corte! - quindi vi parlo di cosa ho
visto di recente. Avrei voluto aspettare, parlarvi di altro, perché
tutti quei sette e tutti quei film già noti creano solo monotonia,
ma boh. E poi se fino a quando non mi libero dalla sessione invernale
non riesco a guardare più niente di niente? Quindi, se vi va,
sorbitevi le mie chiacchiere sui drammi indie di Felicity Jones,
sugli italiani che portano (bene) al cinema un romanzo straniero
molto acclamato, sulla commedia francese che – con la bellissima
Gemma Arterton e con l'intramontabile Flaubert – fa al solito
faville. Un abbraccio, M.
Nella
lontana estate del quarto ginnasio, adolescente brufoloso dato in
pasto a una prof di letteratura indicibilmente maligna, leggevo in
spiaggia tutta una serie di romanzi minori che lo stesso Verga aveva
scordato di aver scritto e un grande classico, Madame
Bovary. Verga, mio acerrimo
nemico, l'ho odiato senza troppo sforzo; Flaubert no. Mentre, perciò,
qui aspettavano Dio solo sa cosa, io già avevo intercettato
Gemma Bovery tra le uscite
straniere e avevo avuto fiducia nei distributori italiani, che mi
vogliono bene e le buone commedie d'oltralpe non se le fanno
scappare. Chi mi legge, sa: che penso che il cinema francese abbia
una marcia in più, che non c'è posto più affascinante della
campagna normanna e che se ci sono toni irresistibili e una
protagonista bellissima, allora il gioco è fatto. L'ultimo film di
Anne Fontaine è una deliziosa produzione con suggestioni british e
carte in regola perfette. Echi letterari, un epilogo tragicomico
eppure divertentissimo, garbo, Gemma Arterton. E lo so che ho appena
giurato amore eterno a Felicity Jones, ma tanto mica capisce
l'italiano lei, no? Gemma Arteron, mai così bella, quasi da
combustione spontanea, ha lo stesso nome del suo personaggio e il
destino apparente dell'eroina di Flaubert. O almeno di questo è
convinto il suo vicino di casa, un fornaio ficcanaso che legge troppo
e vive troppo poco. Quanto può fare un romanzo? Tanto, questo è
certo, ma conoscere il finale in anticipo forse potrà cambiare il
destino di quella conturbante giovane venuta dall'Inghilterra, con
marito americano e una flotta di ammiratori segreti che minacciano la
sua serenità? Ispirato a una graphic novel, Gemma Bovery è
una riscrittura in chiave moderna di un polveroso capolavoro:
operazione rischiosa, ma salvata da quei francesi coltissimi,
autoironici, nostalgici, che fanno sembrare cosa da niente qualcosa
da maneggiare, invece, con cura. Saranno antipatici, o almeno così
dice la leggenda, ma hanno una leggerezza inimitabile. Inutile dire
che non ci si annoia mai e che quel loro sguardo malizioso, anche in
mezzo a presagi e giochi del destino, diverte. Fattura impeccabile;
una barriera linguistica impossibile da comprendere non guardano il
film in lingua originale, ma discretamente suggerita dal nostro
doppiaggio. Fabrice Luchini, con l'ormone non ancora in pensione, una
fantasia che fa guai e sogni erotici in costumi ottocenteschi, è
ottimo. Gemma Arteron, con un ruolo cucito addosso su quel suo corpo
burroso e cosparso di lentiggini, è erotica e ingenua: impastare il
pane è la cosa più sexy del mondo. Per non parlare di quando, in
una scena con il fortunato biondino già visto il Les
Amours Imaginaires, si sfila
l'impermeabile... Mi ha ricordato la Malena di
Tornatore, muta e raccontata dagli altri - vicini invidiosi che le
guardavano nella scollatura e nel buco della serratura; ma anche una
creatura inconsapevole, studiata e manipolata come nell'imperdibile
Nella casa, con lo
stesso Luchini nel cast, un regista più grande, riflessioni in rima
– tra sarcasmo e seduzione – sulla realtà che imita il falso e
viceversa. (7)
Dopo
la scoperta che una Felicity Jones al giorno toglie il medico di
torno, ho dedicato una sera a Breathe In e
quella direttamente successiva a Like Crazy.
