mercoledì 30 agosto 2017

Recensione: Tulip Fever - La tentazione dei tulipani, di Deborah Moggach

| Tulip Fever, Deborah Moggach. Sperling & Kupfer, € 17,90, pp. 265 |

Olanda, XVII secolo. Non si bada alla razza, al credo, all'estrazione sociale: nella libertina Amsterdam, basta confidare in te stesso e in Madama Fortuna per diventare qualcuno. Si commerciano bulbi di tulipani e allo stelo di un fiore in boccio, di per sé cosa fragile e innocente, sono legati a doppio nodo patrimoni, eredità e vite umane. Qualcuno ha scommesso sul cavallo vincente. Può permettersi allora una casa e una moglie invidiabili, un ritratto sul caminetto costato la bellezza di ottanta fiorini. I pittori del tempo immortalavano ambienti domestici, famiglie in posa, piccoli gesti rituali. Su un ritratto, con un teschio e una bilancia bene in vista (simboli di fugacità ed equilibrio), capeggiano in abiti formali i coniugi Sandvoort. Lui, anziano mercante calvinista, ha i baffi impomatati e un'espressione severa: ha sepolto due figli, la prima moglie, e ora lo turba il mancato arrivo di un erede a cui affidare quel suo piccolo impero sul mare. Lei, orfana di padre e prima di una nidiata sorelle, indossa un abito blu e un sorriso tirato: gli occhi sfarfallano. Parlano di un matrimonio combinato, della ricerca disperata di un'uscita di emergenza, della noia di un'esistenza che non calza. A coglierne le incomprensioni e le tensioni nascoste, un pittore avventuroso e povero in canna: Jan Van Loos, artista minore della scuola olandese, si innamorerà dell'inquieta Sophia e proverà, con mezzi leciti e non, a portarla via da lì. Un cupo palazzo signorile che, senza sole, rischia di far morire di stenti il suo fiore all'occhiello.

Sophia è là, immobile. Sospesa fra passato e presente. E' come un colore, che attende di essere mescolato; come un dipinto, pronto a ricevere la vita del pennello. Lei è un istante, che attende di essere fissato per sempre sotto la lacca lucida trasparente.

Nella “seconda Venezia”, già ammirata durante la lettura del Miniaturista, nasce e si estingue una storia d'amore e dannazione che sfida i cattivi presagi e le alte maree. Amsterdam, di notte, ha un volto segreto. Si alza la nebbia e nei canali galleggiano gli animali annegati e i suicidi, il legno delle navi alla deriva. I profumi speziati, le grandi speranze, fanno continuamente il filo agli schiamazzi della folla; ai contro della tulipomania dilagante. Intrattenimento seducente e scorrevole, il romanzo della Moggach (pubblicato in precedenza da Garzanti, con il titolo Il sogno dei tulipani) ha il piglio di una tragicommedia shakespeariana fatta di qui pro quo, doppie identità, simulazioni truffaldine. Sophia, convincente Emma Bovary di turno, racconta languori e bugie in prima persona. Capitolo dopo capitolo, però, i punti di vista si ampliano fino a includere gli uomini che se la contendono (risulta interessantissimo il marito, Cornelis, al contrario dello stilizzato personaggio del terzo incomodo) e le godibili sottotrame di serve impertinenti e apprendisti ingrati, in ruoli tutt'altro che subordinati. 

Dipingere è un atto di possesso.

Tulip Fever, senza mai dimenticare la grazia dello stile, ha i ritmi di una sceneggiatura cinematografica in cui le dinamiche dell'intreccio, a tratti, fan da padrone: l'autore premio Oscar di Shakespeare in Love e Anna Karenina, che ha adattato il romanzo per un film di prossima uscita con Alicia Vikander e Cristoph Waltz nel cast, questa volta ha avuto gioco facile. Gli avvenimenti storici – quelli che rendono qualche lettura pesante, vero, ma da cui ci si aspetterebbe comunque un ruolo di maggior rilievo – si limitano infatti a rimanere sullo sfondo. Un affascinante scenario mobile che ospita triangoli sì e rovesci di fortuna, in bilico tra melodramma e farsa, in cui il mistero di Sophia è inseguito in tutte le opere dello sfortunato Van Loos.

