martedì 30 giugno 2015

Recensione: Il ladro di nebbia, di Lavinia Petti

Come si può convivere con il fantasma di ciò che è stato e lo spettro di ciò che non sarà mai? Non si può, ecco perché si muore. Non invecchiamo a forza di vivere la vita, ma a furia di ricordarla.


Titolo: Il ladro di nebbia
Autrice: Lavinia Petti
Editore: Longanesi
Numero di pagine: 426
Prezzo: € 14,90
Sinossi: Antonio M. Fonte è uno scrittore di enorme successo, ma per lui fama e ricchezza non hanno alcun significato. Stralunato e sociopatico, vive in una vecchia casa dei Quartieri Spagnoli di Napoli con la gatta Calliope, e se non ci fosse il suo agente letterario a ricordargli scadenze e doveri sarebbe incapace di distinguere ciò che è reale da ciò che forse non lo è. Ma un giorno, in mezzo alle migliaia di lettere dei suoi ammiratori, Antonio ne riceve una che non può ignorare. Datata quindici anni prima, è indirizzata a una donna che Antonio non crede di avere mai conosciuto. Solo il nome del mittente gli è familiare, perché è il suo. Quella lettera l'ha scritta lui, senza alcun dubbio. Quelle parole accennano a un ricordo smarrito e a un uomo che è stato ucciso, forse da lui stesso. Ma Antonio di tutto questo non ricorda nulla. Il giorno del suo cinquantesimo compleanno, si perde nei vicoli di Napoli e in un palazzo mai visto prima incontra uno strano personaggio che ha la mania di raccogliere tutto ciò che gli uomini perdono: nel suo Ufficio Oggetti Smarriti non si trovano solo mazzi di chiavi, libri o calzini spaiati, ma anche ricordi di giochi infantili, amori giovanili, speranze e sogni dimenticati. Antonio intuisce che è da lì che deve partire per ritrovare il filo del suo passato e risolvere l'enigma della lettera. Ma quell'enigma nasconde arcani ancora più insondabili: il segreto di una città che cambia forma e aspetto, l'avventura di un viaggio imprevedibile...
                                          La recensione
Mi è sempre piaciuto mettermi nei panni degli altri: sarà per questo che ho cominciato a leggere. Da bambino, ad esempio, mi immaginavo dall'altra parte della cattedra quando arrivava la bella stagione e, a scuola, ci si doveva dire arrivederci. A volte buona estate, a volte buona vita. Si sentivano tristi per un po', gli insegnanti, quando una classe - e gli alunni che avevano conosciuto attraverso quei pensieri segreti messi a nudo nelle tracce libere - abbandonava le medie per le superiori o, ancora, le superiori per l'università, sempre che la voglia di studiare non si fosse esaurita strada facendo? Soffiavano spifferi o vento di tempesta all'alba di un altro rinnovo generazionale? Ma sapete poi che noia imparare i nomi e i cognomi, decifrare le calligrafie, aguzzare i sensi per conoscere i ritmi e i tempi di ogni testa pensante? Ma sapete che gioia passeggera, eppure, quando il dubbio ti faceva sognare e, al momento dell'appello, cominciavi ad associare i nomi ai volti - e se quel Simone aveva tutta l'aria di un Paolo, pazienza - e a fantasticare su chi avesse la stoffa giusta per farcela? Mi sono sempre piaciuti i primi giorni per la magia delle cose che nascono. Bisogna esserci col brutto anatroccolo, il girino, il bruco, il primo passo mosso su un pianeta ritrovato: sarà per questo che, da quando c'è il blog, ho cominciato a seguire come un'ombra amica gli esordienti italiani. Se mi piacciono, mi ci affeziono e non li mollo più. Come è successo con Carrisi (che mi inquieta), la D'Urbano (che mi ferisce) e la Gazzola (che mi fa bene), di cui ho parlato così tanto, ma così tanto che alla fine neanche loro hanno saputo ignorarmi più. A partire da oggi, succederà lo stesso con Lavinia Petti (che se in futuro ci regalerà un libro bello anche solo la metà di Il ladro di nebbia avrà le mie attenzioni, purtroppo per lei, fino alla pensione). E dire che ero scettico sul romanzo che, per dispetto, mi avrebbe strappato, di lì a qualche giorno, le prime cinque stelle dell'anno corrente. Troppo presente l'ombra di Zafòn - e del vento - nel titolo e in quella copertina rosa antico con gli stormi in volo e i ladri di storie in fuga; troppa pubblicità, e io che non sono mai stato bravo a distinguire se c'è l'imbroglio oppure no; devo sbatterci la testa per accorgermene. Invece, sin da quando l'ho iniziato a sfogliare in treno e per un pelo non stavo per scendere alla fermata sbagliata, Il ladro di nebbia mi si è piantato qui, nella mia testa perdutamente tra le nuvole. 
Uno scrittore misantropo, il ritratto di una donna misteriosa, una Napoli labirinto splendida come nell'ultimo Garrone, una torre campanaria che compare dal nulla quando perdiamo la memoria insieme alla retta via: cinquanta pagine e la fascinazione aveva già avuto la meglio. Anche se per il meglio c'erano ancora quattrocento pagine d'avventure e un mondo straordinario da scoprire al capitolo successivo. Stravedevo per i piccoli dettagli sul brusco Antonio M. Fonte, quando non avevo ancora visto la grandezza sorprendente del disegno finale. Come quella volta in cui avevo perso la scatola del puzzle e avevo assemblato le tessere alla cieca: tanta fatica per scoprire che non era un pezzo dell'impressionismo francese, ma era stato emozionante uguale il lento arrivo alla conclusione che fosse una natura morta da niente e non un capolavoro da museo. Un po' succede così con Il ladro di nebbia, però al contrario. Partire dal pregiudizio che sia il lavoro di una brava falsaria e approdare alla conclusione che di Zafòn – per anni, tra i miei scrittori preferiti – ci sia la benedizione e poco altro; il fantasy della Città delle Sirene, come quel caffè che sul a Napule sanno fa', ha un gusto da provare. Nei Quartieri Spagnoli, al sesto piano di un palazzo che ne ha solo cinque, c'è il portale per il regno di Tirnaìl. Un ascensore che conduce sulla terrazza che non c'è e conoscere Edgar, un pittore in cerca d'ispirazione che dipinge le sue tele con tutte le sfumature del bianco. 
Un salto a Vanesia, città in cui si vendono e acquistano sogni, e cercare di comprare all'Asta delle Illusioni l'amore di una ragazza dai capelli verdi conosciuta in un'altra vita, Gèneve: quando sul bordo di un fiume la notte dei cristalli produceva il suono più struggente e ci si era lasciati al tramonto, prima della scelta consapevole dell'oblio. E, mi raccomando, occhi aperti: i Nox del Conte Vampiro – con l'ausilio della notte – potrebbero desiderare il tuo sangue dolce e i tuoi ricordi felici! Ma i numeri sull'orologio stanno svanendo, il tempo sta per finire: e, con lui, stai per finire anche tu. Gatti che spiano i nostri sogni, nomi barattati per un sorriso, pescatori in cerca dell'odore del mare, ballerine che hanno scordato i passi base, treni da prendere al volo e vite che – in girotondi che non finiscono più – tornano a bussare alla porta travestite da quello che non sono. Rincontrarsi, se tutto va bene, alla fine del mondo. Dirsi ti amo ma anche buon viaggio. Riuscirà lo scrittore più scorbutico, Antonio, a salvare la storia più importante, la sua? L'erba della collina di Mnemosia quale doloroso ricordo gli sussurrerà? Quante domande, quante storie in una e, soprattutto, quanta bravura. L'arzigogolata e romantica “storia infinita” di Lavinia ha i toni surreali - e i capelli multicolore, e i "se mi lasci ti cancello" - del cinema di Gondry; i mondi fatati di papà geniali, come in Big Fish e Al di là dei sogni; paesi delle meraviglie e maghi di Oz in gran quantità. Viaggia un po' sulle ali del buio, un po' sua una Fiat Panda scassata, quando è stanca. Dovrebbe essere, perciò, uno di quei romanzi con all'interno una cartina disegnata a mano. Una favola di libro - in tutti i sensi - con bambini di cinquant'anni come protagonisti. E se la dimenticanza di chi in un anno legge troppo dovesse minacciarlo, sarei pronto – come Orlando sulla luna, con il suo senno disperso – a cercarlo nell'Ufficio Oggetti Smarriti; oltre le mie colonne d'Ercole.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Paolo Conte – Vieni via con me (It's Wonderful)