Invertendoli, guardandoli al contrario. Due visioni con la firma
dello stesso Drake Doremus, con protagonista la stessa inglesina
dagli occhi verdi verso cui a vent'anni ho sviluppato una cotta
mostruosa, che manco alle scuole medie. Per i motivi sbagliati – ma
la bellezza della Jones è poi un motivo sbagliato? - sono andato a
ripescare molti dei suoi film che, non so nemmeno io il motivo, mi
erano sfuggiti. Lei mi piace perché è lei e perché fa un genere
vagamente di nicchia che ha sempre saputo toccare le mie corde
segrete. E, a proposito di segreti, quando mi chiedevano “Ma
Felicity Jones chi?”, io rispondevo “Quella di Like
Crazy”, anche se Like
Crazy non l'avevo mica visto.
Tutti pensavano il contrario; io non davo smentite. Adesso però me
lo chiedo. A cosa diamine pensassi, dove diavolo fossi, quando
quattro anni fa al Sundance presentavano un film che anche allora mi
sarebbe piaciuto. Riassunta, condensata, ma mai compressa a forza –
violata – ci viene raccontata una storia d'amore nella sua
interezza. Anna e Jacob si piacciono un mondo, ma lui è americano,
lei è una studentessa inglese con un visto in scadenza. Imbrogliano
per qualche tempo, lei parte, quando ritorna non può ritornare
davvero. Problemi con la dogana. Problemi con chi la aspetta a casa.
Odorarsi, conoscersi, poi perdersi mai del tutto. C'è parecchio in
un'ora e trenta. La spensieratezza degli anni d'oro, il disincanto
dell'età adulta sperimentato anche da chi continua ad avere il volto
d'adolescente. La fiamma che si raffredda ma non si spegne. Anton
Yelchin e Felicity, insieme a una Jennifer Lawrence di passaggio,
sono i teneri e convincenti testimoni di un amore di quelli veri,
mentale e fisico, che ha bisogno di un tocco, d'un promemoria, per
farsi ricordare. O lo si scorda, con il silenzio e la lontananza.
Maturi ed immaturi, zelanti e pigri, sono la pioggia, e il sole, e i
check in in aeroporto, e le promesse (non) fatte tanto per. Un
Doremus più acerbo e introverso, ma già bravo, li inchioda con i
primi piani e le spalle al muro, mentre una fotografia opaca e nuda
ce li racconta alle prese con il rimpianto. Lui cattura il
significato più profondo dell'assenza, il nocciolo dell'attesa,
l'eroico tentativo di imbrogliare il tempo e, con una quiete solo
apparente, stupisce con trovate brillanti e un montaggio che mi ha
regalato spunti di una bellezza impensata – la serie di istantanee
di loro a letto, i campi e contro campi che alternano il corpo della
Jones a un posto vuoto sul bus, sei mesi di pratiche e ripensamenti
sbrigati buttatando avanti veloce. Il pane quotidiano per chi ama le
storie d'amore indie,
con dialoghi lunghissimi che sarebbero il sogno di ogni giovane
attore, momenti di una maturità che strappano il cuore e ti fanno
invecchiare con un singolo passaggio di macchina, svolte impreviste
per capire davvero le quali devi essere semplicemente un po'... come
loro. Un po' così. Così, senza definizioni. Così, come chi quando
guarda uno squarcio di storia d'amore pensa già a come andrà a
finire. (7,5)
Gli
italiani che riadattano un altro romanzo scritto fuori dai nostri
confini. Un romanzo che chi ha letto definisce, spesso, un Carnage,
in cui quattro adulti si riuniscono per parlare di un misfatto più
grande di una scaramuccia tra bambini. In attesa di vedere I
nostri ragazzi – che ha
cambiato titolo, ambientazione e forse anche qualcos'altro – avrei
voluto recuperare il libro, per dirvi come siamo noi quando diamo
un'impronta altra a qualcosa che non ci appartiene. I protagonisti
sono due fratelli che non potrebbero essere più diversi. Uno crede
nell'onestà, l'altro nel potere dei soldi. Mettono da parte i litigi
e le divergente una volta all'anno, durante una cena che è un
trionfo di maschere, ipocrisie, chiacchiere stantie. Ma quando si
