venerdì 30 novembre 2018

Mr. Ciak: The Wife, Widows, The Children Act, The Guilty, Ritorno al bosco dei 100 acri

A Stoccolma, in una camera di lusso, si consumano i retroscena del Nobel. La premiazione e le domande della stampa hanno risvegliato rancori nel mezzo dei festeggiamenti. I contendenti sono due coniugi già in là con gli anni: lui, con il pallino dei grassi saturi e delle belle donne, scrittore vanaglorioso che sin da ragazzo si sognava Philip Roth; lei, prima allieva prediletta e in seguito moglie trofeo, donna che in segreto ha sempre mosso i fili del suo successo. Non serviva il sopraggiungere di flashback quanto mai superflui per illuminarci sulle bugie e i ruoli di potere della coppia: un matrimonio nato da un tradimento, che di tradimenti a lungo ha vissuto, in cui un'ereditiera desiderosa di indispettire la ricca famiglia aveva regalato l'anima e il corpo – soprattutto, il proprio talento – a uno scrittore ora da pulire, ora da imboccare, ora da perdonare. L'uno ha le idee, l'altra lo stile. Tutti i meriti, anche agli occhi del figlio (d'arte) Max Irons, spettano però all'istrione Jonathan Pryce. L'occhialuto biografo Christian Slater, al contrario, fiuta qualcosa nei gesti di una Glenn Close in odore di nomination: i sorrisi tirati, gli occhi bassi, il tormento delle mani e un animo che ribolle per quel desiderio di rivalsa svegliatosi all'improvviso. Si può voltare pagina a settant'anni? Si può trovare nella totale disfatta la voglia di fare l'amore o di saltare sul letto per celebrare un immeritato trionfo? Storia di rinascita affatto sorprendente in questi tempi di ritorno al femminismo, la lenta rimonta di The Wife ricorda troppo Big Eyes: palcoscenico austero ed elegante su cui non va in scena niente che meriti il bis. Classico dramma di attori in cui la scontata bravura della protagonista si rivela un'arma a doppio taglio. È infatti la stessa donna del titolo, a suon di dialoghi teatrali e di segnanti primi pianti, a mettere in ombra l'intero film. (6)

Se sei un criminale in una Chicago che non perdona, nemmeno un'onorata carriera nel malaffare può salvarti. La vita di quattro ladri si conclude in una retata che non lascia scampo. Ognuno aveva debiti, un'idea per cambiare vita, una moglie. Questa è la storia di tre delle quattro vedove: donne agli antipodi – un'ereditiera affranta con ridicolo cagnetto bianco al seguito, una giovane maltrattata che si reinventa escort, una mamma latinoamericana con un negozio pignorato – che, sotto l'egida di una Viola Davis tanto bad-ass quanto svogliata, collaborano per riscattarsi. Mentre in città si fanno lo sgambetto gli aspiranti sindaci – Farrell appoggiato dall'arcigno Duvall, l'altro dal tirapiedi Kaluuya –, le protagoniste lavorano a far della propria inadeguatezza un'arma a doppio taglio. E secondo lo stesso principio, in un cast di premi Oscar, a sorprendere sono le attrici all'apparenza fuori posto: Michelle Rodriguez, per la prima volta in un film d'autore, e un'irresistibile Elizabeth Debicki. Peccato che i pregi, le cose da scrivere, finiscano presto con un film che resterà la peggiore delusione dell'anno. Widows su carta non ispirava, infatti, ma recensioni positive e grandi nomi lasciavano intuire il colpo di teatro: Steve McQueen, reduce dai fasti del potente e arraffone 12 anni schiavo, non poteva riadattare una soap degli anni Ottanta senza metterci del genio; non poteva cedere all'heist movie come un qualsiasi Soderbergh e giocare ancora l'irritante carta del politicamente corretto con un cast all women (o quasi), all black (o quasi), con tanto di stucchevole cenno al braccio violento (e razzista) della legge. Non ne faccio mistero, di Widows mi hanno infastidito le scenografie da rivista patinata, la scrittura televisiva della Flynn, colpi di scena che insultano l'intelligenza di chi si aspettava un'americanata sì, ma di classe. Freddo e poco coinvolgente, in equilibrio precario fra il noir e il melodramma, il regista del chiacchierato Shame finisce questa volta per lasciare a bocca asciutta per il desiderio di accontentare tutti in una seriosa varazione sul tema del dimenticato Ocean's 8. Torna e fa cilecca. Con la morte nel cuore per questo colpo clamorosamente fallito, noi fan ci vestiamo già a lutto. (5,5)

I sorrisi ai neonati sul treno ci dicono che non ha avuto figli. Parte lesa in un matrimonio senza sesso, continuamente sul piede di guerra, il giudice Emma Thompson ha un'aria rispettabile, un guardaroba severo, ma piccoli dettagli ne rivelano l'altruismo e l'istinto materno. Esperta in autentici casi di coscienza, chiama a deporre la famiglia di un adolescente morente: in quanto testimone di Geova, il ragazzo rifiuta la trasfusione. Avvincente e umano, The Children Act è nella prima parte un dramma giudiziario convenzionale ma solidissimo. La seconda, più incerta ma senz'altro toccante, segue invece il dipanarsi di un candido colpo di fulmine, di una subitanea affinità elettiva, il cui significato si evince più in pratica che in teoria. La protagonista, infatti, va al capezzale di Fionn Whitehead: per lui, intelligente e sfacciato, canta e recita Yates. Il giovane – senza più famiglia, senza più Dio – si affida anima e corpo alla donna, che ligia al dovere non vuole tuttavia portarsi il lavoro a casa. È già troppo tardi: in seguito a un imprinting misterioso e immediato, lei gli è entrata sin nel sangue. Se l'ultima mezz'ora non basta ad approfondire debitamente il rapporto tra il malato ribelle e il giudice – “My Lady”, come la chiama Whitehead venerandola per tutto il tempo –, ambiguità e svolte annunciate sono appianate dal monologo finale di un'attrice forse al suo meglio che, piangendo in abito da sera, si confessa all'infedele Tucci. Ci sono ballate che vanno cantate: al diavolo le scalette predefinite. Ci sono storie che vanno raccontate anche se, grandi interpreti a parte, sortiranno maggiore clamore nei romanzi di Ian McEwan. Ci sono casi straordinari – giudiziari e non solo – davanti ai quali perfino la legge solleva bandiera bianca. Abbandonandosi a un ritornello, lasciando andare chi aveva le smania di farsi libero martire. (7)

C'è qualcosa di marcio in Danimarca. C'è qualcosa di bello però in un cinema che quel marcio sa raccontarcelo con l'acume e la sensibilità che lusingherebbero anche il buon Shakespeare. Vedasi i nervi a fiori di pelle per Il sospetto di Thomas Vinterberg o, ancora, le lacrime per la scabrosa Susan Bier di Second Chance. Alla completezza dei gialli europei mancava un tassello. L'ho scoperto per caso – non sapendo del successo al Festival di Torino né che avrebbe rappresentato la Danimarca agli Oscar –, in un'appassionante chiamata lunga un film. Il telefono squilla. Siamo in una stazione di polizia e, in seguito a una bruciante retrocessione, al pronto intervento troviamo un bravissimo Jakob Cedergren. L'agente paga il fio per i propri metodi poco ortodossi, per la tendenza a far di tutto un caso personale. Alla cornetta lo aspettano gli sbadigli per qualche tentata rapina, incidenti stradali da poco, giornalisti incuriositi da uno scandalo che l'ha reso protagonista. Fino a quando non intercetta una chiamata diversa: quella di una donna – e della sua bambina in lacrime, intanto a casa con il fratellino neonato – rapita dall'ex marito. Lo spettatore è messo al corrente di ogni trillo, vibrazione o messaggio in segreteria. L'azione vera, un'ordinaria storia di violenza domestica, si consuma però fuori dalle scene. Come in Locke, la sceneggiatura si crea da sé, alla cornetta, e sempre alla cornetta prende vita un piccolo giallo dalla grande emotività. Grazie alla regia attenta e a un interprete dagli occhi empatici, The Guilty è un esperimento che funziona alla perfezione: tutti sono colpevoli di qualcosa, tutti vogliono confessare per alleggerirsi l'anima e tutti, a fine visione, vorranno comporre un numero dal nuovo (questa volta della persona giusta). La solidarietà, così, scatta tanto verso le vittime quanto verso un assassino feroce. Non lasciatevi scoraggiare dall'interlocutore sconosciuto; dal pesante accento straniero. Prendete all'istante questa chiamata. E in certe notti vi sentirete più al sicuro, meno soli. (7,5)