Il mondo è un caos. Tutti gli artisti lo sanno, ma cercano di dargli un qualche senso. Sophia adesso dà senso al mondo.

Lei resta nel riflesso di un bicchiere di cristallo di una natura morta; nella curva di una goccia di rugiada, giusto sulla pancia di un frutto. Affacciata a una finestra, una lettera accortocciata sul cuore, che aspetta o la salvezza o la dannazione eterna. E nelle vite dei tulipani, brevissime e voluttuose, trovano così magica corrispondenza quelle dei due amanti.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Ursine Vulpine feat. Annaca – Wicked Game

lunedì 28 agosto 2017

Recensione: Il mistero del London Eye, di Siobhan Dowd

| Il mistero del London Eye, Siobhan Dowd. Uovonero, € 14, pp. 256 |

Il nome Siobhan Dowd potrebbe non dirvi niente. L'autrice irlandese, stroncata da un cancro all'età di quarantasette anni, era una presenza tutt'altro che in secondo piano nel bellissimo Sette minuti dopo la mezzanotte – oggetto, quest'anno, di una trasposizione cinematografica altrettanto struggente. L'idea dell'albero che si liberava delle radici e passava a trovare Conor, tredicenne con una perdita da metabolizzare e un ingiustificato senso di colpa, era di Siobhan. Che tra le pagine parlava di malattia, e della sua. Che si spegneva prima del punto fermo, dell'ultima fiaba del mostro. Patrick Ness, vincitore come la collega della Carnegie Medal, l'ha ultimato per non lasciare che un capolavoro dell'infanzia prendesse polvere in un cassetto. C'era la curiosità forte di leggere una Dowd senza intermediari; ancora tra noi. L'occasione si è palesata al mercatino del primo sabato del mese. Su una bancarella, ho trovato il suo esordio per soli due euro. Il mistero del London Eye è un giallo capitanato da due fratelli, Ted e Kat: il primo ha dodici anni e un diverso sistema operativo nel cervello, l'altra ne ha due in più e il pallino per lo shopping al centro commerciale. A Londra è primavera, ma un temporale è in arrivo. Somiglia a una grandinata che minaccia di farti rimanere a casa e al temperamento di zia Gloria: fumatrice incallita, divorziata senza drammi, mamma di un ragazzino da portare volente o nolente a New York. Salim è passato a salutare i cugini prima di trasferirsi. Propone un giro sul London Eye, perché ama gli edifici imponenti, le altezze, e lassù non ci è mai stato. I ragazzi sono in fila, quando Salim decide di saltare la coda e di accettare il biglietto da uno sconosciuto che all'ultimo momento si è tirato indietro per colpa delle vertigini: sale, salutato dai parenti, e quaranta minuti dopo non scende.

Sul mio cervello gira un sistema operativo diverso da quello delle altre persone. Vedo cose che loro non vedono e a volte loro vedono cose che io non vedo. Per quanto mi riguarda, se Andy Warhol era come me, allora un giorno sarò anch'io un'icona culturale. Invece che per le lattine di zuppa e divi del cinema, io sarò famoso per le mie previsione del tempo e per l'abbigliamento formale e andrà bene così.