venerdì 26 giugno 2015

I ♥ Telefilm: Sense8, Orphan Black III, What Lives Inside

Sense8
Stagione I
Serie che spuntavano come funghi nel mio periodo di reclusione forzata. E, tra queste, serie che non immaginavo neanche di avere il bisogno di seguire. Nello specifo, questa qui, scritta – e, per qualche episodio, diretta – dai fratelli Wachowski. Amati e odiati creatori del cult Matrix, da poco reduci dal fiasco Jupiter Ascending, qui cento passi avanti e uno indietro. La Netflix a produrre, storie dentro storie e – all'inizio - l'ombra di quel povero Cloud Atlas tanto messo al vaglio per il quale avevo invece straveduto. Sense8, per leggerezza, piglio autoironico, giusta misura, è senz'altro migliore. Non ha momenti morti. Nella sua fantasiosa coralità, non ha una storia che ti piace e un'altra no. Risulta talmente ben pensato che gli otto personaggi – nati nello stesso giorno, connessi, in pericolo mortale – a turno promettono di diventare i tuoi preferiti. Un giorno preferisci Riley, deejay islandese che sta tornando a casa; un altro, invece, Sun, imprenditrice koreana dai colpi segreti, in una prigione di massima sicurezza per colpe non sue; Nomi, che un tempo si chiamava Michael; Lito, star messicana, che nella vita privata vive un comico mènage a tre; Wolfgang, duro e selvaggio, ai ferri corti con mezza Berlino per un furto di diamanti; Will, sbirro provetto nella pericolosa Chicaco; Kala, bellissima indiana alle prese con un matrimonio combinato; ancora, Capheus – africano – con un pulmino sgangherato che ha il nome di Van Damme e una propensione per i guai. Personaggi in divenire che, sfidando fusi orari, latitudini e paradossi, a volte vengono a trovarsi nella medesima inquadratura grazie a splendide sequenze d'insieme – è il caso di What's Up che passa al karaoke, di un'orgia impossibile in cui all'unisono si raggiunge il piacere, del ricordo della miracolosa notte delle loro nascite. L'intreccio, a volte, può ricordare i prodotti commerciali di una The CW – ad esempio Heroes, che alle medie adoravo: voi avevate l'album di figurine, sì? - ma si sposa a momenti di pura bellezza – e personalità, e passione - indiscutibilmente autoriali. E Sense8 è lì che è fantastico, nella normalità di un giorno qualunque; quando non succede granché. Ti prendi il tempo per conoscerli e comprenderli – e non so raccontarvi, adesso, quanto sia intenso il nono episodio, ad esempio, in cui gli inseguimenti vanno a nanna par lasciare pace ai due diversi, Nomi e Lito, che in un museo vuoto danno vita a un dialogo mentale in cui parlano delle loro relazioni. Lei che prima era un lui, che poi è diventato una lei, che poi si è innamorato di un'altra lei; lui – sempre stato convinto della propria mascolinità, al contrario – che al primo appuntamento, già cotto, faceva un pompino a quello sconosciuto che parlava d'arte in uno squallido bagno pubblico, eppure non c'era squallore alcuno. A Sense8 credi e subito giureresti di credere nel prossimo, vincendo la tua diffidenza da misantropo; contagiato dall'intensità, sconquassato dall'empatia. C'era il video di questa canzone pop, un pezzo per l'estate della Minogue, mi pare, di cui non ricordo ora come ora neanche il ritornello; alla base, comunque, aveva una gran bella idea. Gli amanti di New York si spogliavano e, in mezzo a strade vuote, rimanevano solo in biancheria intima: si baciavano, si mischiavano, formavano una piramide umana. Un corpo solo. Non si sapeva dove iniziassero e finissero le bocche. Di chi fossero le mani, le braccia, la pelle esposta. Gli uomini e le donne - i bianchi, i neri, i gialli e le incredibili sfumature che stanno a metà, frutto di una splendida mescolanza di razze - condividevano il cuore. Si amavano i maschi con i maschi, le femmine con le femmine, in ogni alternativa possibile, e - sarà che erano tutti così belli e di quella bellezza che non fa spavento, sarà che mi piace pensare che anche allora la tolleranza fosse di casa - avevano l'aspetto che immagino abbia l'armonia. L'ordine, sulla terra, era una forma geometrica tutta nuda e senza vergogna. Pensieri – e immagini – che mi sono tornati in mente anni dopo, quando di quella canzone mi è sfuggito di mente il titolo e, dalla tivù della mia stanza, è arrivato e se ne è andato, in un paio di giorni, l'impensato Sense8: per me, attualmente, serie dell'anno. Il minimo comune divisore di un grande amore (o otto?), e tutto il caos trova così un senso. (9)

Orphan Black
Stagione III
Questo sembra essere l'anno in cui le serie che seguivo o finiscono o, puntualmente, mi deludono. Che posso farci? Due anni fa ho conosciuto una rivelazione di nome Tatiana Maslany – santificatela subito – e ho consigliato la sua serie a parte del mondo conosciuto, probabilmente. Orphan Black era bellissimo, originale, a tratti divertente: andava recuperato per forza. Già la seconda stagione, similissima alla prima e con poca voglia di fare, mi avrebbe lasciato un po' così, appeso all'incertezza più totale, se non fosse stato per quel colpo di scena finale che, come nella migliore tradizione degli ultimi episodi, mi aveva lasciato con la curiosità a mille. Non c'erano solo le “sorelle” del misterioso Progetto Leda: accanto a quelle donne baciate dalla scienza – una casalinga disperata, una detective, una hacker, un'ucraina omicida e via dicendo – c'erano anche, a sorpresa, cloni uomini. Il Progetto Castor e i suoi spietati assassini dalla stessa faccia: l'altro lato del medesimo esperimento. Si parte da loro, subdoli e manovrati dall'alto, e sono tutti Ari Millen: uno che è bravo, ha una faccia pure interessante, ma vuoi paragonarlo forse al camaleonte – e uragano - Tatiana? Consideriamo comprimari, e aspiranti villain, che sanguinano a volontà, ma non hanno il carisma sperato. Consideriamo che il parlare di fantascienza-fantascienza risulta incomprensibile, e che il succo della vicenda – clonazioni e compagnia bella – almeno io non lo seguo affatto bene, quando dovrebbe essere il fondamento di tutti e dieci gli episodi, da patti. Consideriamo una parte centrale – con le sestra Sarah e Helena intrappolata nella base dei cattivi – che non vedevo davvero l'ora finisse. Cosa resta? Una protagonista straordinaria che tutto può, e vabbè, e i siparietti comici messi in atto dagli amici giulivi, dalle massaie che si danno allo spaccio di stupefacenti causa Breaking Bad, dai karaoke intonati nei fumosi bar londinesi. Una terza serie, dunque, che si ricorda più per l'ordinario che per lo straordinario. Se laboratori e intrighi organizzati da menti superiori non mi hanno coinvolto a dovere – con Sarah, autentica protagonista, che appare sottotono e Cosima che, alla Nolan Ross, ci intrattiene con triangoli in rosa di cui importa poco, nonostante lo splendore delle due pretendenti al suo cuore -, hanno saputo farlo l'impresa di famiglia di Alison e Donnie – e quell'ex che spunta dal passato non è forse il Justin Chatwin di Shameless? - e gli scleri della pazza Helena che a volte si rivela un agnellino, a volte un leone, ma è sempre e comunque una forza. Soprattutto se condivide lo stesso tetto, per un arco di episodi, con la mia spacciatrice – e madre di famiglia - preferita: a quanto, ci chiediamo tutti, una sit-com sulle due? (7-)

What Lives Inside
miniserie tv
Uno scrittore amato da generazioni di bambini muore all'improvviso. Al suo funerale, quel figlio con cui non ha mai avuto un gran rapporto – lui che è stato padre metaforico di tanti ragazzini, ma non del sangue del suo sangue. Tra le chiacchiere di circostanza e le condoglianze non sentite fino in fondo, quel bambino solitario diventato uomo e, nel laboratorio del genitore, in mezzo a modellini e bozze, scorge una porta segreta. Quella che porta al mondo interiore del papà. Sarà realtà o immaginazione? Nel cast, Colin Hanks – figlio di un padre che non troppo tempo fa è stato amatissimo come quello del protagonista -, mamma Catherine O'Hara e, in una comparsata delle sue, il fresco vincitore dell'Oscar per Whiplash, J.K Simmons. What Lives Inside – strano prodotto di cui mi sfugge la definizione: come li chiamate quattro episodi totali di dieci minuti ciascuno? - è una colorata e malinconica creatura fatata, che ha qualcosa di Big Fish e qualcosa di Alice in Wonderland. Le ispirazioni e l'affetto del Burton migliore, gli effetti speciali di quello peggiore – nonostante un budget altissimo e un lato grafico ottimo. Quaranta minuti sono un po' pochi per appassionarcisi davvero, ma visivamente, questo, è un gioiello che non lascia indifferenti. Il trionfo dello schermo verde, l'ennesimo, che arriva a modo suo anche dalle parti del cuore. Per forza di cose, si ferma prima di appassionare, ma guardato come un esperimento – un inedito buona la prima – lascia confusi perché è già finito, e come è possibile?, ma incantati perché raramente sul piccolo schermo del nostro computer, almeno che non si parlasse di un film piratato, sono passati sprazzi di luce - e note - tanto suggestivi. (6,5)

martedì 23 giugno 2015

Pillole di recensioni: Geek Girl II, Qualunque cosa significhi amore

Titolo: Geek Girl – Modella fuori posto
Autrice: Holly Smale
Editore: Il Castoro
Numero di pagine: 329
Prezzo: € 15,50
Il mio voto: ★★★½
La mia recensione: Non amo i romanzi in serie, salvo casi eccezionali. Il personaggio principale, indipendentemente da dove la trama andrà a parare, deve farmi divertire. Ecco perché la Alice Allevi di Alessia Gazzola – presto anche in tivù, avete saputo? - è ospite fissa sul mio comodino, quando fa freddo; ecco perché, almeno per altri due libri, potrei sfruttare a volontà la compagnia della strampalata Harriet Manners – modella, secchiona, disastro – quando avrò bisogno di una lettura da spiaggia e di quattro risate. Dopo un anno, la mia Geek Girl preferità è tornata sulle passerelle – e nei laboratori di chimica – ma la aspetta un lungo apprendistato. La prima volta, notata da un mostro di stilista mentre lei era tutta intenta a nascondersi, ha scoperto che i suoi capelli sono rosso carota e non biondo fragola, che sulle nevi russe è impossibile camminare coi tacchi e che tutto può succedere. In questo secondo volume, con professionisti che chissà perché rimpongono in lei fiducia, vola in Giappone – per servizi all'ombra del monte Fuji, coinquiline così dolci da fare venire il diabete e principi azzurri che hanno abbandonato la nave – e si prepara a sbocciare. Mentre i suoi amici sono via per le vacanze, la sua matrigna sta scodellando una sorellina e per la povera Harriet nel futuro ci sono cadute clamorose, insospettabili tranelli e fidanzati che a volte, come nelle fiabe e negli horror, ritornano, Tokio – caotica, sempre in festa, così colorata da fare male agli occhi – assisterà alla più vivace tra le estati di una che, pian piano, si sta abituando a essere stordita dai flash e che, ancora più lentamente, se possibile, sta cercando di aprirsi all'idea irrazionale che anche in un Paese straniero sola non è mai. Holly Smale, dopo un frizzante esordio, firma un frizzante seguito: divertente, secchione, okeissimo – per citare la stessa Harriet. Dalle parti di Diario di una schiappa e New Girl. Una lunga barzelletta, di quelle educate, con ambientazione esotica annessa. E, nonostante gli occhi a mandorla e il trucco da geisha, c'è una tipa, al comando, che è impossibile confondere con altre spilungone. Anche in una folla di giapponesi in smoking, che si affrettano per le strade perché è scattato il verde, tu la riconosceresti. Harriet Manners è quella che, appresso, ha un signore sovrappeso vestito di fucsia che apostrofa i passanti a suon di complimenti nuovi di pacca, un boss che è un incrocio tra un nano da giardino e Satana, una nonna acquisita che sembra reduce da una notte brava in discoteca, e forse è proprio così. Harriet Manners è quella lì che inciampa, cade, si fa rossa e scoppia a ridere. Tu, contagiato, la imiti – nella risata e, se sei un po' così, geek, anche nel pubblico capitombolo.