C'era una volta un bambino che sperava di non diventare grande. Gli facevano compagnia gli amici animali – un orso, una tigre, un asino e un canguro –, con cui dividere fantastiche avventure in una radura ai confini della realtà. Il bambino mentiva, alla fine è cresciuto: diventando un uomo segnato dalle esplosioni della Seconda guerra mondiale, un marito assente, un padre poco amorevole. I suoi compagni d'infanzia, inevitabilmente, sono stati dimenticati in nome delle responsabilità. C'era una volta la Disney, storica fabbrica dei sogni, che voleva parlare a grandi e piccini. Continua a farlo tutt'oggi, sì, non inventandosi più niente dal nuovo: i cartoni che prendono vita abbondano, sequel e reboot spettano anche alle vecchie fiabe. Anche il bambino di Winnie the Pooh, dunque, cresce per ragioni di copione. Ha il volto del sempre in parte Ewan McGregor e veste gli abiti di un noiosissimo impiegato che ha rinnegato il passato. L'orso ghiotto di miele si smarrisce a Londra e si mette sulle tracce di lui, a cui spetta il compito di riportarlo dove tutto ha avuto inizio. Favola bucolica nello spirito delle Cronache di Narnia, Ritorno al bosco dei 100 acri racconta pochissimo che non sapessimo già. Chi come me si si aspettava i segreti struggenti di Neverland e Saving Mr. Banks, autentici backstage sulle difficoltà del processo creativo e sull'urgenza della scrittura, probabilmente avrebbe dovuto prima dare un'occhiata al biopic su Alan Milne. Ode spensierata alla leggerezza, agli affetti, al ritorno ai buoni sentimenti, la commedia per famiglie del capace Marc Forster è piuttosto una classica riflessione generazionale che colpisce più gli occhi che il cuore e che qui e lì attinge alla comicità slapstick del meglio riuscito Paddington. Malinconico andirivieni fatto di ritorni alla base e morali risapute, senza buone idee all'interno ma con quel pizzico di magia che sotto Natale non guasta. (6,5)

martedì 27 novembre 2018

I ♥ Telefilm: Homecoming | Crisis in Six Scenes

Le geometrie di Kubrick, gli split screen di De Palma, l'aspect ratio di Dolan, il Soderbergh che filmava la claustrofobia con l'iPhone. Sam Esmail, quarant'anni e una carriera tutta in discesa dopo il successo di Mr. Robot, è andato a scuola dai migliori. Primo della classe, nonostante le scarse attrattive di una storia lisergica di hacker e complotti che al suo esordio non mi aveva conquistato, torna a ipnotizzare dall'alto di una regia bellissima. La sua macchina da presa sfida la paura delle vertigini: un tutt'uno perfetto con l'eleganza del vetro e dell'acciaio, il verticalismo hitchcockiano delle scale a chiocciola, una colonna sonora che spazia dalle arie di Handel ai rimbombi stridenti dei noir vecchio stile. E nobilita, così, un thriller psicologico che più classico non si può: rigoroso ma non senza ironia, algido ma non senza sentimento; rétro eppure modernissimo. Un addetto all'ufficio reclami, ossessionato dalla verità, s'improvvisa investigatore: cosa nasconde una compagnia che cura i veterani dal disturbo post-traumatico? Diciotto pazienti, sei settimane per reintegrarsi; lavori di gruppo, giochi di ruolo, scherzi e confidenze, in una mensa dove il martedì servono gnocchi a pranzo. Qualcuno vorrebbe andare oltre, qualcun altro addita intrighi dappertutto. Potrebbe saperne di più l'ex consulente Julia Roberts, che matura – anagraficamente e artisticamente – senza tradirsi mai, donando il suo sorriso e tanta femminilità a un personaggio che all'inizio appare intransigente e distaccato. Non più psicologa, ma cameriera in una sudicia bettola, ha un nuova routine, un nuovo domicilio – vive con una mamma d'eccezione, Sissy Spacek – e misteriosi buchi nella memoria. Cosa l'ha spinta a quell'inspiegabile retrocessione professionale? Il presente asfittico è in 1:1, mentre il passato in 16:9. E nel passato si annidano le chiamate di uno spietato Bobby Cannavale, Mefistofele che scoraggia (e ispira) riflessioni etiche ed esami di coscienza; la complicità con Stephan James, che forse esula dalla relazione medico-paziente e insospettisce qualcuno ai piani alti. Semplice ma reazionario nel suo piccolo, Homecoming ha episodi che si aggirano intorno ai trenta minuti di durata – di solito, priorità delle comedy – e una chiusa poetica in stile Comet. Se l'ottava puntata è una doppia corsa a cui riescono a stare meravigliosamente dietro un montaggio e una scrittura senza segni d'affanno, nona e decima si prendono tutta la calma del mondo in vista dell'epilogo pacato e un po' magico dei film indie. Ecco le chiacchiere in una tavola calda, il sorriso commosso davanti a una posata fuori posto, i dubbi dopo i titoli di coda con la promettente Hong Chau. Homecoming si accalora, si colora, si amplia e, in campo neutrale, si apre finalmente all'emozione. Come una gita in macchina dalla Florida alla California, da The Manchurian Candidate a Eternal Sunshine of the Spotless Mind, che apre gli occhi sui pro e i contro di una società alla Black Mirror mentre invoglia a sognare un po'. (8)

Prendete una coppia in là con gli anni, ebrea e conservatrice: lui, pubblicitario e scrittore, riposta l'ambizione di diventare il nuovo Salinger, confessa al barbiere l'idea di sceneggiare una serie televisiva; lei, un po' Diane Keaton e un po' Allison Janney, è invece una consulente matrimoniale che si barcamena fra coniugi in crisi e borghesi annoiati. Fuori impazzano gli anni Settanta: le manifestazioni giovanili, il rock, la ferita del Vietnam. Possono forse sentirsi protetti dal divenire storico se nemmeno la loro casetta è a prova di invasore? Qualcuno irrompe nella loro routine senza annunciarsi né chiedere il permesso. È una Miley Cyrus che a sorpresa regge benissimo i dialoghi fiume e i tempi comici di un cinema al solito verbosissimo, con un ruolo cucitole su misura: bionda, hippy e spregiudicata, fugge dalle accuse di terrorismo – immaginatela come l'irrequieta Dakota Fanning di Pastorale Americana – e semina tempesta. Pane per i denti di un ottantenne ipocondriaco e misantropo, che sa ridere di morte e politica a patto che nessuno mangi a tradimento il pollo della sera prima o le adorate arance Navel. Il risultato della convivenza forzata? Un'esilarante andirivieni che mette a soqquadro un attempato club del libro (le adorabili partecipanti leggeranno gli aforismi di Mao, i segreti della guerriglia, le istruzioni per fabbricare bombe con gli stessi principi del bricolage), le ideologie di un cocco di mamma che d'un tratto scopre di preferire le cattive ragazze (con buona pace di Rachel Brosnaham, futura Mrs. Maisel), le giornate di due anziani professionisti convertiti presto all'agilità dello spionaggio. Scrive e sceneggia Woody Allen, e si sente, e si ride, e fa la differenza. Crisis in Six Scenes, produzione Amazon vista con estremo ritardo per via del gran parlarne male, mi è parsa una commedia di quelle che mancavano da un po'. Da Blue Jasmine in poi, infatti, il regista si era dato a copioni più malinconici e a stelle più sfavillanti. Si era nascosto dall'altra parte della macchina da presa, quando in realtà nei suoi occhiali a fondo di bottiglia e nei suoi modi goffi mi sono sempre rivisto con estrema simpatia. In un formato per lui inedito, in una casa sempre più rumorosa e affollata, riesce a far faville pur non osando mai con una storia di conflitti e dissapori generazionali in cui subito mi sono sentito nel mio elemento. Le orecchie attente ai botta e risposta pensati con la classica intelligenza newyorkese, gli occhi che saettavano dal poster del Che in camera da letto a un assembramento di impareggiabili mattatori, il cuore leggero e pesante insieme. Questo Natale sarà infatti più spento del solito, complici gli antichi scandali rispolverati, senza le chiacchiere di Allen in sala. Che sia l'occasione buona per scoprirlo, rivederlo o, come in questo caso, recuperarlo. (6,5)

sabato 24 novembre 2018

Recensione: Ora che il tempo non vola più, di Lorenzo Arrais

| Ora che il tempo non vola più, di Lorenzo Arrais. Bookabook, € 11, pp. 124 |

Quando mi sono avvicinato per la prima volta al catalogo Bookabook, l'editore milanese che per i prossimi ottantotto giorni darà alla mia storia dal destino ancora in forse una bella vetrina online (a proposito: tutti i romanzi sono a metà prezzo fino a domani), mi è venuto naturale avvicinarmi a un autore della mia età: tanta, infatti, la scelta; troppi i generi. Nel palmo della mia mano, allora, ecco la sola bussola della solidarietà anagrafica. Ho letto l'esordio di Lorenzo Arrais, classe 1994, nel dubbio impellente; a scatola chiusa. Un volume sottile ed elegante, poche pagine e, in parte come nel caso del mio Malanotte, una narrazione epistolare: sempre lettere aperte, ma non a una catastrofe bensì a Mandorla. La ragazza – non di pura finzione, ho immaginato – colpevole di avere donato al narratore i migliori sorrisi e di averli richiesti poi indietro con interessi da usuraio. 
Non importa chi. Non importa quando. Non importa perché. Conta soltanto il come. Lui e lei, studenti di Medicina passati in un lampo dai ripassi insieme alla convivenza da innamorati, si sono lasciati. L'uno porta un nome puntato, l'altra quello di un seme. Sono gli anni dell'università, delle ultime ribellioni, dei primi sogni spariti con il sopraggiungere dell'alba. Forse c'entra un tradimento commesso da una giovane caustica e irrequieta, forse è colpa di un eterno romantico più bravo in teoria che in pratica. Dettagli inesistenti perché, in fondo, ininfluenti.

