Il
cinema di Guillermo Del Toro è il Paese dei balocchi. Irresistibile
all'apparenza, ha sempre nascosto un cuore buio. Ma le sue favole,
anche quando contaminate dall'horror, non hanno mai rinunciato alla
speranza: spesso, a portarla, era la morte stessa. Il suo ritorno al
cinema, passato talmente inosservato che la nomination al Miglior
Film è parsa un fulmine a ciel sereno, sorprende anche senza colpi
di scena. È un Del Toro senza magie. È un Del Toro senza speranza
Adattamento dell'omonimo romanzo, racconta l'ascesa e la caduta di un Bradley Cooper più bravo
che mai: in fuga dai sensi di colpa, si rifugia prima tra gli artisti
di un circo itinerante; successivamente, accompagnato da una
dolcissima Rooney Mara, punta a mettere in pratica i trucchi appresi
(anzi, rubati) presso riccastri affascinati dal mentalismo.
Come non soccombere però alla seduzione di Cate Blanchett, perfida
femme fatale esperta di psicologia e spiritismo? Diviso in due metà
antitetiche, unite dalla beffarda chiusa circolare, La
fiera delle illusioni inizia come un'epopea alla Steinbeck e
ammalia, poi, con le atmosfere da noir: lo zampino del regista è lì,
in un'estetica ineccepibile, e nella resa agrodolce della vita dei
saltimbanchi (la giostra dei cavalli ispira romanticismo, ma la sorte
dell'uomo bestia, intanto, fa raggelare). Al di là di uno stile
ormai perfettamente riconoscibile, glissando sui cliché di un genere
antiquato, il film si rivela una morality play amara,
nichilista, dalla puntualità spaventosa. A muovere i passi (falsi)
di Cooper è l'amore (per chi?), o la disperazione? Cosa spinge i
suoi facoltosi clienti, invece, a lasciarsi illudere? Metafora della
settima arte, forse la fabbrica di menzogne per antonomasia, è la
perdita dell'innocenza di un autore Premio Oscar. Nel suo petto,
batte un cuore nerissimo. E dal Paese dei balocchi, questa volta, si
esce trasformati tutti in asini raglianti. (7,5)
Una
professoressa di mezza età trascorre le vacanze al mare in
solitaria. Qui viene attratta da una giovane mamma, dalla sua bambina
e dalla bambola di lei: suggestionata dall'incontro, mette inconsciamente in moto
vecchi e dolorosi ricordi. La trama di uno dei primi romanzi di Elena
Ferrante, all'apparenza elementare, era in realtà materia incandescente difficile da maneggiare. Ci voleva qualcuno coraggio come l'attrice
Maggie Gyllenhaal, qui al suo esordio alla regia, che forse sarebbe
stata una scelta ben più giusta della solita Olivia Colman per
incarnare le fragilità della protagonista femminile. Per non uscire
fuori dai margini, Gyllenhaal rischia pochissimo (cambia
l'ambientazione: non più l'Italia, ma la Grecia) e adatta il tutto
con fedeltà filologica. Ma mentre il romanzo è sottile, una
scheggia perfetta, il film si trasforma per eccesso di zelo nella sua
versione più densa, caotica e pesante. Pur conservando i vaghi
simbolismi horror, la regista rinuncia all'aura perturbante e saffica
della vicenda – leggendo avevo pensato a un incrocio bollente tra
Swimming Pool e Chiamami col tuo nome –,
concentrandosi sui flashback di gioventù: per quanto la candidata
all'Oscar Jessie Buckley si confermi un'interprete straordinaria,
avremmo voluto vedere più Datoka Johnson. Motore dell'azione,
l'attrice delle Sfumature di grigio ha poche battute e nessuna
alchimia con il personaggio di Leda, che su carta immaginavo più
intrigante e sensuale di questa Colman un po' goffa sotto
l'ombrellone. Si può trarre un film da una storia pressoché
infilmabile? Può una sceneggiatura sciogliere i non detti
dell'inconscio? Qualcuno come Jane Campion, spietata e morbida
perfino nel suo ultimo western, avrebbe osato il miracolo. Maggie
Gyllenhaal, per quanto audace nelle scelte – ricordiamo, infatti,
una carriera attoriale costellata di piccoli ruoli scandalosi –, fa il
passo più lungo della gamba e non si dimostra all'altezza. (6)
Non
me ne frega niente, cantava Levante, se il mondo crolla e non
mi prende. La stessa indifferenza avvolge i protagonisti
dell'ultima commedia di Adam McKay. Minacciata
dall'arrivo di un cometa, la Terra ha cinque mesi prima della
collisione: gli scienziati DiCaprio (bollato come il più sexy della
TV) e Lawrence (vittima di una caccia alle streghe a colpi di meme)
ci hanno avvisati. Peccato che, tra uno scandalo della Presidente
Streep, le disavventure sentimentali della pop star Ariana Grande e i
piani megalomani di un novello Steve Jobs, a nessuno importi dell'umanità. Se nell'era del
consumismo tutto può essere monetizzato, chi ci salverà da noi
stessi? Lungi dall'essere il miglior film del 2021, Don't Look Up
è il più rappresentativo per ridere di gusto dei nostri folli anni
e dei nostri folli coinquilini in quest'immensa casa blu chiamata
Terra. Di quelli che negano ottusamente l'evidenza, anche davanti