Da Shutter Island e Contrattiempo, i thriller insegnano che è possibile sparire in una stanza chiusa a doppia mandata. E in cima a un enorme ruota di bicicletta, che sfida le nuvole, la gravità e le partenze dell'ultimo minuto? Coma ha fatto Salim a volatilizzarsi? Kat, spiccia e razionale, pensa a una fuga o a un rapimento; Ted, uno Sherlock Holmes in erba, prende in considerazione perfino l'idea dell'autocombustione. A raccontarci un'indagine intrigante quanto basta e intrisa di leggerezza, è lui, il piccolo di casa. Affetto come l'adorabile protagonista di Atypical da una forma di autismo ad alto funzionamento, ha hobby inconsueti (le previsioni metereologiche, gli abiti eleganti), scarse interazioni con i coetanei (non coglie i doppi sensi e le metafore, non regge gli sguardi altrui, non sa leggere i volti) e un'intelligenza sviluppatissima (se la polizia brancola nel buio, sappiamo che lui troverà comunque tutte le risposte). Amo i personaggi fuori dall'ordinario, affatto i narratori bambini. Il caro Ted, “neek” precoce e bizzarro con una famiglia a soqquadro, non mi ha ispirato purtroppo gran simpatia; non sono mai entrato nella sua testa per capire cosa avesse di diverso dalla mia. Del Mistero del London Eye tessono ovunque le lodi, ma io l'ho trovato scritto bene, scorrevole e nulla più; troppo infantile per i miei gusti. Un genietto si racconta. Suo cugino è scomparso. Il pretesto del giallo, però, desta scarsa preoccupazione, qualche sorriso centellinato e una profonda tristezza, quella sì, per una scrittrice andata via prima del tempo. Ci saranno modi migliori per riscoprirla, confido, e renderle più degnamente omaggio.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: The Cranberries – Just My Imagination

sabato 26 agosto 2017

Mr. Ciak: Metti una sera su Netflix #2

La mia ignoranza si fa sentire in casi come questo. Death Note, storico manga già oggetto di diversi adattamenti in patria, scopre l'America. Tutti i personaggi perdono gli occhi a mandorla e, si intuisce, gran parte del carisma; qualcuno cambia colore della pelle o connotati. Resta la storia di Light, liceale ai margini con una rabbia a cui dar voce e un quaderno piovuto dal cielo. Pagine vuote da riempire con sangue e inchiostro: i nomi dei suoi nemici in sequenza, e la loro morte nei piani – a consigliarlo, un demone ghiotto di mele e una coetanea senza senso della misura. Quanto ci vuole a passare dalla parte del torto? A trasformare un'occasione di far del bene (in lista, infatti, bulli, assassini e terroristi) in un massacro? Ci si domanda lo stesso nell'adattamento firmato dal buon Adam Wingard, regista horror già apprezzatissimo in You're Next e The Guest. In quale momento, precisamente, questo Death Note spreca il suo potenziale? Dal divano mio fratello, fan di lunga data, sottolinea il fascino delle atmosfere – spesso rovinate però dai toni troppo teen, dalla troppa bontà del Light di Nat Wolff – e l'ingiustificato stravolgimento di alcuni comprimari (L e Mia). Il protagonista e la sua ragazza pon-pon, fidanzatini diabolici assetati e poi prosciugati dal loro stesso senso di onnipotenza, alimentano la leggenda di Kira e fanno proseliti. Sfugge la conta delle vittime, il senso dello loro azioni, e in un attimo passano da nerd medi a geni del crimine; da buoni a cattivi. Mancano le sfumature, la coerenza degli snodi, un po' di sana crudeltà, ma sullo sfondo restano le luci al neon di una Seattle notturna e un'idea di cui, anche da profani, si colgono comunque risorse e lacune. Videoclip vertiginoso e splatter, Death Note non mi è parso il disastro annunciato, benché ridotto all'osso. Il pilot ideale, piuttosto, di una serie di cui non mi dispiacerebbe assistere agli sviluppi; un prodotto supereroistico con il fardello del Signore degli anelli e la dannazione di Chronicle, alla ricerca di qualche torsolo sgranocchiato e del marcio. Basta poco a graziare il look psichedelico, la colonna sonora anni '80 e l'indiscusso buon gusto di Wingard; a lasciare bianca, con buona pace degli estimatori, l'ultima pagina del diario di Ryuk. (5,5)