Da quando sei volata via il mio tempo non vola più, non riesco più a sentire il tic-tac dell'orologio, quel rumore che odiavi così tanto e che il destino beffardo ha voluto zittire nello stesso istante in cui i tuoi passi hanno smesso di fare eco dentro casa, ma non dentro di me.

Ci si preferisce concentrare sulla sofferenza del dopo, sui postumi di una sbornia d'amore. Brutto andare in giro senza meta, di notte; peggio ancora stare a casa in solitudine aspettando che qualcuno ci raggiunga nel letto dalla porta del bagno semiaperta. Si ripensa al primo incontro, si tenta di ricordare l'ultimo bacio. Soprattutto, si scrive – su un muro con il pennarello nero, sulle superfici umide con il polpastrello dell'indice, sull'agenda Moleskine che spunta puntualmente dal camice stirato di fretta. Quello che non saranno più, le parole che avrebbero voluto ma alla fine non si son detti, i segreti per imparare a farne a meno, il pensiero di temprare la volontà smettendo di fumare, le bugie rivolte a una lontananza da ingannare con messaggi mai inoltrati. Fragile, empatico e naturalmente inadeguato davanti alla felicità, L. non butta gli oggetti rotti, piange con Bambi alla tivù, aiuta sconosciuti con le buste pesanti della spesa. Pensa al futuro, suo chiodo fisso, a costo di non godersi il presente. Dice di sognarsi scrittore per vivere per sempre e specialmente per parlare con lei, Mandorla: che l'ha sbriciolato come fosse un croissant e ormai vive in lui, di parole e basta. E non si perdona, no, nell'incapacità di nutrire rancore verso di lei – che forse dalla sua torre d'avorio non soffre né lo pensa, almeno non quanto lui.

Ogni mattina ci promettevamo che la volta dopo saremmo rimasti a letto, al caldo del nostro piumone a fare l'amore tutto il giorno. Adesso invece mi basterebbe che tu tornassi a prepararmi la colazione, ché ho finito anche la marmellata. Torna e usa la marmellata che vuoi, anche quella di agrumi, non mi importa. Però torna.

Riflessivo e romantico, con un linguaggio un po' social che fa pensare a Chiara Gamberale, Arrais propone uno struggimento per voce sola che non si fa mai dialogo eppure riesce magicamente a interloquire con i lettori. Perfino con il sottoscritto, che di rado si lascia intrattenere da questi flussi di coscienza; che da bravo razionale pretende il più delle volte una vicenda che abbia inizio, svolgimento, fine. Facilitano la lettura i capitoli agili, passi da leggere a voce alta per meglio farli propri, una schiettezza che anche in mancanza della nota biografica mi avrebbe fatto riconoscere Lorenzo come figlio della mia stessa generazione. Ora che il tempo non vola più ha due protagonisti appena: i nomi fittizi, un background semisconosciuto, un prosieguo sentimentale incerto. Non è un romanzo epistolare, non è una storia d'amore: non in senso stretto almeno. Ma resterà forse la lettura più giusta nell'attesa che il tempo di noi, eterni romantici, riprenda a scorrere. Rendendo finalmente l'innamorarsi legale, in questa eterna ora solare.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Thegiornalisti – Senza

mercoledì 21 novembre 2018

Recensione: La terra dei figli, di Gipi

| La terra dei figli, Gipi. Coconino Press. Fandango Editore, € 10, pp. 288 |

La fine del mondo ha confini precisi. È cosa da metropoli americana, da deserto del Nevada. In Italia nemmeno l'apocalisse si prende la briga di fare tappa: il Vaticano, corsia preferenziale dell'Altissimo, ci guarda le spalle; le ristrettezze economiche e politicanti senza voglia di guerreggiare ci proteggono dalle armi batteriologiche, dalle alleanze sbagliate, da meteore inghiottite in un sol boccone dalle buche del manto stradale. Ma in un futuro post-apocalittico già alle porte, a giudicare dai connotati familiari della tragedia, è successo: noi, abitanti frustrati e rancorosi della contraddittoria Terra dei Cachi, ci siamo estinti in massa. O quasi.
La penisola è diventata una palude stagnante di acque fetide e velenose. In nome della miseria ci si contende la pelliccia di un cane ucciso a bastonate, pannocchie e carote come fossero beni di lusso. Il cannibalismo è un tabù ormai sfatato, le rare donne fan gola agli adepti di un Dio crudele, leggi inequivocabili regolano nel dettaglio la routine delle comunità superstiti. I protagonisti sono i membri di una famiglia di soli uomini: un padre severissimo, che ha educato la propria prole all'atarassia, e i suoi due figli. Fratelli opposti quanto il giorno e la notte – il primogenito un po' matto, l'altro una roccia che osa urlare la propria commozione soltanto sott'acqua –, con una mamma morta di parto e un prima difficile da immaginare. Le case avevano il riscaldamento centralizzato, il frigorifero pieno, animali domestici accoccolati sui tappeti: possibile, si domandano increduli?

C'era una volta un padre che voleva proteggere i figli. Renderli forti in ogni modo possibile. Anche facendosi odiare.

Un po' Hansel e Gretel, un po' eroi di un racconto pulp di Niccolò Ammaniti, gli invincibili protagonisti devono cavarsela da soli quando viene meno la loro guida: quel genitore dal cuore segretamente fragile, che si confessava spesso in un diario e condivideva qualche notte d'amore con una donna ai margini ribattezzata la Strega. In che modo scoprire i misteri di quel taccuino chiazzato di lacrime – illeggibile per via dell'analfabetismo e dell'usura – se imparare a leggere non è mai stato necessario? Cosa farsene di una terra derelitta che, sin dal titolo, spetta a bambini affamati di verità? Per venirne a capo non basta inforcare un paio di occhiali rubati, persuadere il prossimo con le cattive, torchiare un innocente fino ad annegarlo. È questo infatti il motore di un viaggio che li porterà prima nella fattoria di un'amorevole coppia di gemelli deformi, poi nelle grinfie di una setta religiosa alla The Wicker Man: l'ossessione divorante verso quel lascito da decifrare, che per tutto il tempo simboleggia l'interiorità di un padre chiuso a riccio e la cultura da salvaguardare. Fatto di picchi di umorismo beffardo, fughe rocambolesche e comprimari impeccabili, La terra dei figli ha una lingua che nello stile sovversivo di Patrick Ness mescola il dialetto toscano all'inglese informatico; un immaginario super pop – gli antagonisti, pensate, indossano T-Shirt degli Eagles o dei Nirvana –; un milione di modi in cui uccidere o farsi uccidere, sperimentare il brivido della vendetta o la quiete della pietà.

«Tu da quanto tempo non ti fidi di qualcuno?»
«Da un po', per questo sono ancora viva.»