insinua il sospetto di un fatto terribile, quando un interrogativo fa
capolino attraverso la tivù che annuncia l'ultimo caso di cronaca,
allora tutto si ribalta e l'affetto seppellisce la ragione. Prima
distanti, poi quasi complici, i quattro si domandano cosa fare, alla
notizia che i loro figli perfetti hanno la coscienza sporca. Con una
direzione tutt'altro che pedestre, il regista colpisce per la qualità
della scrittura e per diverse scelte formali: i dialoghi densi e i
patinati luoghi chiusi si alternano a scene in cui il chiasso,
attraverso un uso capace della colonna sonora, è messo a tacere e in
cui quelle case futuriste, con le linee dritte e i colori freddi,
ricordano prigioni. Tra i quattro protagonisti, decisamente
convincenti, menzione per una Giovanna Mezzogiorno invecchiata, ma
sempre a fuoco, che è un piacere rivedere: il ruolo sgradevole di
una madre disposta a chiudere gli occhi davanti all'evidenza, i
vestiti castigati contrapposti a quelli provocanti dell'affascinante
Bobulova. Calato nel ruolo quell'Alessandro Gassman che spesso,
altrove, stona; padrone, sottile, complicato un Luigi Lo Cascio che
con i personaggi impegnativi va a nozze. Scomodo, curato,
preoccupantemente vicino, sa come non cadere nel facile moralismo:
sarà che una morale non c'è e che quel finale tronco, agghiacciante
e inaspettato, ribalta yin e yang. Un quartetto di intriganti
personaggi calati in una situazione pericolosa, riflessioni e colpe
già mostrate ma che incatenano, un epilogo tragico e farsesco, di un
nero che soffoca. Notevole, tutto. E tu, persona corretta e generosa,
proprio tu: cosa faresti se i tuoi figli fossero gli assassini di cui
hai sentito parlare in televisione? (7)
La
famiglia perfetta che apre le porte di casa a una studentessa
straniera. Una ragazza timida, pacata: una lettrice e una musicista.
Una con gli occhi sterminati, che parla la loro stessa lingua, ma con
un accento diverso. Quello britannico, che rende tutto più elegante
e formale. Sono in tre, in una villa di campagna lontana dalle luci
della città, ma quell'estranea, un posto aggiunto a tavola, un'altra
bocca da sfamare, un'altra testa pensante, metterà alla prova i loro
equilibri. E nulla è dato per certo, quando ci si mettono di mezzo
l'attrazione fisica e qualcosa che, forse, somiglia all'amore che
tutti sognano. Le tazze da collezione della mamma cadono a terra in
mille pezzi; le vecchie amicizie della figlia sembrano avere occhi
solo per la nuova arrivata; i desideri autentici del padre, uomo di
mezza età che insegna in un liceo ma insegue la grande musica, fanno
prepotentemente capolino, mentre il signor Reynolds si scopre
innamorato della dolce Sophie. Breathe In è
un dramma indipendente di qualche anno fa, che ho recuperato per la
voglia di conoscere meglio e più da vicino quella giovane attrice
che in La teoria del tutto
mi aveva incantato. Ma quant'è bella Felicity Jones? E quanto è
delicato questo film? E quante scarse sono le probabilità di vederlo
anche da noi? Sarebbe strano vederlo distribuito. Doppiato. Contro
natura, quasi, strappare la Jones da quelle atmosfere tenui a cui
appartiene e rendere in italiano i dialoghi intimi che costruiscono
questo storia d'amore, che poi è una lezione di respirazione. In
inglese, come saprete meglio di me, non c'è differenza tra il
tu e il voi.
You è pronome di
seconda persona singola e plurale, e sono le situazioni a farci
capire se, formali, ci si dà del lei,
oppure se si è passati, con la conoscenza reciproca, a un rapporto
più confidenziale. Mi sono chiesto per tutto il tempo quando i due
protagonisti avessero oltrepassato la soglia delle buone maniere per
scoprirsi confidenti. Ma, in verità, impossibile dire se la loro
relazione vada mai oltre qualcosa. Nascosta, trattenuta, platonica.