Un futuro distopico. Seduti a un banco, con cinghie di contenimento e museruola, ci sono bambini che non sono quello che sembrano. Zombie di seconda generazione, hanno una coscienza e una minima speranza di essere rieducati. Melanie sembra diversa dagli altri. Ha tante domande e attimi di tenerezza. Trattiene la fame come può. In La ragazza che sapeva troppo, tratto dal best-seller di Mike Carey, una Matilda infetta si affeziona alla maestra Gemma Arterton. Mi sarei aspettato uno sviluppo lento, melodrammatico, nello stile di Maggie. Il film, presentato in anteprima al Festival di Locarno, ha invece un incipit vincente e uno sviluppo decisamente canonico, da survival – una fuga dalla classica orda di morti viventi, l'arrivo in una città invasa dalla vegetazione. Li aiuta Melanie, l'eccezione alla regola. Ma, come da titolo, la bambina sa troppo. Ha prestato un'esagerata attenzione al mito di Pandora e nell'epilogo che risolleva le sorti di una storia altrimenti già nota, decisamente inaspettato, ci lascia con una morale che non ha nulla di consolatorio. Qual è la differenza tra uomini e mostri? Nasciamo cattivi? Possiamo forse rinnegare la nostra natura? La ragazza che sapeva troppo è un horror non imprescibile, ma coerente. Né spaventoso né ributtante – ha però riusciti effetti speciali artigianali e tocchi splatter, con tanto di infanticidi –, ma capace di qualche buono spunto di riflessione e di una svolta shock. L'idea si perde a metà ma, per fortuna, si ritrova alla fine. E non ti molla più. (6,5)

Adam ha un solido gruppo di migliori amici e un segreto. Alla vigilia del suo compleanno, si dichiara gay davanti alla sua cricca in gran completo. L'imbarazzo e, infine, l'accettazione: Adam è quello di sempre, ma sono gli altri ad aver bisogno di tempo e aiuto per metabolizzare l'accaduto e spingerlo finalmente fuori dal suo armadio. 4thMan Out, pellicola indie che mi ha fatto compagnia in una sera di noia e di Netflix, è il buddy movie che non ti aspetti. Contro i cliché, il film parla di un ragazzo troppo rude per la comunità omosessuale e troppo poco, d'un tratto, per le serate passate a giocare a poker. Decidere di vuotare il sacco con chi ha condiviso l'adolescenza e trova, dall'altra parte, cuori tolleranti ma sospettosi. Tutti i gay sognano di convertire gli etero convinti? Tutti i gay, soprattutto, si somigliano e si pigliano? Tra momenti di toccante coesione e divertenti fraintendimenti, 4th Man Out e il suo buon cast televisivo – accanto al semiesordiente Evan Todd, Parker Young (Imposters) e Chord Overstreet (Glee) – alleggeriscono l'anima e propongono una storia d'amicizia pura, virile, che vince gli appuntamenti tragicomici, gli approcci azzardati e qualsiasi pregiudizio. (7)

Ned frequenta un collegio in cui è il capro espiatorio perfetto. Brama l'anonimato, ma gli assegnano come compagno di stanza un ragazzo che non passa inosservato: l'ultimo arrivato, astro nascente dello sport, condivide assieme a lui pochi metri quadri e, inevitabilmente, punta anche su di lui un po' le luci dei riflettori. A stretto contatto, diventerà il suo peggiore aguzzino? Il bel diavolo della commedia dell'irlandese John Butler ha più di qualche scheletro nell'armadio e tanta voglia di fare amicizia. Non bastano le barricate issate da Ned al centro della stanza. Non basta quel che dice la gente. Complice l'illuminato insegnante del sempre ottimo Andrew Scott, i due prestano voce e chitarra a un'esibizione musicale. Mostrando che in quella scuola non si vive di solo rugby. E che i legami si formano, anche quando opponi resistenza. Film piccolo, educato, ironico nella maniera vincente dei britannici, Handsome Devil aveva belle medie e le carte in regola per essere un bel romanzo di formazione. La memorabilità non è dietro l'angolo. La visione scorre fin troppo veloce, però racconta con delicatezza e qualche colpo di scena la sfida all'omologazione, i manrovesci al bullismo, l'infondatezza delle prime impressioni. Nonostante lo spirito, nonostante gli accenti e i volti giusti, non è né Billy ElliotPride. Però l'ho visto in una di quelle sere in solitaria con il mondo contro, e ai titoli di coda sorridevo tra me e me. Di Handsome Devil dirò che ha troppa carne al fuoco e poco impeto, ma fa star meglio, e tant'è. (6,5)