I silenzi contemplativi abbondano, al pari delle brutture sanguinarie e della spossatezza fisica. E all'orizzonte si delinea uno scenario acquitrinoso che non ha bisogno di effetti speciali, fuoco e fiamme, per inquietare nel profondo: la luna, nel cielo notturno, sembra la bocca di un pozzo. Si lavora allora sui dettagli psicologici, sulle linee frastagliate dei volti e delle ossa: si lavora a togliere. Si imparano ad apprezzare pagina per pagina il clamore dei bianchi, il graffio rabbioso dei neri, le perle racchiuse in baloon compilati a mano libera. Si parla, sì, di graphic novel: eccezione alla regola resa possibile dai prezzi vantaggiosi della Biblioteca della Repubblica e dalla fama straordinaria di un artista arrivato perfino al premio Strega. Come recensire Gipi, in questo periodo anche in sala con il suo secondo lungometraggio, io che eppure non ho mai scritto di fumetti prima d'ora? Impressionato dalla potenza espressiva della lettura, dalle suggestioni di un autore con la lettera maiuscola, non mi sono posto affatto il problema. Ho scritto così come mi è venuto, a gomito, di una scoperta bellissima e di un futuro post-apocalittico già alle porte. Quello in cui la speranza è custodita nelle carezze e nelle domande apprensive delle donne; nell'incertezza del guado. Quello in cui poter ammettere con l'emozione in gola che la mia prima volta con la nona arte – e con Gipi no, non sarà l'ultima: in edicola ho preso a scatola chiusa già i volumi successivi – non la scorderò mai.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The National - About Today

lunedì 19 novembre 2018

I ♥ Telefilm: AHS Apocalypse | I Medici. Lorenzo il Magnifico

Quando si è in caduta libera non resta che un ultimo gesto disperato: tornare alle origini. American Horror Story, da otto anni a questa parte, ha sempre avuto dalla sua ambizioni e difetti esagerati. Dalle case infestate al circo, passando attraverso gli istitutiti di igiene mentale e la politica contemporanea, ha saputo rinnovarsi nel bene e nel male. Prendendo una china sfortunata da cui, tra spettatori che danno forfait e mancati successi nella stagione dei premi, anche gli autori non avranno visto ritorno. Quest'anno si ripiega perciò sulla furbizia, in mancanza di idee brillanti; e a sorpresa, pensate un po', ci si trova a rivalutare in positivo anche le caotiche Hotel, Roanoke e Cult. Si parla di un futuro prossimo in cui, all'indomani di un'apocalisse ordita da una coppia di hacker sopra le righe e l'Anticristo, i sopravvissuti vivono in un bunker arredato come una fortezza medievale: sono parte dell'èlite – un'ereditiera, una presentatrice tivù, una gloria del cinema horror – e per capriccio hanno portato laggiù amanti, parrucchieri e domestiche. Nei primi episodi assistiamo a una convivenza claustrofobica fatta di strepiti, regole ferree e tracolli psicologici. Dal terzo in poi, forse l'unico degno di nota, un ribaltamento a sorpresa trasforma Apocalypse in quello che era stato preventivamente annunciato: un crossover. Non vi dico come né perché – i nessi, fidatevi, sono futilissimi – ma scendono in campo le streghe di Coven, stagione da me tutt'altro che apprezzata, per salvare le sorti della serie e sconfiggere un Diavolo in terra agghindato a metà tra Lady Oscar e un cattivo di Twilight. Che fine aveva fatto la Congrega al femminile e come ha potuto ingannare la morte? Cos'è stato di Michael Langdon, il bambino infernale concepito alla fine di Murder House? Le streghe hanno trovato la passata formazione e cercano la nuova Suprema: appaiono sprecate, a tal proposito, le partecipazioni in sordina di Farmiga, Rabe e Bassett, se a lungo rubano la scena le battute salaci delle sempre straordinarie Sarah Paulson e Frances Conroy. L'incursione sui luoghi maledetti della stagione introduttiva è d'obbligo, ma l'effetto nostalgia fa sorridere senza compiere miracoli: un inchino al cameo di Jessica Lange, il rischio glicemia per il tardivo lieto fine degli amatissimi Tate e Violet, e subito si scappa a far guerra contro l'Anticristo – con una piccola tappa in quell'Hotel Cortez senza più tracce di Lady Gaga. Veli pietosi sui flashback nella Russia dei Romanoff, su una Bates in versione Terminator, sulle trasformazioni camaleontiche di un Peters che cambia pelle ma resta svestito di ruoli memorabili. Compitino presuntuoso e stucchevole, impunemente trash, l'ultimo American Horror Story sembra l'opera di un feticista dello show che si sognava sceneggiatore improvvisato: il risultato, godibile ma spesso involontariamente comico, è una fanfiction fine a se stessa che regala alla premiata ditta di Murphy la sua annata peggiore. Bisogna forse auspicarsi conflagrazioni da fine del mondo per far tabula rasa dello sfacelo in corso? (5)

Dopo l'approccio negativo con la prima stagione e qualche pregiudizio di troppo, lo scorso anno avevo evitato senza rimpianti il soggiorno nella corte più raffinata d'Italia. Non ho conosciuto il Cosimo di Richard Madden, così, né assistito alla progettazione della famosa cupola di Brunelleschi. Qualcuno mi consigliava di tornare sui miei passi, ma la pigrizia e la scarsa attrazione verso le produzioni in costume hanno sempre avuto la meglio sull'idea passeggera di recuperare la fortunata collaborazione tra Rai e Stati Uniti. Approfittando della natura antologica della serie kolossal, non so nemmeno io perché, ogni martedì sera per quattro settimane mi sono ritrovato ad assistere agli intrighi e ai sospiri di due generazioni successive di Medici. Cosimo e Contessina, ancora rimpianti, si sono trasformati in leggenda nel ricordo del popolo toscano. L'antico splendore, però, ha un prezzo salatissimo. Se le strutture desiderate dall'illustre avo sono ancora solide e inattaccabili, lo stesso non può dirsi del potere della famiglia. Fra la secolare rivalità con i Pazzi di Sean Bean – questa volta, statene certi, non passerà a miglior vita troppo presto –, le trattative con gli Sforza e i disperati tentativi di procurarsi i favori di papa Raoul Bova, gli sconvolgimenti sono nell'aria. Con l'arte e la poesia messe ai margini, abbondano le alleanze politiche e matrimoniali, e voltafaccia di cui si finisce per perdere il conto. Il risultato finale non annoia né coinvolge, grazie o a causa delle trame arzigogolate e di parentesi romantiche rubate a man bassa a uno sceneggiato per signore. C'è la volitiva Clarice, non la classica moglie oggetto, desiderosa di imporsi ai danni della fatale e pessima Alessandra Mastronardi. Ci sono i biondissimi Bradley James e Matilda Lutz – rispettivamente Giuliano e Simonetta, in posa per un capolavoro pittorico dell'amico Botticelli –, amanti appassionati nonostante il matrimonio oppressivo e la salute cagionevole di lei; la sorella minore Aurora Ruffino, invece, è innamorata del nemico giurato come in una riscrittura di Romeo e Giulietta. A prendere le redini di tutto con un colpo di stato è il giovane Lorenzo, amato dalle donne e odiato dai restanti altri: il britannico Daniel Sharman, che già rubava la scena in Teen Wolf per una bellezza e una mascella fuori dal comune, si conferma il migliore di un cast miscellaneo – poco convincente, in definitiva, l'interazione fra voti internazionali e nostrani, con gli ultimi penalizzati dal doppiaggio scadente – insieme a Matteo Martari, antagonista dal fascino sinistro. Impossibile farsi bastare l'opulenza di scenografie, costumi, trucco e parrucco. E no, non contano nemmeno la sigla di Skin o le scene di nudo audaci per la prima serata. Avrebbero giovato una sceneggiatura meno romanzata e più solida, i ritmi sostenuti proposti negli episodi conclusivi: I Medici, tocca riconoscerglielo, è una serie che per fortuna migliora strada facendo. Fino a un finale appassionato e violento – la congiura dei Pazzi non poteva che essere il logico congedo –, dove l'azione e il sangue delle vittime sacrificali trionfano sui languori da Harmony e i buchi di una sceneggiatura che distingue fra figli e figliastri. Nella programmatica scena di chiusura, culmine perfetto, arriva infatti la Primavera a rianimare in time lapse una tela squarciata. E assieme a lei, allora, fioriscono le speranze per un prosieguo da attendere perfino con un briciolo di curiosità aggiunta. (6,5)

venerdì 16 novembre 2018

Recensione: Boy Erased. Vite cancellate, di Garrard Conley

| Boy Erased. Vite cancellate, Garrard Conley. Black Coffee, € 15, pp. 336 |

Dall'omosessualità si può guarire. Lo cantava Povia a Sanremo, ne sono fermamente convinti i bigotti, impartiscono lezioni di virilità le scuole a tema. Come se amare qualcuno uguale a te fosse un tumore allo stradio terminale, un difetto alla vista, una slogatura: un accidente, un malanno più o meno reversibile. Esistono istituti specializzati in cui vieni perquisito nel dettaglio, schedato e dunque corretto: il cellulare deve avere una cronologia immacolata; le tentazioni della carne vanno scoraggiate inscenando i falsi funerali dei dissidenti; i sensi di colpa e l'intolleranza sono nutriti a suon di preghiere. Qualcuno abbassa la testa e impara ad apprezzare le donne, lo sport, Dio. Qualcun altro, invece, non ce la fa: non restano che il suicidio o, nella migliore delle ipotesi, la fuga. Non sto descrivendo una distopia alla Margaret Atwood né parlando di un passato dimenticato. Sono reduce piuttosto dalla lettura di Boy Erased. Il dramma psicologico di un figlio dei miei tempi, nonostante appaia davvero difficile crederlo, che a diciannove anni giocava a Halo, leggeva Harry Potter, scopriva la differenza fra l'amore e il sesso. Frequentava una coetanea, Chloe, e a tratti pensava perfino di amarla. Ma durante il primo anno di università sperimenta l'attrazione per David, bello e prepotente, a riprova di tendenze omoerotiche da sempre intuite: ci va a letto e l'esperienza con il ragazzo sbagliato lo segna in negativo. È allora che finisce per confondere il sesso gay con lo stupro. Glielo suggerisce il padre, pastore del profondo Sud dall'improvvisa vocazione. Glielo conferma il movimento ex-gay, presso il quale si hanno due settimane iniziali per ritrovare la retta via.