Titolo: Qualunque cosa significhi amore
Autrice: Guia Soncini
Editore: Giunti
Numero di pagine: 260
Prezzo: € 14,00
Il mio voto: ★★★
La mia recensione:Tornavo vittorioso da un esame durante la preparazione del quale avevo scoperto che leggere testi teatrali mi piaceva molto. Anche obbligato dalle circostanze, non potevo infatti non notare quanto mi appassionassero gli elementi che, prima di allora, avevo sperimentato solo con la compagnia di qualche film di nicchia che avevo visto da solo, con la paura di annoiare il prossimo – pochi personaggi, dialoghi, uno spazio chiuso. Ecco perché, davanti alle ultime uscite della Giunti, la mia scelta era ricaduta sul romanzo di Guia Soncini – che dalla sua ha copertina e sinossi bellissime. Storia di matrimoni e segreti sullo sfondo della Milano da bere. Location: la festa di compleanno dell'aspirante sindaco, che non ha la vita da sogno che tutti invidiano. Il Vanni mondano – di origini molisane – è frutto del matrimonio con Elsa, tutta xanax e strategie, a cui Lady Macbeth fa un baffo. In Qualunque cosa significhi amore tutti lavorano per televisione e stampa; tutti conoscono – e disconoscono – tutti; tutti – le amanti senza arte né parte, le psicologhe da strapazzo, i cameraman – sono figli delle scelte di tutti. Esempio estremo, dunque, della sinistra estrema – che non guarda Mediaset, al massimo Fazio – sotto sotto ridicola quanto un salotto di Uomini e Donne, con i toni radical chic che fanno più ridere dei capelli della Cipollari, gli articoli determinativi davanti ai nomi propri, le librerie con gli Adelphi disposti in certo modo meno tollerabili, forse, dei troni di cartone dei pomeriggi trash di Canale Cinque. La commedia umana della Soncini – che ha la stronzaggine della Lucarelli nelle poche volte in cui dice cose giuste – è scritta bene e piace, per quanto possa piacere una cosa di cui detesti i personaggi dal primo all'ultimo. Ha segreti-non segreti, finali-non finali, scandali-non scaldalosi che la rendono, insieme alle comparse della De Filippi e di Alessio Vinci, però della materia di cui sono fatti i rotocalchi. Antipatico, chiacchierone, ma capace di stuzzicare la curiosità legata a un mondo che tu non conoscerai mai - e chi vuole conoscerlo? C'è che dopo un po' anche le frecce velenose del suo arco vengono a mancare e in trecento pagine si esauriscono. Cinquanta in meno e avrebbe guadagnato ritmo, freschezza: avrebbe avuto un colpo segreto da scoccare. L'amore, invece, è una sudata partita di tennis e tutti i personaggi, inquadrati in matrimoni infelici, giocano contro un muro di cemento, anziché sfidare un rivale dolcemente (in)degno di loro. La convivenza è più un monologo o un dialogo?

sabato 20 giugno 2015

I ♥ Telefilm: The Enfield Haunting, Younger, Finding Carter II

The Enfield Haunting
miniserie tv
Gli anni '70, la Londra provinciale, una povera casa infestata. Sarà vero oppure no quel che giura la famiglia Hodson – letti che tremano, vasi che scoppiano, lividi che non si rimarginano, rumori improvvisi quand'è notte? Chiamato ad indagare, un anziano ispettore del paranormale con un lutto incancellabile e un matrimonio in crisi e, a mettergli inizialmente i bastoni tra le ruote, un giovane spavaldo che vorrebbe smascherare quella storia di spettri; dichiararla tutto un falso. Ma quando la piccola di casa, Janet, inizierà a essere in pericolo e a prestare il suo corpicino a fantasmi in cerca di vita nuova, come negare l'evidenza? A Enfield c'è una casa maledetta. The Enfield Haunting, miniserie in tre puntate andata in onda di recente su Sky Living, mi era stata consigliata da alcuni dei miei suggeritori di fiducia – questa volta, tra gli entusiasti, anche mio padre. Leggevo commenti convinti, volavano otto e nove, sentivo l'esigenza di un doveroso recupero. Purtroppo, un po' come era accaduto all'inizio dell'anno con Remember Me – sempre inglese fino al midollo, sempre capitanata da un vecchio e valido mattatore -, il mio coinvolgimento è stato parziale. Non mi è parsa imprescindibile. Ben realizzata, recitata alla perfezione, agghindata con scenografie di tutto rispetto e regali accenti britannici, ma fredda, distante, tanto tradizionale da risultare già vista. Non ci si stupisce davanti alla resa all'avanguardia: ormai, la tivù ha assi nella manica maggiori del cinema stesso. Non impressionano le voci demoniache, le anime in cerca di pace, i piccoli esorcismi domestici: quel rigore di cui vi parlavo, per forza di cose, insieme a una durata che si aggira intorno alle tre ore, dilata i tempi e la tensione. Qualche salto dalla poltrona c'è, ma c'è soprattutto un epilogo addolcito che si intuisce sin dall'inizio. Degno di nota, accanto alla cura formale e a una sceneggiatura che sarà pure tratta da fatti realmente accaduti, ma non conquista granchè, il cast. Con Timothy Spall, bravissimo, premiato lo scorso anno a Cannes per il suo amato e odiato Mr. Turner; Matthew Macfadyen – il Darcy di Joe Wright, ora sui piccoli schermi anche con Ripper Street – che ha un fascino per me incomprensibile che le lettrici più eloquenti, chissà, un giorno vorranno spiegarmi e quei modi da manuale che me lo fanno trovare sempre insipido; su tutti, ottima la tredicenne Eleanor Wothington-Cox. Bambina bellissima e carica di potenziale, che mi ha ricordato la Emma Watson dei primi Harry Potter e una versione in miniatura della Ryder, ai tempi di Burton. Per il resto, impeccabile produzione d'oltremanica in cui tutto è al posto giusto, ma che la mancanza di un preciso taglio stilistico e la trama copia-incolla non mi ha reso del tutto gradita. Ghost story tipica che l'essere vera non rende purtroppo più originale. (7)

Younger 
Stagione I
Liza Miller ha quarant'anni, una figlia in Erasmus in India, un marito traditore che l'ha lasciata sola e piena di debiti. Dicendo addio alla sua villetta di lusso e al suo buon vicinato, si trasferisce a Brooklyn, con una vecchia amica del liceo, in un appartamento che può andare bene solo se si è giovani, sognatori, disoccupati. E Lisa è tutto, meno che giovane. Cosa che, nella ricerca di un lavoro fisso, pesa eccome. Finché, per la professione dei suoi desideri, stagista in una casa editrice più alla moda degli uffici di Il diavolo veste Prada, non mente sulla sua età. Quindici anni: un dettaglio minuscolo. La nuova lei – che si veste e si atteggia come una ventiseienne – riparte dunque da una sonora bugia. E, da quella bugia, trova il riscatto sperato e l'amore di un aitante tatuatore che, anagraficamente, potrebbe essere suo figlio. Riuscirà a convivere con la sua doppia identità o, seguendo un proverbio che dice che la verità rende liberi, farà outing sulla sua seconda ritrovata gioventù? Younger – tratto da un omonimo romanzo di prossima pubblicazione per la Piemme e portato sul piccolo schermo dal creatore di Sex & The City – è una dinamica commedia romantica in dodici episodi, giunta a marzo ma più che consigliata per quest'estate che è alle porte. Carina, simpatica, scorrevole. Il formato della sit-com e le disavventure impossibili degli chic lit che tanto piacciono a Hollywood. La memorabilità non vive da queste parti, ma – per ritmi, cast e situazioni paradossali – Younger è molto meglio delle previsioni. Un appuntamento settimanale per concedersi un sorriso e, se si è nel mezzo del cammin di nostra vita, qualche piccola fantasticheria che non fa mai male. Chi non vorrebbe mettere un punto e andare a capo, al tempo degli amori di una notte, delle amicizie alcoliche, delle feste folli? Sutton Foster lo vuole e può: quarantenne (in ottimo stato di conservazione) figlia degli anni ottanta, già vista nello sfortunato Bunheands – A passo di danza, è una convincente padrona di casa e, questa volta, la serie di cui è la stella principale non avrà, a quanto pare, vita breve. Dopo pochi episodi, e nonostante uno zuccheroso lieto fine, Younger è stato confermato per una seconda stagione. Merito anche dei comprimari – la riesumata Hilary Duff, sempre più bionda, e il bel Nico Tortorella del primo The Following – e del mondo editoriale statunitense che offre, con le sue fan fiction che diventano bestseller e i suoi scandalosi tentativi di plagio, qualche spunto originale e uno sfondo cangiante. (6,5)