Il mese di prova con Netflix funziona così. Ti studi il menu, dai un'occhiata alle copertine e, se la noia ha la meglio, di trovi a guardare un film messicano sul cui poster c'è la Karla Souza di How to get away with murder, troppo svestita per passare oltre. Il titolo suona improponibile, ma è una traduzione filologica dallo spagnolo: il cattivo gusto, a sorpresa, non è quindi dei titolisti italiani. Che colpa ne ha il bambino? è Una notte da leoni senza anticoncezionali. La protagonista finisce a letto con uno sconosciuto. Lei è impegnata, snob, ricca di famiglia. Lui fa ancora il liceo e vive con una mamma grottesca. I genitori di Maru rumoreggiano, ma acconsentono a un matrimonio riparatore. L'unione è un contratto. I due alleveranno il nascituro, ma separati. Non vi dico cosa succede: si sa. Il copione, però, ha in serbo nella culla un colpo di scena che spiazza; due protagonisti teneri e naturali; comprimari esilaranti, tra padrini erotomani e autisti galanti. Che colpa ne ha il bambino? è la solita storia, ma importata dall'angolo d'America sbagliato; più scollacciata e adorabile del previsto. E, titolo a parte, colpe non ha. (6)

Coppia di liceali scoppia alla notizia che lei, riottosa quando si parla di dormire insieme, ha diciassette anni e già un passato promiscuo (all'asilo infantile, insomma, sesso droga e rock 'n roll). Lui, amareggiato e in astinenza, finisce a letto per ripicca con un una sconosciuta. Holly ha una casa enorme, tanti segreti, nessuna inibizione: da copione, è una pazza furiosa. Rivelerà la loro tresca? Messa alle strette, farà perfino di peggio? You get me, produzione originale Netflix, originale proprio non è. Teen thriller trash, telefonatissimo, da seguire a cervello spento, ha una regia da videoclip, un dignitoso trio di bei ragazzi (la stalker di turno è l'ex teen idol Bella Thorne, che compensa con un indiscreto sex appeal alle pose da “cagna maledetta”). La cattiva sgambetta in mutandine in corridoio, pistola alla mano; qualcuno è a rischio, ma ci si fa soltanto male un po'. L'Attrazione fatale al tempo dello streaming ha uno spunto che si è abbondantemente esaurito vent'anni fa, ma comunque non spiace. In biancheria a bordo piscina, inutile, involontariamente divertente. Un intrattenimento usa e getta, sulla blanda vendetta di fanciulle sedotte e abbandonate. (4,5)