Guardai le fotografie incorniciate appese alle pareti del soggiorno, tutti i volti sorridenti dei nostri famigliari che mi guardavano dall'alto, la prozia Ellen quando era ancora giovane e ignara di tutto, e mi dissi: Qualsiasi cosa. Farò qualsiasi cosa pur di cancellare questa parte di me.

L'outing ha ripercussioni pesantissime. Il giovane Garrard, pur di onorare il padre e la madre, perde peso, amici e identità. Lui che sin da bambino sognava di fare lo scrittore, così, si racconta – e si ritrova – nella cronaca della sua silenziosa ribellione. Quante maschere ha indossato in nome del quieto vivere? Prima l'avatar dei giochi di ruolo online, poi la matricola di studente di Lettere, infine la sessualità cancellata con spugna e sapone presso l'organizzazione Love in Action. Cos'è di lui, che ha vissuto una doppia vita senza preoccuparsi intanto di costruirsene una propria, oggi? Ne viene fuori un resoconto freddo e distaccato, per quanto ben scritto, a opera di un ventenne confuso e perennemente in colpa. Un narratore poco amabile – spiace dirlo, ho fatto fatica a empatizzare con il suo esagerato spirito di abnegazione –, che tuttavia sa renderci partecipi di un clima di riconciliazione troppo improntato a celebrare le sfumature della diversità per puntare il dito contro i consulenti (non c'è, infatti, nessuno che lo obblighi) o i genitori (un predicatore che vorrebbe tenere invano tutto sotto controllo, una sosia di Dolly Parton confidente e gioviale). Colpa mia se mi aspettavo qualcosa di diverso. Volevo commuovermi e indignarmi, volevo il dramma viscerale: il romanzo più che il saggio a tesi. Con Boy Erased non c'è stata la proverbiale epifania: lettura impegnata, ma per me poco coinvolgente, che ho trovato frammentaria e confusa nell'alternarsi dei piani temporali. L'intolleranza altrui ha allontanato l'autore dalla fede e dall'amore. Dieci anni dopo, qui, prova a rimettere insieme i pezzi.

Alle superiori avevo sprecato molte energie per evitare di farmi piacere troppo i libri; temevo che delle storie coinvolgenti mi avrebbero trasformato in un eretico, mi avrebbero fatto imboccare uno dei sentieri empi in cui finivano regolarmente i personaggi che amavo. Solo durante il mio primo e unico anno di università, in un ambiente dove la lettura era incoraggiata, mi ero sentito davvero libero e per poco non avevo dimenticato che cosa si provasse a sospettare del potere di un libro.

L'emozione arriva in ritardo e solo allora: scoprendo che il danno psicologico non era irreversibile, che in fondo c'è speranza. Garrard Conley ha sì un corredo genetico che a volte gli dà da pensare – il promemoria di una prozia malata di mente, quando per molti le sue inclinazioni altro non erano che i segni di un bipolarismo in fieri –, ma anche un film di prossima uscita in cui lo impersonerà Lucas Hedges, parenti illuminati che gli hanno rivelato che l'importante è essere felici, un matrimonio solido alle spalle. Con un uomo. Basta il lieto fine allora per perdonargli le parole di troppo e quel cuore, al contrario, sfiorato a malapena; per fare mia una formula dei dipendenti anonimi. Grazie per la condivisione, ti vogliamo bene.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale Troye Sivan & Jònsi – Revelation

mercoledì 14 novembre 2018

Recensione: I due esorcisti, di Ray Russell

| I due esorcisti, di Ray Russell. TEA, € 14, pp. 206 |

I venti funesti di Halloween sono passati così come sono arrivati. Nelle vetrine del cinese all'angolo brillano già le luminarie natalizie. Tra una cosa e l'altra, questa volta, sono rimasto un po' indietro: la zucca da buttare con un groppo in gola nell'umido organico – è stata la prima incisa da me, l'ho chiamata Belinda –, il mancato biglietto per il reboot di John Carpenter in sala, la recensione di un romanzo rispolverato in una sera di candele tremolanti e castagne tenute in caldo. Fino al mese scorso inedito in Italia, I due esorcisti ha preceduto di un decennio buono romanzi cult come L'esorcista e Rosemary's Baby. I titoli venuti dopo, non facciamone mistero, lo hanno raggiunto e abbondantemente superato in fretta. Nell'inedito di Ray Russell – scomparso vent'anni fa e nel mentre diventato autore cult per Stephen King e Guillermo Del Toro –, c'è tuttavia del pionieristico: molto di lodevole. Un'ironia affilata e un gusto per il satirico, ad esempio, che nei primi anni Sessanta facevan sì che lo scrittore parlasse e sparlasse senza peli sulla lingua di ciò che di più sacro esistesse per l'americano medio: la Chiesa e la famiglia. 

Non potremmo dire che gli attuali psicoanalisti, credendo di curare scientificamente i loro pazienti, stanno invece praticando in maniera inconsapevole un moderno esorcismo che scaccia effettivamente e letteralmente il diavolo dai corpi dei loro pazienti? Danno alla cosa un altro nome, ricorrono a rituali e termini differenti e si rifiutano di riconoscere il Diabolus quando lo vedono, certo, ma questo si spiega semplicemente rifacendosi a Baudelaire. È così che vuole il demonio. La migliore astuzia del diavolo sta nel convincerci che non esiste.

Siamo al St. Michael: parrocchia che appare decorosa ma provinciale agli occhi del nuovo parroco, abituato alle migliori frequentazioni e alle peggiori calunnie. Padre Sargent, bello e chiacchierato, è approdato in città perché in fuga da uno scandalo. Peccava infatti di eccessiva vanità e, di tanto in tanto, alzava un po' troppo il gomito. O una retrocessione o la scomunica, gli hanno intimato, proponendogli di sostituire un sacerdote destinato ad altre greggi. Forse perché promosso, forse perché in procinto di scappare da qualcosa di losco: l'influenza di Susan Garth. La sedicenne, orfana di madre, rifugge la vista del crocifisso, si spoglia in pubblico attirando sguardi libidinosi, pecca di cattiva condotta. Le servirebbe uno psichiatra, ma un padre burbero e omertoso la porta invece in canonica. Da lì i parrocchiani sentiranno urla e risate indecorose, il frastuono dei vetri infranti, l'odore dello scandalo. Non sanno che c'è un logorante esorcismo in corso né che Sargent – la barba sfatta e tentazioni dappertutto – è affiancato dal Vescovo Crimmings in persona. All'appello non possono mancare vomito, turpiloquio e mutilazioni corporee. Ma il rito, per fortuna, questa volta è fatto più di parole che di brutture. Mentre la mano dell'Altissimo minaccia all'esterno fulmini e saette con un temporale da apocalisse biblica, fra le mura sacre si è tutti presi da un assedio di cui sono ignari i pettegoli e i complottisti della città. Una prova di forza disputata da sacerdoti di generazioni opposte: il primo scettico e con gli scritti di Kafka e Baudelaire sul comodino, l'altro dal credo incrollabile. All'inizio, eppure, scartano l'ipotesi di una possessione demoniaca. Forse che in fondo non credano nel Diavolo, e dunque in Dio? Il bene e il male, infatti, sono facce complementari della stessa medaglia. 

L'omicida e la vittima si guardarono l'un l'altro con una certa comprensione e, in quel frangente, compresero per la prima volta la più profonda, terribile ed eterna verità della dannazione: che non distingue tra colui che commette l'atto colpevole e colui che in cuor suo desidera sia commesso.