Finding Carter
Stagione II
Si era persa, Carter, e si era ritrovata, la scorsa estate, in una serie MTV carinissima, che aveva il suo nome di battesimo e gli elementi dei teen drama di una volta: amore, segreti, liceo, famiglia. Finding Carter, la storia di una sedicenne che aveva passato la vita accanto alla sua rapitrice, convinta fosse la sua madre biologica, e del suo successivo ritorno all'ovile, mi aveva strappato un sette pienissimo e un certo consenso. Non la serie dell'anno, okay, ma quanto era piacevole? Parecchio. E aveva saputo fermarsi al momento giusto – o sbagliato, a seconda dei punti di vista – davanti a un twist finale che, nel momento di un quasi certo lieto fine, aveva stravolto tutto e tutti. La ragazza rapita – quella sui cartoni del latte, sulle foto affisse ai pali del telefono, dell'esistenza tutta in forse – era stata rapita ancora. Passato un anno, io ero ancora lì, seduto al computer, ad aspettarla. Questa piccola serie – nel suo piccolo ancora più piccolo – non mi avrebbe deluso. Come poteva, se già una volta aveva usato i clichè a suo piacimento, con estrema scioltezza? Invece non solo il nuovo Finding Carter delude le attese, ma risulta superfluo, noioso, inverisimile per la maggior parte dei suoi dodici episodi. Consiglio sulle puntate: se proprio volete, guardate la prima e le ultime due. Il resto non vi piacerebbe. Per gli inciuci inutili, i personaggi che subiscono cambiamenti radicali, le raffiche di colpi di scena che non sortiscono effetto alcuno. Succede fin troppo, e più che un teen drama alla The O.C sembra una soap – e più impossibile di Jane The Virgin, che compensa all'inverosimiglianza con un mare burrascoso di risate. Qui tutti sono seri, saggi e piangono a dirotto. Ma chi ci crede che prendono sul serio le scappatelle dei coniugi Wilson, la redenzione dello scapestrato Crash, le conquiste di una Taylor tramutatasi in baldraccone, i piagnistei di una Carter che, se non fosse così bellina, avrei già rispedito al creatore? Gli unici che si tollerano, su un set di prime donne che non hanno però la stoffa dei mattatori, Grant – adorabile fratello minore interpretato dal piccolo Zac Pullam, che tempo un'estate diventerà un gigante – e Max, coi capelli di Rapunzel e la brillantezza di Channing Tatum, per nominarne uno a caso nei cui occhi vedi rotolare le balle di fieno, di cui perdoni gli scivoloni perché è proprio pollo per copione. Immancabile il finale sospeso – al momento di un atteso processo che è tra i pochi eventi importanti di un lungo brodo scaldato – e l'aria scettica. Tutti i lo seguo ancora oppure no? che si scioglieranno tra più di qualche mese. Quando la noia e la curiosità faranno la loro parte. (5)

mercoledì 17 giugno 2015

Pillole di recensioni: Antipodi; Sempre meglio della realtà

Titolo: Antipodi
Autore: Raffaele Napoli
Editore: CasaSirio
Numero di pagine: 230
Prezzo: € 14,00
Il mio voto: ★★★½
La recensione: Con gli esami, scelgo i libri da leggere in base al numero di pagine. Perché se leggo libri lunghi poi lascio il blog in coma, le mie recensioni latitano, non riesco a districarmi tra manuali universitari e hobby. O una cosa o l'altra. Ma io non so scegliere un paio di jeans, quindi immaginatemi alle prese con l'amletico dilemma. Quando posso uso scorciatoie segrete e argino il problema: un romanzo sulle duecento pagine e via. E' nel periodo della estiva che si annidano le stroncature. Non che un romanzo breve sia per forza fiacco, ma sì, spesso è così: mi danno l'aria dei riassunti e va a finire che non mi ci appassiono. In questo 2015, a sorpresa, Antipodi è il primo esemplare in cui mi imbatto ad unire l'utile e il dilettevole. Mi è venuto in aiuto, con le sue duecentoventi pagine e il formato dei tascabili, e mi è piaciuto parecchio: ha riempito il tempo, e gli ha dato un senso. Quando tutto quel che cercavo era una lettura d'evasione dotata di personalità. Merito di questo Raffaele Napoli, che un novellino non è. Ha una formazione da sceneggiatore e si nota. Nei dialoghi concitati, nelle scene vivide, in pagine che sanno dire il giusto. Nome di punta di una casa editrice pop e giovane – la CasaSirio – Napoli si rivela un abile intrattenitore e un narratore che dà equo spazio a personaggi quotidiani e a spunti nuovi. Cosa avranno mai in comune Marco, imprenditore dalla famiglia perfetta, e Luca, giovane di belle speranze che magari hai incontrato oggi, alla cassa del supermercato? L'amore per la stessa donna. E l'amore – “che move il sole e le altre stelle” – fino a cosa può spingerti? Dopo un incipit che cattura – un uomo nudo in un parco spagnolo, con parenti dall'altro capo della cornetta che ignorano chi sia – Antipodi, che sembrava una storia di stalker e doppie vite, si colora di fantasia. E' un intreccio alla The Twilight Zone, quindi dovete lasciarvi andare; crederci. Avrei voluto che qualcuno me lo dicesse, perciò ve lo dico, sciamani meridionali e metempsicosi non vanno d'accordo col thriller psicologico, ma la mia smorfia iniziale è durata poco. Poi ho imparato i passi. Più si prosegue, più ci si accorge infatti che migliora. Difetto: la teoria suggestiva dei sei gradi di separazione – sarà quindi un caso che mi abbia ricordato il romanzo 6 – Il numero maledetto? -, la stessa che all'inizio si fatica ad accettare, è spiegata coi toni di Wikipedia. La prossima volta, più elaborazione personale. Napoli già sa come raccontare una storia – anche le paradossali – e gestisce il doppio punto di vista meglio degli americani. Due voci che si alternano, due narratori che solo a volte sono sullo stesso piano: agli antipodi, altrimenti, come il titolo suggerisce. Fino a un finale, almeno, che arriva in fretta e che suona definitivo e giustissimo. Il Karma ha regole tutte sue, e un senso dello humor che adoro. La magia, allora, non ha scampo. What goes around comes around.

Titolo: Sempre meglio della realtà
Autore: Daniele Titta
Editore: CasaSirio
Numero di pagine: 200
Prezzo: € 13,00
La mia recensione: E pensare che quando Jessica - portavoce delle idee nuove della nuova CasaSirio – mi aveva contattato, mi aveva proposto proprio questo libro. L'altro, Antipodi, era un omaggio; una sorpresa che non mi toccava. Buffo, perché io sono intollerante sia ai racconti che alla pura fantascienza, ma la possibilità di recensire Sempre meglio della realtà mi allettava. Nonostante trovi che in racconti così brevi non ci sia spazio per lunghi ricordi, nonostante nella mia prima adolescenza abbia sperimentato i segreti del genere con i tascabili targati Urania – e in Daniele Titta c'è molto di quelli – senza riuscire a farmeli piacere. Questione di gusto personale. Io sono un lettore – e un essere umano – con i piedi per terra, particolarmente scettico verso l'ignoto. Altro motivo per cui non leggo racconti: come dovrei recensirli? Uno a uno, tutti insieme, in generale o nel dettaglio? Sempre meglio della realtà – con le sue otto trame – mi ha messo in una di quelle situazioni difficili. Posso dirvi genericamente – non saprei come altro fare, sennò – che ci sono elementi che ho trovato degni di nota, altri meno; storie belle e storie brutte. Alcune di cui avrei letto un intero romanzo – ad esempio, una distopia con gli echi del mito di Orfeo e Euridice; i segreti sanguinosi tra due fratelli e, ancora, tra una madre e suo figlio; l'amore distante tra un astronauta tornato sulla terra e un'aviatrice improvvisata -, altre di cui avrei fatto francamente a meno – il marito di una donna gravemente disabile che si trasforma lentamente in lumaca; un incomprensibile individuo che ha rapporti sessuali con il suo appartamento, come in una puntata di Io e le mie ossessioni. A volte è strano, ma bello. Altre volte è strano e basta: troppo sopra le righe per me. A fare da sfondo a tutti questi uomini e a tutte queste donne, il panorama di una sconosciuta apocalisse: la navicella di Lucifero sospesa nei cieli, la popolazione che si trasforma in mostro, la perdita di certezze. Oggettivamente, Daniele Titta scrive benissimo – tant'è vero che, a volte, senza quella prosa puntuale e incisiva, avrei abbandonato l'avventura davanti all'ennesima scena impossibile; anche meglio del collega Napoli, che invece ha il dono della sintesi di tutti gli sceneggiatori del mondo. Però fa un genere che non ci mette d'accordo, ed è giusto così. Fortunatamente ho l'altro romanzo per parlarvi con convinzione di una casa editrice che dà spazio a firme sconosciute, ma notevoli. Questo l'ho letto in un giorno, ma lo consiglierei esclusivamente agli amanti di un genere che non mi convinceva prima e, nonostante il buon Titta, non sa farlo nemmeno ora. Sempre meglio di niente. Sempre meglio della realtà. 

lunedì 15 giugno 2015

Mr. Ciak: Il racconto dei racconti, Maggie, Insidious 3, Stuart - A Life Backwards, Mia madre

Una regina che davanti ai lazzi dei giullari di corte non ride. Lo sguardo serio, il grembo vuoto: il desiderio di un erede. Un re straniato dal mondo, il suo bizzarro animale domestico e quella figlia sfortunata data in moglie a un orco che non conosce tenerezza. Due anziane sorelle che sperimentano l'amore – e la depravazione – di un nobile smanioso: per magia, una ritrova la sua lontana gioventù; l'altra, nella sua casupola di paglia, sogna la vita a palazzo e la perduta compagnia della sua confidente. Tre storie che si completano, nelle loro cupe mancanze e nel bestiale desiderio di possesso che muove, come pedine, tutti i personaggi. Sovrani sudditi di sogni che non possono sognare. Tre storie tra tante, tratte da una Bibbia visionaria e fiabesca di più di qualche secolo fa: Lu cuntu de li cunti. Poesia in lingua napoletana che ho scoperto nei miei esami più recenti, nelle origini campane dei miei, nell'ultimo Garrone. Un Garrone internazionale, grande più del solito, che con un cast che grande lo è altrettanto va alle radici scure delle fiabe antiche. Alla scoperta della nostra grande meraviglia; alle radici dell'incanto. Per definizione, ciò che suscita ammirazione. Presentato a Cannes accanto alle ultime fatiche di Sorrentino e Moretti, amato e odiato, Il racconto dei racconti è una produzione sontuosa e, per la resa visiva e il puntuale lavoro dei caratteristi, per il budget elevato e l'audace voglia di fare, verrebbe da dirgli che non sembra italiano. Ma è un complimento? Che è orgogliosamente italiano ho voluto ricordarlo, invece, io orgogliosissimo, a ogni piano sequenza, a ogni campo lungo, a ogni scorcio dipinto: gli attori non recitano davanti allo schermo verde. E' tutto lì. E' tutto nostro. Si vedono la premura degli arredi e i fili dei costumi, la solidità dei castelli e le sfumature della lingua, mentre Desplat mette in musica e Garrone si occupa dell'orchestrazione. Poco importa se il minutaggio eleva qualche personaggio a protagonista per un giorno, in questo grottesco racconto corale, e ne condanna un altro a vivere da subalterno – è il caso dei divi Salma Hayek e Vincent Cassel, messi in un angolo, sul finale, dalla diciassettenne Bebe Cave, bellezza meno appariscente di quella della desnuda Stacy Martin, ma intensa forse più dei tanto annunciati fiori all'occhiello. Il lusso della corte, i giullari, le voci acute degli evirati cantori, favole aspre che esistevano ben prima dei Grimm: il Barocco – affollato, misterioso, tremendo – che si fa film e, tra tante scene madri, la corsa nel labirinto, la cena a base di cuore di drago, un ritorno a casa nel sangue, viene immortalato nell'immagine conclusiva. Un filo teso nel vuoto e la significativa impresa di un funambolo fermo a metà, mentre giù ora si muore in miseria e ora si festeggia sguaiatamente una festa che arriva e, tanto, subito va via. Il racconto dei racconti, facendo appello a un connaturato bisogno di suggestione, stai certo che non cade; sospeso nell'attimo. (8)

