Quando
torno nella mia città, passo spesso davanti alla casa in cui siamo stati uniti.
Immagino i mobili, il colore delle pareti, la famiglia che ci vive adesso. I
nostri fantasmi si aggirano ancora lì, in un varco spazio-temporale.
Here è perfetto per i malinconici come me, che, a colpo
d'occhio, riescono a vedere passato, presente, futuro. Il tempo non
esiste. Come un colibrì, vola veloce ma per rimanere sempre
immobile. A trent'anni dal trionfo di Forrest Gump, Zemeckis riunisce il
cast del suo capolavoro per raccontare la storia di una famiglia
immortalata in un salotto – e, purtroppo, fa flop. La macchina da
presa, come nelle sitcom, non si schioda da lì. A dare dinamismo c'è
un montaggio alternato che, pur con qualche innegabile inceppo, segue sei
linee temporali mostrando le grandi glaciazioni, la scoperta
dell'America, le guerre, il Black Lives Matter, la pandemia. Come
cambiano la società, l'educazione dei figli, i rapporti? Hanks
e Wright fanno da perno a un magico meccanismo di cui lo spettatore
stesso, infine, si scopre parte. Insieme ai protagonisti ho pianto i
miei morti, le mie separazioni, i miei addii. Vero, struggente,
dolcissimo, Here mi ha riconciliato coi nostri fantasmi e
fatto desiderare un territorio neutrale, un porto franco, dove
riguardarlo un giorno con i miei affetti sparsi. Cerco casa nelle vetrine delle
agenzie immobiliari. Da qualche parte c'è. E ci siamo, ancora, noi.
(8)
Dopo
l'ultimo passo falso arrivato su Netflix, Ferzan Ozpetek torna in sala. Il successo di pubblico è assicurato, anche se la giuria dei David di Donatello –
dove il film ha misteriosamente ricevuto soltanto poche candidature –
non deve avere apprezzato quanto gli spettatori paganti. Questa volta, il regista italo-turco ha un
cast di diciotto primedonne e una storia metacinematografica per omaggiare il
mondo invisibile dei costumisti. Piccole e operose come formiche, le
protagoniste lavorano a testa bassa per le sorelle Canova seguendo le direttive di una
premiata scenografa. I personaggi sono tanti. I temi troppi (violenza sulle donne, depressione, elaborazione del lutto, empowerment femminile). Se le
grandi Ranieri, Trinca e Scalera reggono la scena alla maniera delle
vere dive, le altre devono sgomitare un po' – ma Cucciari e Venier,
padrone come in TV, qui e lì sorprendono. Ozpetek cita Sirk, Ozon e purtroppo, immancabilmente, anche sé stesso. Come sempre, eccede in sottotrame amorose da fotoromanzo e
straborda, ma fa tutto parte del suo famoso fascino: prendere o lasciare.
Quest'anno prendo, sì, anche se a Diamanti avrebbe giovato la
dimensione della miniserie in streaming. Melodrammatico e difettoso, appassionato e
nazional-popolare, resta comunque il film più riuscito dai tempi
di Mine Vaganti. (7)
La
verità coincide sempre con la giustizia? A novantaquattro anni,
l'inossidabile Clint Eastwood scrive e dirige un legal drama dai
ritmi implacabili per portare alla luce, ancora una volta, le crepe
del sistema giudiziario statunitense. Un giovane giurato, presto papà, è chiamato a esprimersi sul destino di un uomo accusato di omicidio. Peccato che conosca il colpevole: in realtà, è lui stesso. Ma ci sono giurie scisse, avvocati
distratti, giudici troppo desiderosi di tirare in fretta le redini. E nella
foga di giungere a un verdetto, di bollare un chiacchierato colpevole
come tale, ecco l'aprirsi di una falla. La nostra giustizia, al
confronto, è poi così infallibile? Classico, ambiguo, solidissimo,
il sottovalutato Giurato
numero 2 parte
da un femminicidio per poi costruire un caso di coscienza lacerante
che, a carte scoperte, si muove nei territori di Fedora Dostoevskij e, per
tutto il tempo, ti fa domandare: “Al posto del protagonista”, un
tormentato Nicholas Hoult schiacciato tra l'incudine e il martello, “cosa farei?” Se fosse l'ultimo Eastwood come da qualche parte ormai si
mormora, sarebbe un congedo da maestro: è il suo miglior film dai
fasti lontani di
Gran Torino.