Ben scritto ma sconsigliato a chi in cerca di brividi facili, I due esorcisti doveva risultare senz'altro provocatorio per l'epoca: i vizi privati del clero messi alla berlina, la denuncia della violenza fra le mura domestiche, le prime controversie sessuali e nessuna risposta consolante racchiusa nell'epilogo. Le pagine son poche, la suspance abbonda. Merito dei salti equilibrati da un personaggio all'altro e di un'inattesa dimensione corale. Dei capitoli lapidari e accattivanti, conditi da dialoghi fiume e tracce di psicoanalisi. Di una struttura variabile che, alla maniera degli autori moderni, vive sospesa fra psicologia ed esoterismo, questo mondo e l'altro. Quanto è sottile la linea che li separa, tocca chiedersi, se l'autore chiude il romanzo con un inquietante aneddoto biografico? Il ronzare di quattro mosconi sbucati dal nulla gli diede il tormento, pare, proprio nella stesura del capitolo clou: un frullare di ali, uno sfregare di zampette che lasciano suggestionati al pensiero di questo presunto sabotaggio. Ben più della lettura di un horror che paura non me ne ha fatta, no, ma in compenso mi ha regalato un'importante lezione di filosofia morale sulla fede, il libero arbitrio, la natura spinosa del peccato.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Depeche Mode – Black Celebration

lunedì 12 novembre 2018

Post scriptum: sono (anzi, siamo) ufficialmente online

Appena una settimana fa trovavo il coraggio di condividere con voi un'altra parte di me. 
Una storia scritta e riposta, con il serio rischio di tradirmi dimenticandola, finalmente in cerca di una casa sua. Ancora prima che presso un editore – e di questo devo dirvi grazie, mille volte grazie – l'ha subito trovata in voi. Che l'avete accolta con curiosità, condivisa e suggerita, fatta un po' vostra a scatola chiusa. Nei giorni scorsi ho cercato di vestirla al meglio per non deludervi. Nelle venti pagine di anteprima previste della Bookabook ho cercato così di imbrogliare come potevo, fra tagli strategici e un font minore, mettendoci tutta la dolcezza di Milo, scorci delle ombre di Eureka, una nuova arrivata che fa il suo ingresso proprio sul più bello. 
Ho inseguito i colleghi blogger per il passaparola, scritto due post – questo è il terzo e ultimo, giuro –, limato i capitoli introduttivi nei limiti delle mie possibilità (e che fatica incastrare incombenze grandi e piccole, ma ce l'abbiamo fatta anche questa volta mascherando il fiato corto). Come ti senti, mi ha chiesto qualcuno? Felice, agitato, dubbioso? L'ansia è andata sbollendo man mano, sarò sincero, come succede in fila agli esami decisivi, e adesso non mi resta che quel moto di rassegnata accetazione che sulla mia faccia somiglia vagamente alla pace dei sensi. Ho fatto il mio, infatti, e da quando lo scorso venerdì ho inviato il file Word all'editore ho ripreso a respirare più piano dedicandomi alle cose di sempre: sfoltire la barba cresciuta nel mentre, ripetere Romanza per l'imminente appello per laureandi, pulire il bagno e fare la spesa, scrivere recensioni arretrate che tuttavia non hanno perso d'urgenza. Da domani si riprende con la solita vita, con il solito blog – lo stesso che con quasi 4000 voti, ho scoperto, si è classificato sesto ai Macchianera Internet Awards. Oggi, invece, sono online.


Malanotte. Lettera aperta a una cara catastrofe. Cartaceo, € 16.00. Ebook, € 5,99. pp. 280 |

sabato 10 novembre 2018

I film che leggeremo: Grandi autori, grandi attori

Widows – Eredità criminale
15 novembre 2018
Sono le mogli affrante di un gruppo di criminali colti in flagranza di reato. I loro mariti avevano una doppia vita di cui non le donne non erano a conoscenza e, siccome l'elaborazione pretende spietate simmetrie, adesso hanno diritto a una doppia vendetta raccogliendo fedelmente l'eredità dei compagni. Colpiscono il sistema coalizzandosi e, insieme, le sale cinematografiche di un mese già pieno di uscite. Se lo sviluppo da classico heist movie poco chiama – l'omonimo romanzo di Lynda La Plante ha già ispirato una miniserie degli anni Ottanta –, lo stesso non può dirsi di un cast femminile al tempo del #metoo. Cuore della rapina una Viola Davis sempre e comunque in odore di nomination. Le menti, invece, sono lo Steve McQueen di Shame e 12 anni schiavo e l'onnipresente Gillian Flynn.


Chesil Beach 
15 novembre 2018
Squadra vincente non si cambia. Lo sa bene Ian McEwan che, passato purtroppo in sordina con l'intenso The Children Act di cui si parlerà a breve, quest'anno torna sul grande schermo portandosi dietro una piccola grande interprete a cui devo il mio amore e il mio odio smisurato per Espiazione: maestoso dramma in costume che sempre da un romanzo dell'autore britannico era tratto. Siamo nei primi anni Sessanta, il sesso è tabù. Come se la caveranno a letto due timidi sposini – lei non poteva che essere, allora, l'instancabile Saoirse Ronan – durante una travagliata luna di miele? Il romanzo, a titolo preventivo, mi aspetta sul comodino.


Un piccolo favore
13 dicembre 2018
Una gentilezza tra mamme, una cosa da poco. Soprattutto se tu sei Anna Kendrick, blogger goffa e svampita, e lei al contrario ha le forme statuarie di una Blake Lively affascinante e autoironica. Peccato che l'invidiata moglie trofeo scompaia nel nulla, con una valigia carica di segreti e un compito ingrato per l'altra. Il giallo è dietro l'angolo, nel film campione d'incassi di Paul Feig, ma si tinge a tratti di glamour e sorrisi sardonici come pare succeda nel romanzo di Darcey Bell. Un po' thriller, un po' chick lit: sarà all'altezza dei paragoni con Big Little Lies?


The Little Stranger – L'ospite
31 agosto 2018 (USA)
Nemmeno il tempo di buttare via la zucca intagliata, di chiudere la parentesi dedicata a brividi freddi e salti in poltrona, che mi trovo di nuovo a pretendere una visione a tema Halloween. E che visione! Una villa infestata, l'arrivo di uno straniero, il confine invisibile tra psiche e paranormale. Scrive Sarah Waters, consolidata promessa del mystery. Dirige Lenny Abrahamson, che dopo l'indie si dà al gotico. Ruth Wilson, Domhnall Gleeson e Charlotte Rampling, invece, figurano come eccellenti padroni di casa. I tiepidi pareri d'oltreoceano suggeriscono di non aspettarsi il bis, no, all'indomani dei fasti di The Haunting of Hill House. Male che vada, comunque, cosa pretendere di più british di così?


Wildlife
19 ottobre 2018 (USA)
Ci sono tanti, troppi buoni motivi per cui dovremmo affrettarci a conoscere la storia dei coniugi Brinson. Proviamo a elencarne appena un paio. Si tratta di un dramma neorealista in stile Revolutionary Road che parla di sogni – l'amore per sempre, quello americano – in crisi: a portarlo in libreria è stato l'osannato Richard Ford. È l'esordio alla regia di Paul Dano, attore passato dall'altra parte della macchina da presa fra gli applausi di Cannes e del Sundance. Segna la prima collaborazione tra alcuni dei più grandi e sottovalutati di Hollywood: Jake Gyllenhaal e Carey Mulligan. Abbastanza per diresì, sì, assolutamente sì?


Bel Canto
14 settembre 2018 (USA)
Avrebbe dovuto dirigerlo il nostro Bernardo Bertolucci prima dell'inattività, pare. Lo ha salvato dal cestone delle sceneggiature dimenticate, infine, il volenteroso Paul Weitz. È tratto da un titolo Neri Pozza atteso al varco per una ristampa richiestissima in rete. Ha fra i protagonisti i premi Oscar Julianne Moore, qui splendida cantante lirica, e un Ken Watanabe sotto sequestro. Insomma, quando è così, viva il riciclo. Presi in ostaggio dai terroristi in un paese del Sud America, i due saranno al centro di una storia di suspance, solidarietà e forse amore. Che melodramma vecchio stampo sia, purché appassionato.