Schwarzenegger, padre di una figlia che sta per trasformarsi in una creatura da film dell'orrore e la prospettiva del trash. Mosse da wrestling, botte sonore, magari zombie che arretrano, spaventati: sono loro ad avere paura di uno che è una mezza leggenda e che, sulla soglia dei settanta, continua ad avere un fisico invidiabile, nonostante i pettorali inizino a sgonfiarsi e le rughe a scavarsi come nell'acciaio. Invece Maggie, storia di ultime volte, di figlie condannate a morire prima dei loro genitori, di padri e madri che impazziscono per il troppo dolore, con i ritmi e le tonalità dei drammi indie, non solo mi ha positivamente scosso, ma mi ha strappato – in quel finale forse retorico, ma che in ogni caso avrebbe fatto male – una lacrima. Grave che la visione di un Arnold sedentario, invecchiato, e di un'adolescente che sta perdendo se stessa, e la possibilità di scegliere tutti i suoi domani, mi abbia commosso? La vicenda, con il pretesto di un horror modesto e uno sviluppo di un languido intimismo, è un appello a non perdere la nostra umanità; un invito a non lasciare che la bellezza deperisca brutalmente; un conto alla rovescia verso un'apocalisse di famiglia e una scelta di vita o di morte. La solitudine della quarantena o quel fucile che è a portata di mano? La risposta, ardua, in una meditazione davanti al capezzale di lei: un'adolescente che si chiama come un fiore e che sta perdendo i petali, la pelle, il senno. Abigail Breslin, cresciuta Little Miss Sunshine, più passano gli anni e più si scopre in gamba; e ha solo diciotto anni. Brava, tanto che il trucco grigiastro è un dettaglio: ci mostra la trasformazione attraverso altre vie, come solo lei – e pochi altri giovani talenti – sanno fare. Con tutto il bene che gli svuole, Arnold Schwarzenegger – che qualche volta ci ha fatto ridere, qualche volta ci ha intrattenuti con scazzottate formidabili – altrettanto bravo non è, ma veicola tanta intensità, qui, nonostante le sue poche espressioni. Con l'età, ha imparato anche lui a piangere. In una storia triste – anche se è più triste il lavoraccio svolto dai titolisti italiani: Contagius? – che parla marginalmente di epidemia e delicatamente di un sangue che non è acqua. (7)

Nell'arco di una sola visione, qualche anno fa, avevo eletto il primo Insidious a mio piccolo cult. Un horror dei più tradizionali in circolazione – con nebbie, mostri all'improvviso, salti dalla poltrona – e la regia magnetica di quel James Wan che, sono certo, in futuro saprà fare grandi cose. La sua cifra stilistica, semplicemente inconfondibile. Insidious mi era piaciuto per il mistero, l'inquietudine sottile del non detto, il finale mozzato. Avevo pacificamente accettato il sequel, nonostante la sua dubbia utilità, per il ritorno del cast originale, per una regia capace di dare gradite conferme e perché certe lacune andavano colmate. Come tutti i sequel di questo mondo, Oltre i confini del male voleva dire – e fare – troppo, ma il risultato era mediamente sufficiente. All'annuncio di questo prequel, arrivato al cinema nel periodo dei sonnolenti horror estivi (in confronto The Lazarus Project è imperdibile, anche solo per la Olivia Wilde), ho subito immaginato il disastro. Senza Wan al comando, senza la sfortunata famiglia Lambert, sarebbe stato un altro stupido teen horror. Dovevo fare il veggente a pagamento, dite? Insidious – L'inizio, con una protagonista rubata a Disney Channel e la storia di un'adolescente bloccata a letto, tormentata da uno spirito molesto, è anche più inutile e evitabile del previsto. Siamo, infatti, dalle parti di Ouija: attori messi lì a caso, dialoghi imbarazzanti, situazioni irrisorie. A farci una magra figura, soprattutto la medium di Lin Shayne: nostra vecchia conoscenza che qui scopre di avere un senso dell'umorismo – ma perché, dico io? - e si comporta un po' come la Carrà, un po' come la De Filippi, in un episodio paranormale di C'è Posta. Leigh Wannell, che sei alla regia e pure nel cast, vuoi tu aprire la busta ad apparizione di mamme defunte e mariti trapassati, discutibili nuovi villain e stentati rimandi al primo film? Io, cari Maria e Leigh Wannell, la chiuderei anche qui. Dove il tre nel titolo è presagio della desolante valutazione globale. (3)

Era l'anno in cui ai Bafta un giovanissimo Andrew Garfield trionfava grazie a Boy A. Recuperato, quello, lo scorso anno. Amato tanto e odiato altrettanto. Impresso a fuoco, dentro la memoria, come uno dei lungometraggi più tristi e tosti, nonché inaspettati, visti trecentosessantacinque giorni fa. Consigliato subito, ad oltranza, perché quel piccolo film per la televisione con un protagonista grande andava reso noto. Così lo avevano recuperato colleghi blogger come Lisa, di In Central Perk, e a loro volta lo avevano consigliato. E' Lisa, quest'anno, a ricambiare il favore: mi ha fatto conoscere infatti Stuart – A Life Backwards che per un gioco del caso, sempre ai Bafta, sempre in quell'annata, era in lizza per il Miglior Attore Protagonista. Trasposizioni, i film per la tivù, di due romanzi; tragiche storie vere dal sapore amarissimo. La pellicola in questione, una coproduzione BBC e HBO, ha avuto un destino meno fortunato: in Italia non è mai giunta e, al contrario di quella folgorante parabola di seconde possibilità non ha mai vissuto un breve passaggio sul grande schermo. E che peccato. Se Stuart – A Life Backwards risente un po' nella resa di stilemi e montaggi televisivi, dal punto di vista delle interpretazioni sa offrire prove di una potenza clamorosa. Ispirato al romanzo di Alexander Masters, è un inconsueto biopic su un Signor Nessuno. Trentatrè anni, una vita sciagurata vissuta tra l'umidità dei sottopassaggi e le sbarre della galera, il profilo sbilenco di un barbone, la fedina penale di un tossico. Alexander, suo amico per caso, si domanda quand'è che è cominciata la sua infelicità. Quando quell'individuo dolente, buffo, a modo suo intelligentissimo è stato iniziato alla violenza? In un'ora e mezza, alla rinfusa, ci spieghiamo il perché delle sue cicatrici stermiante, del suo passo claudicante, dei suoi crimini scellerati. Quand'è che Stuart non ha avuto più scelta di essere una persona normale? Gli abusi e la prigione, il fallimento della convivenza e la scoperta della malattia rievocati in una conversazioni tra “quasi amici”: Alexander, ironico e perfettino, e Stuart, che prende tutto sul serio e non afferra i doppi sensi. Come nella migliore tradizione inglese, si ride e ci si emoziona senza furberie: tanto umorismo, tanto candore destinato a sporcarsi, tanta ingiustificata rabbia. E, rubato alla tradizione inglese, Benedict Cumberbatch, la dizione perfetta e i modi da lord, ma un non so che – vero che mi volete lo stesso bene? - continua a rendermelo anonimo. A strappare consensi e vene, piuttosto, un magnifico Tom Hardy. Questo omaccione pieno di tatuaggi che ogni volta mi stupisce, migliorandosi. Qui, usa la voce come puro strumento di commozione. Qui, ancora sconosciuto, prima che Warrior lo lanciasse e Locke lo consolidasse a talento indiscusso, è forse più bravo che mai. Una prova di maniacale mimetismo, con le grandi urla e i minuscoli atti di gentilezza: la lingua impastata dall'alcol, i lividi del corpo ben esposti, quei borbotii indistinti che non saprei da dove iniziare per descriverveli. E si piega come un giunco, Hardy, insieme a un personaggio piegato da un'indicibile tragedia, in una performance viscerale, fisica, cerebrale che mi ha ricordato l'ultima di un Heath Ledger che è ormai leggenda. Il finale, anche se già annunciato, non strazia purtroppo di meno. Come si recita, come ci si fa ricordare a lungo: comprenderlo attraverso film che in sala non arrivano. (7,5)