(7,5)
Cosa
succede a un'icona sexy quando le luci dei riflettori si spengono e tocca
riporre i lustrini di scena? Pamela Anderson, come Demi Moore prima di lei, si mette metaforicamente a nudo
con un ruolo autobiografico e scritto su misura. Ingenua,
vulnerabile, sciantosa, è la ballerina di uno spettacolo di burlesque destinato a
chiudere presto i battenti. Sempre pronta a difendere a spada tratta
quel suo microcosmo a un passo dall'oblio, soprattutto nelle
discussioni con una figlia giustamente rancorosa, ci guida in una
commedia dolce-amara firmata dalla promettente nipote d'arte Gia Coppola:
autentica, onesta, malinconica quanto la protagonista. La scrittura
certamente non brilla, ma sa affidarsi agli occhi lucidi e ai sorrisi
di scena di un'interprete che quest'anno avrebbe nominato una
candidatura all'Oscar più di altre colleghe. In scena: un altro
“viale del tramonto”. Anche se si ha l'impressione che a
cinquantasette anni, finalmente senza make-up e senza cliché, per
Pamela questo sia soltanto un nuovo inizio. (7)
Non
è un thriller erotico. Non è una commedia sexy. Il terzo
lungometraggio di Halina Reijn è tutto e la sconfessione di tutto.
Annunciato come il film scandalo dello scorso Festival di Venezia,
dove ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione
femminile, non ha niente di provocante. È un bel film? Confuso, non
saprei proprio dirlo. Le scene di intimità non mostrano mai i corpi nudi dei
protagonisti e i giochi di ruolo tra Nicole Kidman e Harris Dickinson
sono inscenati in squallide camere d'albergo piene di risatine
imbarazzate - volutamente? Ma, a quasi sessant'anni, Nicole si mette ancora in gioco con un ruolo che la vuole autoironica, svestita e con
sprezzo del ridicolo: gli Oscar, però, l'hanno snobbata. Fuori posto in una
famiglia perfetta, non all'altezza di un ufficio in cui le è
richiesto di essere l'incarnazione di una femminilità combattiva e
vincente, sorprende per la sua profonda onestà in una seduta
psicoanalitica a proposito della naturale scompostezza dei corpi e
dei desideri. Tutti sono goffi. Gli orgasmi non sono pigolii
ammiccanti, ma ruggiti spaventosi. E la perdizione morale è l'ultima
frontiera per ritrovarsi, in un pamphlet interessante e pasticciato -
volutamente? - che ci rivela l'umanità dietro il proibito. (6)
Here ha qualcosa di "incompleto" e frettoloso che non me lo ha fatto amare come avrei voluto. Ma sul finale ho pianto tutte le mie lacrime.
RispondiEliminaQuanto a Juror Number 2 e The Last Showgirl sono due pezzi di grande cinema, ognuno a modo suo.
Personalmente, nella seconda parte, ho pianto così tanto da seppellire (anzi, annegare) i difetti vari. 🥲
EliminaD'accordo... diciamo per 4/5. Però "Babygirl" è invedibile, via
RispondiEliminaFilm così snobbati, che pure io li ho snobbati e devo ancora recuperarne diversi... XD
RispondiEliminaIl Viale del tramonto con Pamela Anderson comunque non mi è spiaciuto, anche se purtroppo non riesce a essere un cult assoluto
Si, in effetti ho visto solo Giurato numero 2 che mi è piaciuto abbastanza.
RispondiEliminaDegli altri un po' incuriosita ma ho dato preferenza ad altri film.
Ciao Michele, spero che stai bene.