giovedì 8 novembre 2018

In pre-ordine dal 12 novembre: Malanotte. Lettera aperta a una cara catastrofe

Lunedì ho condiviso con voi annuncio e agitazione. Leggere i vostri commenti mi ha messo il cuore in pace e, abbiate fede, fra una lassa di Filologia da tradurre e qualche altro preparativo da ultimare, prometto di rispondervi uno a uno, piano piano.
Domani mi apriranno le porte sia Pensieri Cannibali con un'intrigante playlist a tema, sia Un libro per amico con un assaggio dell'incipit nella rubrica Chi ben comincia.
Il 12 novembre, invece, il lancio ufficiale previsto per il tardo pomeriggio: una volta online sul sito Bookabook, ve lo ricorderò sui social e con un piccolo banner nella colonna laterale del blog. Vi ho parlato di date, cifre e scadenze. Delle mie immancabili ansie da tenere a freno e del progetto di crowdfounding, gradino poco convenzionale che a tratti spaventa. Resta, a questo punto, la cosa più importante: il romanzo da presentarvi. Con tanto di nota biografica e quarta di copertina, che ritroverete nel mezzo della campagna, e un'immagine promozionale. Essendo la pubblicazione in forse non ho una copertina da diffondere, ma l'editore mi ha dato carta bianca e libero accesso a quell'immenso archivio di scatti che è il sito Unsplash. Avevo in mente un unico dettaglio fondamentale – una lampadina incandescente nel buio – e il tocco magico della mia amica Sara, eccezionale padrona di casa di My Caffè Letterario, ha trasformato poi una semplice foto in una meraviglia. Avrete senz'altro modo di sentirmi parlare qui e lì di Malanotte, di com'è nato, quando o perché. Potrete chiedermi di leggere o sfogliare una bozza del romanzo non appena lo avrò riletto e impaginato – sarà compito di un editor professionista, in caso venga raggiunto il goal dei 250 lettori, ma da perfezionista insicuro quale sono preferisco avere l'ultima parola e, soprattutto, il tempo di tirare di nuovo le fila. Mi eclisso lasciando la parola al mio Milo: un taglio netto del cordone ombelicale. Spero vogliate avere cura di lui. E attraverso di lui, così, anche di me.

| Malanotte. Lettera aperta a una cara catastrofe. Cartaceo, € 16.00. Ebook, € 5,99. pp. 280 |

SINOSSI
Cronometro alla mano per lavarsi i denti, i lacci delle Converse a far pendant con gli stati d'animo e corde del bucato su cui sventolano i capolavori di Beethoven. Milo Jenkins, sedici anni, è un virtuoso del pianoforte, ha mille nevrosi e il fantasma di un pesce farfalla per migliore amico. I suoi lunghi silenzi e un candore senza età hanno reso sicura la diagnosi: è affetto da una forma di autismo ad alto funzionamento. Un ragazzo speciale, lo definirebbe qualcuno. Se vivi in una città che somiglia alla cupa Eureka, però, non ci sono parole gentili per un orfano di madre con gli occhiali a fondo di bottiglia, la schiena ricurva sotto il peso dei libri e gli incisivi a zappa. La svolta tanto sperata ha la gonna troppo corta e le occhiaie viola di Iris, forestiera bella come un film di Tim Burton. Sulla tela della loro adolescenza, uno schizzo rosso sangue. Sotto una coltre di foglie secche, cadaveri innocenti. Corre, Milo. Ma verso Iris o lontano da lei? Un diario ritrovato, un'eredità improrogabile, due storie parallele che si incontrano seguendo il filo conduttore della musica. Truce e dolce, Malanotte. Lettera aperta a una cara catastrofe è una fiaba splatter dove i baci hanno un retrogusto segreto e tra sogno e delirio, amore e morte, non c'è grado di separazione.

L'AUTORE 
Michele Del Vecchio (Palermo,1994) nasce su un'isola, passa le estati della sua infanzia all'ombra del Vesuvio e a otto anni si trasferisce nella regione che, stando a torto alla pagina Facebook, non esiste. Vive tra Termoli e Pescara con quel che resta della sua famiglia e l'irresistibile Ciro, un tigrato europeo che odia tutti e in cui spera fermamente di reincarnarsi in un’altra vita. Fondatore nel 2012 del blog Diario di una dipendenza e plurifinalista ai Macchianera Internet Awards nella categoria Miglior sito letterario, sta lavorando a una tesi magistrale in Letteratura teatrale italiana.

lunedì 5 novembre 2018

Ho scritto qualcosa, sono stato contattato da un editore, mi pubblicano (forse)


Scrivevo queste esatte parole. Ai fedeli degenti di Diario di una dipendenza, che hanno creduto
Purtroppo, nel mentre, al solito, non ci ho creduto io. Rischiando che le dediche in apertura andassero sprecate e che le mie storie, sotto silenzio, finissero nel cassetto della scrivania in cui tengo le foto di famiglia che non guardo più e un pacco di pastelli dalla punta ben temperata, ormai inservibili per chi, con l'inattività, ha dimenticato quanto gli piacesse disegnare da bambino. Ho rispolverato il tutto, in questi giorni, perché ho trovato infine il coraggio di fare una cosa molto poco da me: in cerca di salvezza dal pantano di un settembre bruttissimo, e forse lo avrete percepito fra le righe di qualche post, ho mandato in giro una cosa scritta qualche anno fa e presto messa da parte. È successo che qualcuno, a sorpresa, mi ha risposto nell'arco di un mese. Ho ricevuto un contratto editoriale, una chiamata a casa con il prefisso di Milano, una data che cadrà proprio il prossimo lunedì. La vita, sarò sincero, mi ha preso in contropiede. Neanche il tempo di riuscire a domandarmi tra me e me: in cosa mi sono imbarcato proprio adesso, con gli ultimi esami, la tesi magistrale, un alloggio da fuori sede per le mani? Ho accolto la notizia con un misto familiare di orgoglio e paura. Nel momento più giusto e sbagliato dell'anno. Al pensiero che quel treno, poi, sarebbe passato oltre. Ho scritto un romanzo un po' sui quaderni a righe del liceo classico, un po' all'università. Bookabook mi ha dato il via libera. Mi pubblicano (forse).

Bookabook e il crowdfounding
In una parentesi tonda, eccola lì: l'incertezza. Perché la proposta di pubblicazione non è il traguardo, questa volta, ma il punto di partenza. Bookabook, editore indipendente giovane ma dalle idee brillanti, lascia che la parola decisiva spetti ai lettori. Dopo la regolare selezione, infatti, finirò in prevendita nella data pattuita: sul loro sito troverete a breve una sinossi, una breve nota biografica, un'immagine promozionare ancora da definire e, soprattutto, venti pagine da sfogliare in anteprima. Parleranno i numeri, parlerà chi mi acquista. Per quale motivo arrischiarsi a pubblicare un romanzo che nessuno vorrà leggere, se l'editoria è satura di novità e di pessimi investimenti? Dal 12 novembre sarò allora in prevendita, in versione cartacea (€ 16,00) e in ebook (€ 5,99). Limpidissimi, i ragazzi della Bookabook mi ospiteranno sul loro sito per cento giorni, fino alla chiusura della campagna: cosa avrò raccolto nel mentre? Si spera, abbastanza lettori – minimo 250, che pochi non sono – per andare avanti nel mio percorso: essere seguito da un editor, pubblicato, distribuito nelle librerie fisiche e virtuali. Cosa succede se il goal delle campagna di crowdfounding non dovesse essere raggiunto? I diritti del romanzo torneranno miei, il denaro delle prevendite sarà restituito agli acquirenti e, al di sopra delle 60 copie vendute, pur non essendoci chance di pubblicazione, l'editore si impegnerà comunque a far ricevere copie limitate e corrette ai lettori di buona volontà che, a scatola chiusa, si son fidati di me. Non vi nascondo che, giacché timidissimo, pessimo a vendermi, più abituato a parlare delle cose altrui che delle mie, il gradino da superare mi pietrifica. Cosa ho da perdere, d'altra parte? Me lo domando da giorni, e così facendo mi faccio forza. Qualcosa bolle in pentola, vero, ma a un passo da Halloween ho avuto paura a sollevare il coperchio. 
Mi guardo intorno – vi leggo, vi vedo – e mi rassicuro già. Mi butto (lo prometto: non via).

I passi da fare
Non ho intenzione alcuna di snaturare il mio blog, in cui continuerò a parlare di cinema, serie TV e romanzi con cadenza regolare – non del mio, tranquilli! Non voglio darmi allo spam selvaggio, né costringervi a post a tavolino o a blog tour in nome di una lunga conoscenza. Non vi annoierò: liberissimi, anzi, di essere interessati ai miei post e non al resto. Come si fa a consigliare spassionatamente, tra l'altro, un romanzo ancora in forse? Qualcosa che c'è e non c'è al tempo stesso? Un gatto di Schrodinger? Devo chiarirmi le idee: cerco consigli spassionati e un po' di pubblicità, che non guasta. Oggi stesso scriverò all'editore – a tal proposito ringrazio pubblicamente la redazione, e in particolare Chiara, che perora instancabilmente la mia causa e risponde senza batter ciglio alle mie domande più stupide – e spero di potere inviare a coloro che lo vorranno il banner, la sinossi ufficiale e un estratto per un'anteprima a tema. Poco ma sicuro, venerdì mattina sarò ospite sul blog Pensieri Cannibali per parlarvene un po' attraverso una speciale playlist.