Se non fosse per il gran rumoreggiare per la mancata vittoria a Cannes, di Mia Madre – visto senza entusiasmi una sera – non vi avrei parlato. Non mi è piaciuto e non mi è dispiaciuto, nel suo essere convenzionale e noiosamente nella norma. Parlo, lo premetto, da non amante del cinema di Moretti: un autore che conosco volutamente poco e di cui ho visto l'essenziale. Magari mi avrebbe convinto così, con la storia semplice di una regista di mezza età alle prese con un film difficile da girare, un grande attore impossibile da gestire e, fuori dal set, una madre che non si alza più dal letto. C'è la Buy che invece interpreta il ruolo della Buy – convincente, perché nevrotica e urlante come da vent'anni a questa parte; e se c'è una cosa più irritante della Buy che urla, poi, la Buy che urla “Azione! Si gira!” – e un Turturro esilarante, nonostante la produzione ingessata. Il Moretti attore, inoltre, si ritaglia la parte, per fortuna minore, del fratello perfetto. Non c'è un'analisi dei rapporti familiari, lo strazio immane – quando in molti lo paragonavano al crudele e magnifico Amour -, né la banale ma necessaria trasformazione interiore della protagonista. Professionista anaffettiva che, sin dall'inizio, mi è parsa francamente sempre buona e che quindi non diventa più buona col tempo: parlo da (non) professionista anaffettivo? Non si sente il bene, il senso di famiglia, non si raccolgono le lacrime di una dedica che avrebbe potuto essere più immediata. Da figlio, non ho percepito la doverosa angoscia, io che da bambino – attratto e terrorizzato dalla morte – mi struggevo per quella lontanissima dei miei, che adesso non hanno neanche cinquant'anni. Da genitore, mio padre si è addormentato in poltrona. A emozionare non emoziona. A sorprendere non sorprende, con una regia standard, una scrittura modesta – interessante la descrizione della vita del regista, assai meno l'agiografia della santissima insegnante delle scuole pubbliche, di inspiegabile piaggeria - e un cast, tra comparse e comparselle, in cui non tutti sono all'altezza della situazione. Mia madre è il drammone esistenzialista con tutti gli elementi che chi odia a spada tratta il cinema italiano rimprovera, e a giusta ragione, al cinema italiano stesso: autoreferenziale, monocorde, barboso. Incapace di guardare oltre. A volte, nel pregiudizio altrui, c'è come un sesto senso. (5,5)

sabato 13 giugno 2015

Recensione: Fiore di fulmine, di Vanessa Roggeri

Cari amici, buongiorno a voi. Oggi, le recensione di un romanzo che ho molto apprezzato e che ha un solo difetto: io leggo troppo! Ho avuto modo di conoscere l'autrice, persona carinissima, la settimana scorsa – qui, le foto dell'evento – e, passati ormai due anni dal Cuore selvatico del ginepro, tocca ammettere che l'attesa è stata ripagata ad hoc. Augurandovi buona lettura, vi abbraccio. Buon weekend – e, quando siete al mare, abbiate un pensiero per me che, fino al 23, sarò chino sui libri.
“Non mentirmi. E' doloroso morire?”
“Vi assicuro che certe volte vivere fa molto più male.”

Titolo: Fiore di fulmine
Autrice: Vanessa Roggeri
Editore: Garzanti
Prezzo: € 16,40
Numero di pagine: 280
Sinossi: È quasi sera quando all'improvviso il cielo si fa livido, mentre enormi nuvole nere galoppano a oscurare gli ultimi raggi di sole. Da sempre, la prima cosa da fare è rintanarsi in casa, coprire gli specchi e pregare che il temporale svanisca presto. Eppure la piccola Nora, undici anni e il coraggio più scellerato che la gente di Monte Narba abbia mai conosciuto, non ha nessuna intenzione di mettersi al riparo. Nora vuole sfidare il vento che soffia sempre più forte e correre sulla cima della collina. È appena arrivata sotto una grande quercia quando un fulmine la colpisce sbalzandola lontano, esanime. Per tutto il piccolo villaggio sardo dove è cresciuta, la bambina è morta. Ma non è quello il suo destino. Nora riapre i suoi enormi occhi verdi, torna alla vita. Il fulmine le ha lasciato il segno di un fiore rosso sulla pelle bianca e la capacità di vedere quello che gli altri non vedono. Nella sua famiglia nessuno la riconosce più. Non sua madre, con cui amava ricamare la sera alla luce fioca di una candela, né i suoi fratelli, adorati compagni di scorribande nei boschi. C'è un nome per quelle come lei, "bidemortos", coloro che vedono i morti, e tutti ne hanno paura. Nel piccolo paese non c'è più posto per lei. La sua nuova casa è Cagliari, in un istituto per orfanelle, dove Nora chiude la sua anima in un guscio di dolore, mentre aspetta invano che qualcuno venga a prenderla.
                                          La recensione
La scorsa domenica, noi, famiglia che non va spesso in giro, un po' per nostra stessa colpa e un po' per colpa di città che offrono rari stimoli, ci siamo ritrovati – come a dicembre, quando la venuta di Donato Carrisi aveva generato l'esodo, ricordate? – presso quel Centro Commerciale che, tutto gli si può dire, ma non si fa mancare niente. Compresi i preziosi incontri con quegli autori che, al massimo, avevo guardato da lontanissimo; sperato, un domani, di conoscere. Agli inizi di giugno, così, mi sono trattenuto qualche giorno in più a Chieti, sbarrato con una linea netta il primo esame della Estiva, giacché a presentare il suo ultimo romanzo c'era un'autrice che, due estati prima, avevo letto e consigliato energicamente: Vanessa Roggeri, passata nelle vostre wishlist, sul comodino di mamma e, una storia dopo, in Abruzzo, per parlarci di un'ultima fatica che, fortunatamente, non si era fatta attendere troppo. Il ritardo non è elegante, e ciò che non è elegante, sapete, non le si addice. Non si è fatta aspettare nemmeno quella domenica in libreria: puntualissima. Mi aveva riconosciuto lei per prima, seduto in seconda fila, in mezzo a un pubblico ciarlielo e vivace. Io non avevo domande, perché timidissimo, segretamente allergico ai microfoni e ancora ignaro, se non nelle linee generali, di una storia che avrei cominciato a leggere soltanto la sera dopo. Al momento di firmare le copie abbiamo evitato le presentazioni di sorta: mi ha abbracciato come tra amici, il nome tenuto sorprendentemente a mente di colui che aveva recensito per primo Il cuore selvatico del ginepro. La scrittrice che si accorgeva del blogger in sala e, per un momento, gli sorrideva. Riconoscersi. Proprio come ho riconosciuto, a pagina uno di Fiore di fulmine, lei e le sue surreali storie di terre di Sardegna e donne magiche. L'accortezza di non deluderci un po' a vicenda. Lei, me lettore. Io, lei lettrice. Di cose diverse, opposte, ma – nell'arco della lettura chi di un romanzo, chi di un post – quasi sullo stesso piano. E Fiore di fulmine, come mi avevano assicurato in tanti, nonostante qualche piccolo “ma”, mantiene le promesse. Io, chissà, le manterrò? 
Dopo Lucia e Ianetta, sorelle separate dalla superstizione e legate dal più involontario degli amori, Vanessa – fresca di ricerche, passeggiate tra antichi cimiteri, indagini da scrittrice – non si sposta troppo dall'incanto in cui aveva mosso i primi, timidi passi. Siamo nella sua Sardegna: vietato abbandonarla per il Continente. Siamo in un piccolo mondo antico tutto al femminile, scosso dai tuoni e popolato da donne parafulmine per ogni crudeltà. Sulle miniere di Monte Narba – così familiari che strizzi gli occhi per mettere a fuoco il panorama e per scorgere l'aliena Ianetta nel cuore secco della natura – infuria una tempesta, preludio dell'estate che sarà. Ma Nora, che urla contro il cielo e il temporale sperando che le sue parole, in tal modo, arrivino prima al padre che è volato lassù, non ha mica paura: con la sfrontatezza e la curiosità dei bambini disubbidienti prende il pericolo di petto. La luce del fulmine la trapassa e lei muore e rinasce, anche se a chiamarsi Lazzaro è uno dei suoi tre fratelli maggiori. Segno del miracolo – o della maledizione? - una cicatrice che, come un'edera in attesa di fiorire, le solca il corpo; le anime dei defunti che, al suo risveglio, fino alla giovinezza, vedrà chiedere aiuto al piedi del letto. C'è una parola per chi è come lei e, tanto quanto coga, in paese fa paura: bidemortos. Trait d'union tra l'esordio e la gradita riconferma, dunque, le donne – diverse, ma ugualmente tribolate -, lo sfondo storico e quel caratteristico sentore crepuscolare. 
Le leggende che nel sud dello Stivale hanno radici profonde. Immaginavo, in realtà, basandomi almeno sulla prima metà, che i punti di contatto sarebbero stati di più; nella seconda parte, invece, con Nora adulta e il lavoro malpagato di domestica presso la magione della facoltosa Donna Trinez, Fiore di fulmine imbocca altre vie. I sentieri d'ombra dei giardini in rovina, delle case infestate, del romanzo ottocentesco. Chi è la ragazza dalle lunghe trecce che Nora vede vagare al buio e che nessun altro sembra vedere? Cosa fanno i proprietari della villa, il venerdì sera, dietro la segretezza di una porta che la servitù non può violare? Nel darci le risposte, benché guidata da un'autrice operosa e intelligente che vede e provvede, la misteriosa Nora – che a furia di vedere i morti ha perso il contatto coi vivi; che ha sviluppato un cuore duro come un osso di pesca ma che, all'improvviso, inizia a battere per i fratelli Alagon, giovani e dai corpi fragilissimi, peggio di quanto lo sia il suo, marchiato per sempre a fuoco – a volte dà l'impressione di perdersi nello schematismo delle gotici britannici: da Jane Eyre al recente Il miniaturista, ragazza nuova, stanza segreta, amori al cianuro. Colpo di scena conclusivo, inoltre, che si presagisce e smorza, purtroppo, la vivacità del giallo. Per forza di cose, volendomici qualche tempo affinché la ghost story sarda rimpiazzasse nel mio immaginario quella inglese e, a lungo andare, scoprendosi un romanzo d'interni, ho immaginato la Londra vittoriana, così diversa dalla Sardegna brulla e indomita del Cuore selvatico del ginepro, qui guardata attraverso una finestra che dà sul cortile. Si vede, ma questa volta si tocca di sfugitta. Abbastanza per potere giurare, come se la storia fosse un esclusivo souvenir, di esserci stati? Questo il soggettivo “ma” a cui alludevo, in una delicatissima vicenda fluttuante tra fantasia e realismo, altrimenti tanto ben scritta da sembrare – e più del primo, che comunque ho preferito, nella sua vaga crudezza – a disegni. Uno di quelli di Giaime, tutto anima e occhi grandi. La leggerezza delle linee a matita, l'ombreggiatura, il calacare la mano giusto al momento dei dettagli da sottolineare, i personaggi prodigiosi che solo nelle fiabe popolari. E nella fantasia di autrici che sanno renderli autentici.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lana Del Rey – I Can Fly 


I had a dream that I was fine
I wasn't crazy, I was divine."

domenica 7 giugno 2015

Recensione a basso costo: Sulla sedia sbagliata, di Sara Rattaro

Ci sono cose che solo una mamma può capire. E che, purtroppo, solo una mamma può sentire.