Breathe in parla di un
uomo sposato che intraprende una relazione clandestina con la ragazza
che ospita per un semestre, ma non esiste malizia. E poi, ai paesaggi
bucolici e ai primissimi piani su quei volti acqua e sapone, si
aggiunge la musica classica; la professione del musicista. Bravissimi
e naturali la Jones e Guy Pearce, in una prima parte in perfetto
equilibrio, pure un po' magica, che quando si scopre terrena, dotata
di un peso suo, perde qualcosa. Il film di Drake Doremus è
l'equivalente di un sussurrare, di uno sfiorarsi, di un non dirsi, di
un camminare in punta di piedi. Un mezzo gesto, perlopiù nascosto,
che è significativo proprio perché destinato a non completarsi: a
non diventare un dialogo, una carezza, un confronto, una fuga. (7)
Gemma Bovery l'ho trovato parecchio gradevole, sarà forse perché Gemma Arterton si impone in maniera dirompente. Anzi, togliamo il forse... :)
RispondiEliminaTra i Felicity Jones movies ho preferito Breathe In, Like Crazy invece non mi aveva colpito particolarmente. Ho avuto la sensazione di una storia d'amore indie già vista troppe volte. Quando l'avevo guardato però non mi ero ancora innamorato di Felicity, quindi adesso potebbe farmi un'impressione del tutto differente... :D
Riguardo a I nostri ragazzi, il fatto che sia tratto da un romanzo straniero come Il capitale umano è incoraggiante, però nonostante il tuo parere positivo continua a non ispirarmi molto...
Ricordo che tu avevi apprezzato il Capitale (io non tanto...), quindi secondo me ti piacerà. Ha un bel cast e alcuni accorgimenti niente male.
EliminaSì, Like Crazy l'ho guardato con gli occhi dell'amore, altrimenti non so. L'amante del lieto fine scontato che è in me, forse, avrebbe gradito di meno.
Gemma Bovery è davvero bellino, e il finale che tira in ballo Anna Karerina mi ha fatto morire dal ridere! :-D
Ciao Michè! :D
RispondiEliminaSembrano tutti interessanti, una romanticata mi ci vuole ogni tanto, ancora meglio se la protagonista è Felicity. Non perderò anche la parodia di Madame Bovary e il film italiano, insomma li proverò tutti, prima o poi, forse più POI perché non ho uno straccio di tempo. :)
Ciao Salvatore! Bravo, sì. I film romantici della Jones non sono proprio il top dell'allegria e della sdolcinatezza, ma lei ci piace per quello. Cioè, il più sdolcinato è proprio La teoria del tutto, va a finire. Niente di imprescindibile, insomma, ma tutti e quattro carucci ;)
EliminaOttimi recuperi i tuoi, innamorarsi di Felicity ti ha fatto bene :)
RispondiEliminaLike Crazy è ancora avvolto dalla malinconia, quel finale così, quello sviluppo così.. anche se -visto che io lo aspettavo da anni, per poi scoprirlo già in rete e disponibile all'improvviso- qualcosina di più lo speravo.
Meglio Breathe in, trattenuto, che lascia col fiato sospeso, a spiare dentro questo dramma.
Gemma Bovery arriverà nel mio cinema di fiducia a breve, l'italiano, mah, lo lascio lì che Carnage mi è bastato ;)
Ah, Felicity ci rende più saggi!
EliminaLa scena finale di Like Crazy, anche se discreta come il resto del film, è davvero tosta. Difficile immaginare due persone così giovani già alle prese con il ripianto e il ripensamento. L'italiano, guarda, non è affatto male. Ma ammetto che il genere mi piace, insieme a quei quattro bravi attori :)
Gemma Bovery è carinissimo. Gemma e Fabrice Luchini fanno un'accoppiata imperdibile.
RispondiEliminaI nostri ragazzi mi è piaciuto tantissimo, ed ho cominciato a vedere anche altri film di Ivani De Matteo, anche se Gli equilibristi mi ha abbastanza annoiata.
Breathe In lo amo, probabilmente tra i miei film del cuore, l'ho rivisto di recente.
Però degli Equilibristi mi parlano tanto bene, quindi un'occhiata la darò.
EliminaDe Matteo sa il fatto suo, o così mi è parso.
So già che Breathe In è un tuo cult :)
breathe in e I nostri ragazzi ancora non li ho visti e anche Gemma Bovery ( ma a breve colmerò questa lacuna), Like Crazy invece quando l'ho visto mi sembrò carinissimo...a questo giro hai beccato tutti bei film...
RispondiEliminasì, sono stato fortunato :D
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