Il romanzo: Malanotte
In questi giorni l'ho sfogliato di nuovo, sapete? La rilegatura scricchiolava, talmente tanto era il tempo passato dall'ultima volta. Maestro nell'autodemolirmi, così come avevo cercato invano l'inghippo in un contratto oggettivamente inappuntabile, volevo convincermi che i miei personaggi, la mia storia, non mi parlassero più. Invece sono cresciuto, sono cambiato, ma a sorpresa non ho smesso di volere loro bene. Ho un difetto, infatti: mi affeziono a tutto quel che faccio, anche se mi dicono spesso che non dovrei. E così mi sono scoperto affezionato ancora a loro, che mi hanno fatto compagnia durante l'ultimo tratto dell'adolescenza e nei pensieri dei quali, ormai ventiquattrenne, potrò rispecchiarmi ancora per poco. Ci vuole un'età per tutto, credo: certamente per essere credibili. Ci vuole un foglio volante che tenga traccia di chi e come sono stato: l'adolescenza, per quanto atipica sia stata, penso vada tenuta stretta. Era nato così Malanotte (che per ragioni editoriali molto probabilmente avrà un sottotitolo). Per dire che alcune città alla Stephen King di giorno possono sembrare rassicuranti, ma la notte qualcosa cambia nell'ululato del vento. Per dire che se hai sedici anni, gli occhiali a fondo di bottiglia, i denti storti e mille piccole manie certe notti possono sembrare cattive da morire. Per dire, soprattutto, qualcos'altro. 
Se non hai il physique du rôle, nella migliore delle ipotesi, altrove ti ridurrebbero infatti a una spalla comica; a un figurante anonimo che non ha diritto strada facendo a qualche colpo di testa o di cuore. Qui, invece, ti ritrovi tuo malgrado voce narrante e protagonista assoluto: puoi risolvere all'occorrenza il giallo di macabri omicidi rituali, innamorarti dell'ultima arrivata in città mentre in un cinema d'essai guardate Cantando sotto la pioggia, avere finalmente voce in capitolo. A partire dalla settimana prossima, a tal proposito, potrete avere voce in capitolo anche voi, che ringraziavo già in quella dedica programmatica. Miei sostenitori sulla fiducia, spero, capaci di farmi credere nei miracoli della lettura e in com'è che gira il mondo ancor prima che aprissi bocca. Per questo e per altro, per questi sei anni e mezzo di blog ad esempio, già grazie.

sabato 3 novembre 2018

I ♥ Telefilm: Unbreakable Kimmy Schmidt | Big Mouth S02

Hanno vissuto per quindici anni in un bunker. Pensavano che la vita, fuori, fosse stata spazzata via dai venti di un'apocalisse biblica. Purtroppo per loro, si sbagliavano. Le Donne Talpa rivedono la luce del sole: liberate durante un'incursione militare di tutto rispetto, con il colpevole assicurato alla giustizia e un intero mondo da scoprire. Messa così, la storia di Kimmy potrebbe sembrare la stessa del Jack di Room: anche qui la claustrofobia, le bugie, la scoperta tardiva della libertà. Peccato che lei, più che all'adorabile Jacob Tremblay, somigli alla coinquilina trentenne di New Girl: candida, rumorosa, colorata. Devono essere state le somiglianze con un film e un sitcom da me molto amate a non farmi andare d'accordo, all'epoca, con i modi di questa Kimmy tutta pepe: sopravvissuta sopra le righe con uno sviluppo che pensavo già di conoscere e un'ironia non per tutti. Ci ho riprovato anni dopo, giacché di comedy intelligenti non si ha mai abbastanza, cercando la sua compagnia a pranzo e cena. Durante i pasti, tutti i giorni, per quattro stagioni e un po' – i restanti sette episodi, gli ultimi, andranno in onda il prossimo anno. Per un pelo mi sarei perso un gioiello del suo genere, con tempi comici pazzeschi, cameo d'eccezione – una doppia Tina Fey, la Laura Dern che non t'aspetti e, soprattutto, il predicatore truffaldino di Jon Hamm – e un cast senza un personaggio fuori posto, che spesso e volentieri, a suon di battute vincenti e stramberie nonsense, ha rischiato di farmi andare il boccone di traverso. Il merito, a detta dei più, va alla rivelazione Ellie Kemper, che cerca se stessa, il lavoro e l'amore in una Grande Mela la cui buccia luccica, sì, camuffando l'acidità e i vermi; o ancora alla spalla Tituss Burgess: appariscente coinquilino omosessuale che punta ai musical di Broadway e al cuore di un muratore italo-americano. Ovviamente, fatto a modo mio, pur riconoscendone il talento non mi sono affezionato tanto a loro quanto alle irresistibili comprimarie Jane Krakowski e Carol Kane: la prima moglie trofeo con appartamento con vista che, perso il brillante al dito, perso l'attico, si reinventa senza deporre mai le arie da bionda svampita; l'altra, affittuaria dalla fedina penale losca, rattristata per l'arrivo degli hipster in quartieri malfamati che andrebbero lasciati tali. Qualche calo, percepito però di sfuggita nella continuità del binge watching, è da segnalare giusto in una terza stagione con puntate che superano spesso la mezz'ora e passi un po' incerti. Per il resto, la verve contagiosa di Kimmy Schmidt, più che infrangibile, mi è parsa inarrestabile. Avrei voluto che le mie pause pranzo, così, fossero più lunghe; che non ci fosse il prossimo 25 gennaio come data di scadenza per questo tornado di buonumore che sfida la pioggia, la presidenza Trump e il rischio indigestione. Sarà che nel tempo speso a ridere e mangiar bene c'è sempre tanto, tutto, di guadagnato. (7,5)

Gli esami e l'adolescenza, si dice, non finiscono mai. E la pubertà? Non di certo in Big Mouth, serie animata giunta con straordinario successo alla seconda stagione e finita a sorpresa, lo scorso anno, nella fortuna decina delle mie serie del cuore – lo so, qui si parla di ben altri organi vitali, ma son dettagli. I giovani e smaliziati protagonisti, alla scoperta del proprio corpo e all'occorrenza di quello altrui, ci avevano parlato senza peli sulla lingua di masturbazione maschile e femminile, mestruazioni, omosessualità e genitori in crisi. A tredici anni, a un anno di distanza, meglio non aspettarsi grandi cambiamenti dall'oggi al domani. Né sul piano fisico, né tanto meno su quello della scrittura. Restano i soliti i protagonisti, il linguaggio colorito, le grasse risate. Questa volta si parla però di malattie veneree e contraccettivi, delle sabbie mobili della friendzone, della competizione spietata tra donne, e fa il suo ingresso un altro mostro spaventoso: la Vergogna. Quella con la lettera maiuscola, un mantello nero al seguito e un look alla Nosferatu. La stessa che semina imbarazzo fra coetanei, fa riflettere Jay sull'esistenza o meno della bisessualità, mette sotto la luce dei riflettori un'ultima arrivata con la voce di Jane The Virgin e un seno esplosivo. Si sfatano i luoghi comuni, o almeno si tenta con ritmo e ironia. Anche le ragazze si toccano, sognando a occhi aperti le generose profferte dell'attore Nathan Fillion. Anche i ragazzi cambiano: trovano il coraggio di dire grazie e scusa, in fatto di petting e batticuore. Nick, Andrew e i loro amici devono infatti capire che alla loro età ognuno vive gli stessi drammi, in preda alle stesse creature tentatrici. Come ci vedono gli altri è davvero inconciliabile rispetto a come ci vediamo noi? Se la bellezza della condivisione insegna durante una reunion scolastica alla Sausage Party che mal comune è mezzo gaudio, che si è tutti a bordo di una barca alla deriva tra i flutti della malizia, il rischio di ripetersi si è verificato senza grandi recriminatorie. Certo, alcuni meriti tocca riconoscerglieli: le stratificazioni e gli incastri del geniale quinto episodio, in cui le infezioni sono raccontate come in un horror, le cisti ovariche come in un film di fantascienza al femminile, la vasectomia in una commedia newyorkese alla Woody Allen; le figure eterogenee che popolano l'ultimo – un irrequieto demone in prova, ad esempio, o un gatto accomodante e tentatore che simboleggia la depressione, male affatto sconosciuto in giovane età –, prese in prestito da un Inside Out vietato ai minori. Sempre esilarante, sempre fresco e sincero, Big Mouth è tornato a farci ridere nonostante l'inevitabile venir meno della magia della prima volta insieme; dell'effetto sorpresa. Su Netflix. Sotto le lenzuola. (6,5)