Titolo: Sulla sedia sbagliata
Autrice: Sara Rattaro
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 157
Prezzo: € 9,90
Sinossi: Una madre rimane sempre una madre. Non smette mai di esserlo. Qualunque cosa accada. Anche quando non esiste nulla di più difficile al mondo. Lo sa bene Francesca, che ogni settimana va in carcere a trovare suo figlio accusato di un reato gravissimo: omicidio. Lei che continua a domandarsi dove abbia sbagliato. Perché negli occhi di Andrea fatica a riconoscere il bambino che ha cresciuto. Ma il suo cuore non può fare altro che proteggerlo. E la missione di ogni madre. Proprio quella missione che Teresa sente di aver fallito nel momento in cui sua figlia le è stata strappata via troppo presto in un incidente d'auto. Lei non era lì a difenderla per non lasciarla andare. Un dolore troppo grande che l'amore materno di Teresa non riesce ad accettare, al punto da creare una realtà diversa in cui la ragazza gira ancora per la casa a portare luce con il suo sorriso. Francesca è la madre di un carnefice, Teresa la madre di una vittima. Eppure sono solo due donne che devono in qualche modo superare la sconfitta delle loro speranze, dei loro sogni di un futuro felice per i figli. La loro sofferenza assume le stesse tonalità, usa le stesse parole, piange le stesse lacrime. Perché il confine tra l'errore e la verità si confonde. Non è mai netto. L'amore più puro può trasformarsi in un peso troppo grande da sopportare. Può fare male o far sbagliare...
                                           La recensione
Attendevo l'ultimo libro di Sara Rattaro – che poi in realtà è il primo, trattandosi di una ristampa – con tanta speranza. Ci eravamo lasciati con Niente è come te e, dopo i bei romanzi iniziali, mi era mancata la scintilla. Non mi era piaciuta la Sara che scriveva in corsivo frasi scontate, né la presenza – nello stesso romanzo, ed era un romanzo sulle duecento pagine – di troppi temi importanti. Tra il divorzio, l'autolesionismo, le responsabilità dei padri e la crudeltà di certe mamme avevo letto un po' di tutto. Comunque, non abbastanza. Ritornare al principio, perciò, con Sulla sedia sbagliata. Una storia delle sue: drammatica, intensa, vera. Quattro voci – una mamma con un figlio assassino, una mamma con una figlia vittima, una paziente malata in attesa di un trapianto e un figlio fragile, infine, che ha assassinato una madre forte – e la complessità dei rapporti di sangue. Mostrati assumendo, questa volta, ora un punto di vista, ora un altro. Prendendo posto ai capi lontani della stessa tavola rotonda. L'inizio è stato a mille, con la vicenda di Francesca – chirurgo bellissimo e libertino, braccato all'ospedale da un manipolo di uomini in divisa con notizie su un figlio che così perfetto non è – e i pensieri di una madre che, nonostante l'omicidio, non smette mai di essere tale. Immagino che, innocente o colpevole, sia impossibile smettere di volere bene alla parte più bella di te: anche andarlo a trovare in carcere per dodici anni, una volta a settimana, è un compromesso giusto pur di rivederlo ancora. Eccola lì la Sara che mi emozionava sempre, con le parole giuste e i tempi giusti. Purtroppo, durante la lettura, con l'ampliarsi delle voci, ho trovato che l'intensità iniziale rimbalzasse da un punto all'altro con il rischio di andare spesso oltre le linee di confine e perdersi. Un'apostrofe a una figlia che non c'è più, un inno alle seconde possibilità e alla vita che a volte fa giri straninissimi, una confessione a cuore aperto di un assassino uomo che, in mezzo a tante madri, in mezzo a tante donne, così fuori posto in realtà non è. Trattandosi di un testo di cinque anni fa, un lontano esordio con la Morellini Editore, niente da dire su uno stile che è già maturo e impeccabile. Se la Rattaro scrittrice ha un difetto è solo uno: ha una voce fin troppo riconoscibile. Qui, passando attraverso un prisma, si scompone in quattro, ma si sente per tutto il tempo che è lei l'intermediaria: lei Francesca, lei Teresa, lei Zoe, lei Paola. Sfumature tanto delicate da risultare pressochè invisibili da un ruolo ad un altro, nonostante lo sforzo di introspezione non da tutti. Mi rimane un dubbio che solo un nuovo romanzo scioglierà.
Sulla sedia sbagliata non mi ha convinto al cento per cento perché è un'opera prima, e ogni opera prima ha i suoi limiti? È vicino a un ultimo romanzo che già di suo non mi aveva entusiasmato? O, ancora, crescendo – e leggendo – mi sono accorto che quello che mi colpiva all'inizio adesso non ha più su di me il medesimo portentoso effetto? A lasciarmi stranito, il fatto che le pagine siano meno del solito – centocinquanta – e che i temi siano, invece, il doppio. Importantissimi. Non dico maltrattati, liquidati in fretta, perché sapete che Sara ha cura di noi e delle nostre storie, ma troppi per una lettura che non si protrae per più di un giorno. Accanto alla forza delle madri, che immaginavo essere il tema portante e un po' lo è, si parla di trapianto degli organi, anoressia, attacchi di epilessia in tenera età... di una malattia capace di straziare famiglie infelici. E non so, ho come avuto l'impressione che stessi rivivendo lo stesso rapporto avuto con Niente è come te. E che, ora me ne accorgo definitivamente, forse non è del tutto vero che la Rattaro parli del quotidiano. Nel quarto libro, ecco ancora una volta un quotidiano drammatico, problematico, triste: quello dei casi eccezionali, della cronaca nera, e di certe case maledette dalle stelle. Spaccati sociali ben resi, ma è come se leggessi sempre la stessa storia e come se famiglie con problemi più piccoli non fossero abbastanza interessanti per avere diritto a un libro tutto loro. A volte, c'è gente che è serena. A volte, vorrei sapere anche di loro, stanco di "romanzi a tesi" in cui c'è troppo tutto – anche troppo dolore.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Elisa – A modo tuo

giovedì 4 giugno 2015

Mr. Ciak: Mad Max, Pitch Perfect 2, Lo straordinario viaggio di T.S Spivet, Project Almanac, Il nome del figlio

Ci sono film che vanno visti sul grande schermo. Quelli che sono tridimensionali, anche senza occhialini. Le magie di registi padroni del gioco e la settima arte che si fa pienamente spettacolo – senza trame, senza personaggi cesellati, senza la presunzione di cambiarti la testa. Al limite, quello che hai sulla testa: i capelli, elettrizzati. Quale titolo, quest'anno, esige una sala buia con te al centro - lo schermo che, per due ore, diventa il tuo orizzonte – se non l'ultimo Mad Max, giunto con un ritardo di trent'anni e un necessario rinnovo generazionale? Al timone, un pirata con la barba bianca: Frank Miller, uno scattante e irruento giovincello di settant'anni che, a dimostrare che i sogni di gloria non invecchiano, riprende la sua saga distopica – nata quando la distopia non era moda – e lo fa con la fantasia trascinante che ha preservato e gli effetti speciali all'avanguardia in cui, all'inizio dell'avventura, non aveva confidato. Nel 2015 i motori rombano più forte; i cieli infuocati hanno sterminate sfumature di rossi e arancioni; la notte, nel deserto, è in bianco e nero. I suoi piani originali non li ho conosciuti, ma il mondo di Mad Max – l'apocallisse di Ken Il Guerriero che si faceva realtà, con gli inseguimenti, i signori dell'universo, tutto quel sangue, tutta quella sabbia – mi è comunque stato familiare, da sempre. Vedevo cose come Doomsday e il paragone scattava. Ma, a fine visione, ho capito che gli altri titoli non sono che una copia a scopo illustrativo. Un'idea vaga di un mondo cinematografico che ha scarsa cura dell'interiorità dei suoi personaggi – bidimensionali, monolitici – ma un'esteriorità che corrompe gli scettici tanto che è prepotente. La nuova fatica del regista – ed è una fatica autentica, perché sei talmente così dentro al film da avere la fronte sudata, l'affanno – conquista pubblico e critica, e le recensioni entusiaste e il cast con grandi nomi hanno messo sull'attenti anche me. Tom Hardy avrà altri film per ricordarci quanto sia talentuoso e quante espressioni sappiano passare sul suo viso duro, qui perpetuamente corrucciato; Charlize Theron, i capelli rasati e il viso sporco, tornerà a essere icona di femminilità nel prossimo spot Dior. Ma lui pazzo e lei furiosa sono i protagonisti perfetti di un'orchestazione folle. Questa volta si corre, si picchia duro, perché se si sta fermi si muore, catapultati in un intreccio che un intreccio non è – casomai, un pretesto per dare il via a questo tripudio di spettacolarità – sulla scia di un harem in rivolta, di una amazzone rabdomante, di uno schiavo portato poco per le parole e tanto per l'azione. A bordo di un carro armato che solca le dune come fossero oceani di sabbia, emerge, per l'ipercaratterizzazione e il trucco, un irriconoscibile Nicholas Hoult: l'unico ad avere il diritto a un tentennamento kamikaze, a una svolta, in una squadra di eroi senza macchia che cercano il loro speranzoso valhalla. Mad Max non è il mio genere. Ma questa è la classica scusa che ci si dà davanti ai film difettosi. Invece pnotizza. Coi dialoghi limitati e limitati battiti di ciglia. E il cinema – qui a livelli vertiginosi – è anche questo. (8)

