lunedì 17 dicembre 2018

Recensione: S., di Gipi

| S., Gipi. Coconino Press, € 10, pp. 110 |

Dopo La terra dei figli si comincia con le immagini di un'altra guerra. Questa volta non di fantasia. Su Pisa piovevano le bombe degli americani e i feriti, con i morti che si aggiravano attorno ai cinquemila, brancolavano fra le macerie come i mostri deformi di una distopia post-apocalittica. Ci sono ancora uno scenario desolante, ancora un figlio maschio con un'eredità di sofferenze e memorie per le mani. Questa volta non è invenzione, non completamente. Il mio secondo Gipi, sempre in edicola, sempre con un graffio da poeta contemporaneo, racconta infatti se stesso e i ricordi del padre scomparso.

La fidanzata di S. è coperta di polvere. Non è ferita. Non ha niente. Solo la punta di un gomito sbucciata ed un principio di odio verso il mondo che potrebbe non guarire mai.

Il fumettista toscano si disegna, si svela, con nel titolo un'iniziale puntata che si addice alla figura di un genitore al tempo stesso assente e presente fra le pagine: Sergio, che nei tamponamenti in autostrada evitava saggiamente conflitti con gli automobilisti battaglieri; che faceva ridere tutti citando i versi più pruriginosi della Divina Commedia – si teneva invece per sé quelli romantici, sull'amore di Paolo e Francesca – e usando culo come imprecazione; che amava rivangare il passato anche a costo di aprire vecchie ferite, anche a costo di ripetersi come un disco rotto. È morto quando l'autore era già adulto, ma non si è mai abbastanza grandi per scoprirsi orfani. Non è accaduto all'improvviso: una diminuzione progressiva della vista e la stanchezza di chi è stanco di combattere i mulini a vento della terza età. La notizia raggiunge Gipi mentre giocava a uno sparatutto online. E si sente in colpa, e si sente dalla parte del torto: un padre con una vita consacrata alla sensibilizzione – epocale la lite per quegli anfibi tedeschi acquistati da un robivecchi con simpatie naziste, con tanto di fuga lontano da casa –, ed ecco il figlio che ammazzava. Anche se per finta. La consapevolezza comporta un'elaborazione particolarissima: l'autore porta il lutto nel cuore, e sulle sue tavole racconta la Seconda guerra mondiale, un'inquietante avventura su un'isoletta chiusa al pubblico, un funerale all'insegna dell'ultima volontà del morto. Il pretesto: una gita a quattro in barca – con Gipi anche lo zio Piero e il cugino Luca –, in cui un aneddoto tira l'altro e un piccolo pericolo è in agguato.

In mare, con le lenzuola e il materasso, cominciamo a ridere tanto da rischiare di affogare. E continueremo a ridere per anni, tutte le volte che questa scena ci tornerà alla mente. Rideremo come gli scemi che siamo. Rischiando di affogare più volte, pure sulla terraferma.

Manca un filo conduttore. Manca un senso. Manca un ordine prestabilito. Si salta di palo in frasca, si passa da abbozzati schizzi a matita alla bellezza degli acquerelli degli impressionisti francesi, si seguono le sequenze di un flusso di coscienza che porta alla deriva. Lasciarsi andare per fortuna ha del poetico, ha del liberatorio. In una lettura che insegna a pescare, a diffidare da chi ti dice che commuovere è far bene, a perdonare gli sbagli delle famiglie imperfette. La sapevi quella volta in cui Sergio e Piero trattennero il fiato sotto le assi del pavimento per sfuggire ai soldati, o quella in cui fu proprio un crucco a salvare la madre dell'autore dal crollo della conigliera in cui si era riparata? Le pernacchie ad Andreotti in tivù, un matrimonio salvifico forse difficile da capire, il desiderio di tornare morendo polvere alla polvere? Ricordi la storia dei due disertori tedeschi, che volevano guadare un corso d'acqua nonostante non sapessero nuotare?

Dovevano apparirgli come puntini nell'acqua. Puntini biondi che cercavano di attraversare il fiume. E tanto bastava. C'era la guerra.

Resta il fatto che Sergio si facesse pestare dagli americani, suo figlio dagli spacciatori del quartiere. Resta, ancora, un'urna da trafugare come in un film per liberarne i resti in mare: le ceneri sono brace viva, emanano calore. I bravi padri scaldano sempre, come quanto ti sfregavano i piedi intirizziti in settimana bianca. Ce ne accorgiamo in un volume scritto in brutta grafia, con tanto di cancellature a penna, che commuove per onestà e asciuttezza: S. non vive semplicemente in memoria di. È la confessione piuttosto di uomo colto in contropiede da una perdita da cui non c'è scampo. E nello spoglio di questo testamento morale – in presenza del notaio di fiducia, e di lettori sempre più affezionati – scopre che in eredità gli son toccate la stempiatura e l'abilità di raccontare ad arte, a volte calcando la mano e a volte preferendo l'insostenibile leggerezza dell'essere (affranti), storie e bugie.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Johnny Cash feat. Fiona Apple - Father And Son

4 commenti:

  1. Mi ha colpita il trafugare l’urna, una tentazione avuta anche dalla mia famiglia dopo la morte del nonno, causa una burocrazia tutta italiana schizofrenica per le cose serie ma rigidissima nel separe nella morte due vecchietti che si sono amati tutta la vita. Questo volume mi interessa, ma un po’ lo temo. Da un lato la paura che colpisca troppo vicino a casa, dall’altra il pensiero che forse si è guariti abbastanza.

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    1. Cosa rispondere al tuo commento, sincero e bello quanto o più di questo ricordo del buon Gipi? Ti consiglio di leggerlo. Potrebbe essere una lettura assolutamente conciliante.

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  2. Il mio approccio cinematografico con Gipi e il suo L'ultimo terrestre era stato particolarmente positivo. Dovrei approfondire di più la sua opera, anche se questo mi sa più di un lavoro adatto a chi lo conosce già un pochino meglio...

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    1. Ti era piaciuto il film? Bene così, me lo sono procurato da pochissimo. Come fumettista è molto personale, molto particolare. S. è stato il secondo volume dei suoi che ho letto e, nonostante la poca conoscenza, l'emozione si è fatta sentire ugualmente. 😁

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