alle fosse riempite dal Covid-19; di quelli che minimizzano,
procrastinano, inquinano; di quelli, stolti, che quando il saggio
DiCaprio indica la luna (anzi, la cometa) guardano tuttalpiù il suo
dito teso. Un cast di nomi altisonanti, per fortuna tutti adoperati
al meglio, ci bacchetta prontamente in due ore tanto inquietanti
quanto deliziose. L'apocalisse è già qui, ma siamo troppo impegnati
a guardare altrove. Tranquilli: non è niente di serio, grazie a un
quarto di Xanax e a una sceneggiatura originale (si fa per dire: si limita a mettere in fila i nostri cliché, i nostri
orrori, il nostro peggio) già in odore di Oscar. (7)
Cosa
si prova a essere l'unica persona udente in una famiglia di sordi? Lo
ha raccontato Claudia Durastanti in un libro finalista al premio
Strega e, ancora prima, un film francese di qualche anno fa: La
famiglia Belier. Grande successo di pubblico e critica, si è
inevitabilmente prestato a un remake americano. A sorpresa, l'ennesimo
rifacimento non richiesto ha stravinto anche all'ultimo Sundance. E
allora meglio concedere un'opportunità a CODA (acronimo di
Child of Deaf Adults), diventato uno dei protagonisti della stagione dei premi. Ruby, diciassette anni, ha una doppia vita. Ogni
mattina sale come mozzo su un peschereccio per poi appisolarsi in
classe. Sbeffeggiata dai coetanei, in casa è comunque a disagio a
causa di quei familiari rumorosi, libertini, imbarazzanti. Sordi.
Destinata a seguire le loro orme nell'attività di famiglia, la giovane si
impensierisce quando scopre un talento inespresso: la musica. Ma come
potrebbe una carriera da cantante non apparire un affronto verso i
genitori? Di buoni sentimenti, perfetto in tempi di inclusività,
questo remake prende molti degli sketch comici del film originale, ma
con un convincente alternarsi dei punti di vista approfondisce il
disagio vissuto dai protagonisti. Nonostante gli occhi (lucidi) siano
puntati sul talento di Emilia Jones, attrice emergente di
straordinaria empatia, c'è spazio anche per gli altri membri della
famiglia. Per le loro paure, per il legittimo egoismo, per il
loro drammatico isolamento. Apparentemente esclusi dalla ricerca
dell'indipendenza della secondogenita, provano tuttavia il doloroso
bisogno di capirla. Questa volta non si chiamano Belier, ma Rossi.
Non parlano francese (be', si fa per dire), ma inglese. E lì dove
non arrivano le parole intervengono magicamente l'università
dei gesti, delle canzoni e un'emozione chiamata cinema. (7,5)
Coda (ma anche La famiglia Belier, se per questo) ancora mi manca e spero possa farmi battere il cuore come non sta riuscendo nessun candidato quest'anno, nemmeno quel Del Toro che pure ho apprezzato tantissimo per molti motivi e che spero di riguardare presto.
RispondiEliminaCon The Lost Daughter sono partita avvantaggiata, non avendo letto il libro mi sono potuta comunque godere l'ipnotica sincronia tra un montaggio e delle protagoniste praticamente perfette, ma ne parlerò sul blog a ridosso dell'uscita italiana (chissà quando, visto che è stata ulteriormente posticipata a un generico "Aprile").
Dovrebbe uscire il 24, 25 marzo!
EliminaCoda, coda, coda! Quello che aspetto da tempo, ma uscirà in sala? 😏
RispondiEliminaBuon pomeriggio, Lory, e perdona per il ritardo. Sono molto assente e l'assenza continuerà per un bel po': impegni scolastici e concorso ordinario da svolgere a metà marzo.
EliminaIn quanto a Coda: uscito direttamente in home video, con Eagle Picture!
Oh wow bene! Facccci sapere!!!
EliminaGrazie mille per la dritta 👋
A questo giro la penso praticamente all'opposto su tutto. XD
RispondiEliminaThe Lost Daughter stupendo. Maggie Gyllenhaal gira già mille volte meglio della soporifera Jane Campion.
Nightmare Alley nella prima parte è decente, mentre nella seconda si trasforma in un thrillerino di livello infimo. Un film fuori dal tempo, ma soprattutto fuori tempo massimo, con un Bradley Cooper per me davvero inespressivo e inutile.
Meno male che c'è l'ironia di Don't Look Up. Non avrà una sceneggiatura troppo originale, ma allora cosa dire di quella già stravista di Nightmare Alley? ;)
CODA bello, peccato per quel senso di déjà vu nei confronti de La famiglia Belier, che per me resta un gradino sopra.
Nightmare Alley è tratto da un classico noir degli anni Cinquanta, e si vede. Don't Look up, invece, vorrebbe raccontare la contemporaneità, ma sembra un collage di meme senza troppa fantasia. Però diverte. ;)
EliminaHo visto solo Don't look up, e anche se a mio modesto parere non sarà da Oscar, ma si lascia apprezzare: volutamente eccessivo in tutto, strappa amari sorrisi e in qualche modo stimola riflessioni su questa nostra folle umanità.
RispondiEliminaConcordo. Poi la Streep esilarante!
EliminaChe meraviglia La fiera delle illusioni ❤
RispondiElimina