Mai rileggo, raramente riguardo. Il primo Pitch Perfect – arrivato in sordina, in Italia, con il titolo Voices – era tra le mie poche eccezioni. Visto un paio di volte nel giro di un anno. Capitava lo proponessi per le serate in cui avevo gente – e cibi spazzatura – in casa. Quando si voleva ridere, ma non con il solito film. Nessuno lo conosceva ancora, e io invitavo i miei amici a passarselo, a guardarlo, a caricarlo sugli iPod. Metteva di buon umore. Dava il via ai passaparola e ai tutorial, su YouTube, per imparare a suonare – armati di bicchieri di plastica – quella Cups Song subito tormentone. Mi ero lasciato trascinare da Pitch Perfect come gli spettatori americani, avendo in simpatia il musical e le classiche rivincite dei perdenti annunciati. Attendevo il sequel – presentato, questa volta, in pompa magna, con recensioni in anteprima, incontri sul Red Carpet, incassi raddoppiati e Mad Max vari scacciati dal primo posto – e purtroppo è stato delusione. Cosa che immaginavo, nonostante le medie audaci e tutta la notorietà guadagnata: destino dei sequel a cui Pitch Perfect 2, con trama evanescente e cast ampliato al seguito, non sa sottrarsi. Le Bellas, che alla fine del primo film avevamo lasciato alle prese con nuove sonorità e un successo agli albori, rinate dalle ceneri – e dal vomito – dopo fischi e fiaschi, sono ancora insieme, ma appaiono distanti. In cerca di loro stesse, si ritroveranno solo nell'ultima parte, nella prevedibile performance per la vittoria – anche se si punta, quest'anno, direttamente al mondo, essendo l'ambiente universitario un piccolo palcoscenico per le loro enormi ambizioni. Troviamo le protagoniste cresciute e abbellite – molte, come una Anna Kendrick qui stranamente scostante, hanno fatto nel frattempo il boom al cinema – e pronte alla laurea: qualcuna pensa al lavoro che verrà, qualcuna all'amore; ci sono nuovi ingressi – Hailee Steinfield, l'anonima Giulietta di Carlei che, per farmi un dispetto, è diventata bellissima d'un tratto – e i riusciti personaggi maschili vengono al contrario abbandonati. Ridotti a volti tra la folla. L'esordio della Banks alla regia non ha cura particolare, infatti, né dei vecchi né dei nuovi. I corpi non sono amalgamati, ed è come se ci si pestasse i piedi, nonostante il perfezionismo e numeri ben pensati. Manca la hit autentica, le scena clou– nel primo, invece, ricordate gli esilaranti provini, il Riff Off, l'omaggio a Breakfast Club? -, i mash up che spaccano. Si va avanti con il pilota automatico, senza il consueto brio, e si sceglie di fare affidamento più sui siparietti della comica australiana – un'irresistibile Barbie XXLche sul canto corale. Pezzi meno coinvolgenti e numeri non altrettanto trascinanti. Si ride e in pochi sembrano essersi accorti che manchi come il leitmotiv. In compenso, troppa Rebel Wilson e tanta comicità slapstick – del tipo che, di solito, è a pannaggio degli uomini, con peti fragorosi, smutandamenti plateali e proposte indecenti: immagino però sia un'altra faccia del cosiddetto girl power  - e, facendo le doverose proporzioni, a uscirne sconfitta è la musica stessa. (5,5)

Cosa ci fa un adorabile bambino di dieci anni, la valigia in una mano, tutto solo a zonzo tra gli Stati Uniti? Ha abbandonato il suo ranch, una casa in cui non si parla di ciò che si ha dentro e, lasciandosi dietro solo una lettera, sale sui treni come un clandestino, chiede passaggi – e caramelle – agli sconosciuti, mira a Washington D.C. Il motivo: ritirare un prestigioso premio, lui che non ha finito nemmeno le scuole medie, quindi figuriamoci se ha un dottorato. Ma è un piccolo genio – vive di dati, mappe, invenzioni strabilianti – e a quell'età è più facile creare una macchina miracolosa che tollerare il primo dolore. Il suo viaggio – che è un viaggio dentro e fuori di se, come nella tradizione dei migliori romanzi di formazione – sarà scandito da flash che lo riporteranno puntualmente a casa – tra gli insetti della madre entomologa, gli scleri della sorella aspirante attrice, i cavalli del padre agricoltore – e dalle comparse di un amico immaginario. Quel gemello che, per un gioco in nome della scienza, è morto e che, ora, è un ricordo che non va via. Lo straordinario viaggio di T.S Spivet – produzione franco-canadese arrivata da noi con due anni di ritardo – è un racconto per famiglie che ha, sotto sotto, qualcosa di speciale. Divertente, malinconico, toccante. Convenzionale, eppure fantasioso. Sarà che ha questo protagonista piccolissimo e un po' assurdo, un tenero Kyle Catlett che non permette che la mamma Helena Bonham Carter – unico nome noto del cast – gli rubi le meritate attenzioni, e che c'è un regista che trasporma tutto in oro ai passaggi di macchina da presa. Questo suo ultimo film non è straordinario, forse, come il titolo promette, ma è il compromesso adeguato dopo qualche anno di silenzio. E io, che altrimenti trovo i bambini che recitano tristissimi, come le tigri al circo, dopo pareri così così, ne sono rimasto piacevolmente stupito. Di Amèlie c'era il mondo favoloso e un personaggio particolarissimo; di Una lunga domenica di passioni quelle due o tre scene toccanti davanti alle quali mi sciolgo. Si parla di Jean-Pierre Jeunet, coi colori coloratissimi, le voci narranti d'altri tempi, la fotografia da cartoline inoltrate direttamente da Paradiso Città. Il raccontastorie girovago che piace soprattutto ai grandi. Questa volta, con gli stessi occhiali dalle lenti rosa, guarda l'America, e le praterie infinite, i grattacieli alti più dei papaveri e le stazioni deserte appaiono diverse dal solito – indeterminate, tanto che viene spesso da chiedersi ma siamo nel passato, nel presente o nel futuro? - perché filtrate dallo sguardo di uno che, anche se turista in terra straniera, non abbandona mai la sua poetica della meraviglia. (7)

Io ho questa strana cosa per i viaggi nel tempo e i paradossi scientifici. Nonostante di rado decida volontariamente di esplorare – al cinema – i territori del genere. Datemi grosse produzioni, effetti speciali e risponderò con il male di vivere. Mi incuriosiva però questo Project Almanac: creatura strana, con un tema che m'intriga in tutti i modi, il found footage del per me divertentissimo Chronicle, ma la firma di quel furbacchione di Michael Bay che, questa volta, produce soltanto. Sin dall'inizio, ed è una sorpresa per un film che sorprende altrimenti poco, il film di Israelite mi ha stampato un sorriso inebetito in faccia e, nonostante chi giochi col tempo rischi spesso di lasciarsi le penne, non è andato via, neanche alla fine. Quello forse il difetto. Mancanza di dramma, in una pellicola per giovanissimi che parte da uno spunto da fumetto – tre amici, il progetto di una macchina del tempo, la bella del liceo da conquistare – e indugia, ogni tanto, nei pressi di The Butterfly Effect. Se lo chiedevano anche in Questione di tempo, poi: se il battito d'ali di una farfalla causa uragani, cosa accadrà con una love story che gli annuari scolastici non prevedono? Si parla, per fortuna, di amori freschi e giovanili, e non c'è stucchevolezza alcuna. Project Almanac è un po' un Project X – ma meno maleducato – con il cuore dei film per famiglie delle estati di Italia Uno: alla Jumanji, alla Zathura. Qualche estate fa, probabilmente lo avrei adorato – per il tempo rubato per intrufolarsi a un concerto degli Imagine Dragons, per le vincite alla lotteria, per la leggerezza pazzesca di vivere i diciassette anni senza volere salvare l'universo per forza. Adesso l'ho trovato semplice, godibile, immaturo, ma cavolo se me lo sono goduto. Purtroppo sono cresciuto abbastanza per dire che c'è di meglio – e di peggio: di Bay, fortunatamente, giusto l'ombra vaga del primo Transformers, ai tempi del LeBoeuf sobrio – e per rinunciare all'idea pazza di costruirmi un affare simile in soffitta. E mannaggia. Tornare indietro no? (6)

Una manciata di vecchi amici, un'intrusa con un bambino in arrivo, le solite chiacchiere tra passato e futuro. Poi, la domanda: il nascituro com'è che si chiamerà? Da una semplice curiosità espressa così, per cortesia, una discussione tragicomica che dura un film intero e che, a colpi di rivelazioni e imprevisti, renderà quella compagnia scoppiata forse più unita ancora. L'importante: sopravvivere alla cena; possibilmente tutti interi. Della Archibugi ho visto poco e niente e l'arrivo della sua ultima commedia in sala mi aveva lasciato indifferente. Qui e lì, poi, su un blog e un altro, ho letto le nomination ai prossimi David di Donatello e il legame stretto con una commedia francese che mi era sfuggita – perché ogni tanto i film d'oltralpe, strano ma vero, li metto in lista e poi il bel proposito mi passa di mente. A sua volta, quel film – che recupererò, prima o poi – era tratto da una pièce contemporanea e Il nome del figlio dal teatro riprende gli ambienti limitati, i misurati exploit dei singoli attori, l'impianto. Giusto qualche flashback a spezzarne la continuità. Potrebbe sembrare piattissimo, ma in realtà l'ho trovato, a tratti, anche spassoso. Ben recitato e scritto anche meglio: solido, il che non è poco. Attori alle prese coi tipici ruoli che ormai anni di film hanno cucito loro addosso – il piacione Gassman, l'intellettuale Lo Cascio, la burina Ramazzotti, l'istrione Papaleo, la mite Golino – ma che, con sicurezza grande, si muovono amalgamati ad hoc in un'ora e mezza che ha occhi solo per loro. Non hanno paura di una macchina da presa che, a volte, li appiattisce seguendo stilelemi televisivi, né di copioni a volte impegnativi che tirano fuori il meglio – e il peggio: le ipocrisie, i difetti, le antipatie – di loro. (6,5)