giovedì 24 agosto 2017

Recensione: It, di Stephen King

| It, Stephen King. Sperling & Kupfer. € 21, 90, pp. 1216 |

Quei romanzi che cominci senza sapere quando li finirai.
Quelli enormi, che stanno a stento nella borsa del mare o compressi fra i pensieri – ma solo d'estate puoi trovare il tempo e la pazienza necessarie, il coraggio nelle ore di luce più lunghe. Troppo famosi per parlarne come se niente fosse, troppo belli per dovervi convincere a parole.
Quale bambino nato tra gli anni Ottanta e Novanta, in un giorno di pioggia, non è mai inciampato nella grata da cui sporgono gli artigli del mostro che indossa la brutta faccia di un clown? Chi non ha soggiornato nella lugubre Derry per il tempo di un incubo a occhi aperti? Faccio parte dei lettori che sono stati iniziati alla lettura da Stephen King. Del ricordo di It, però, possedevo immagini confuse. Flash di un iconico Tim Curry e passaggi di un libro che un po' per pigrizia, un po' per incostanza, da ragazzino avevo letto discontinuamente. Galeotte la bellissima ristampa e l'attesa per il film di prossima uscita, questa volta non avevo né fretta né paura. La rilettura, se di rilettura si può parlare, è durata più di due settimane. Il blog taceva, i ritmi rallentavano e l'estate finiva, appresso a un mattone truce ma emozionantissimo che monopolizzava gli spazi e le ore. Ci ho scherzato sopra nell'attesa dell'ultima pagina: la speranza di ritrovarsi dal nulla bicipiti grossi così, a furia di sfogliare e sfogliare, e la vita percepita come quell'ammasso informe di cose che ti capitano tutt'intorno, mentre entri a pieno titolo nel Club dei Perdenti (fiero di esserlo, sì) e li aiuti a costuire dighe, botole, pallottole d'argento; a cacciare i mostri grandi e piccoli che attentano all'innocenza.

Se qualcuno gli avesse domandato: «Ben, ti senti solo?» avrebbe osservato quel qualcuno con sincero stupore. L'ipotesi non gli era mai balenata. Non aveva amici, ma aveva i suoi libri e i suoi sogni [...] Se si sentiva solo? avrebbe forse ripetuto, sconcertato. Come? Cosa? Un bambino cieco dalla nascita non sa nemmeno di essere cieco finché non glielo dice qualcuno. Anche allora si crea un concetto perlopiù accademico di che cosa possa essere la cecità. Solo chi ha perduto la vista può averne un'idea chiara. Ben Hanscom ignorava il significato di solitudine, perché quella era da sempre l'unica dimensione della sua vita.

I protagonisti sono sette, e hanno l'età giusta per immaginare tigri a spasso nei cannetti, piranha negli acquitrini, tesori sepolti nelle discariche. Vivono nell'immaginaria Derry, tutta un gorgogliare di tubi e di eventi sospetti, e non hanno vita facile. A undici anni, credono ciecamente che saranno amici per sempre, che la legge del silenzio non li renderà schiavi e che il bene vincerà ogni male. Ci sono Bill che tartaglia, Ben e i suoi chili di troppo, l'ipocondria di Eddie, le imbarazzanti imitazioni di Richie, le origini ebraiche di Stanley, la pelle nera di Mike, i lividi sotto i ricci ramati di Beverly (l'unica femmina del gruppo, di cui sono inevitabilmente tutti un po' cotti). Si sono trovati complici, stretti contro la prepotenza del prossimo. Hanno esorcizzato la paura ribattezzandola con un semplice pronome neutro: sfidano con l'incoscienza dell'età, così, un male da stanare nelle radici stesse del paese. Da chiamare per nome, coraggiosamente. Come hanno sconfitto la prima volta l'entità primordiale e poliforme, forse piovuta dai confini dell'universo, che adescava le sue vittime con un mazzo di palloncini colorati e omaggiava gli horror fantascientifici in sala negli anni Cinquanta? I Perdenti se lo domandano adesso, cresciuti e con ricordi vaghi, quando una telefonata li richiama dove tutto ha avuto inizio: It si è svegliato, loro sono gli unici a sapere come annientarlo. Anche se hanno un tassello in meno. Anche se crescendo hanno perso la loro alchimia. Anche se rividersi in un ristorante cinese, e fare una conta dei capelli in meno e delle rughe in più, fa sì che il tempo scorra al contrario e che i Barren, quartieri di canali di drenaggio e battaglie di pietre, si parino minacciosamente all'orizzonte. Ma perfino la minaccia sa di malinconia, a tavola, e le emozioni negate riaffiorano.

Allora vai senza perdere altro tempo, vai veloce mentre l'ultima luce si spegne, vattene da Derry, allontanati dal ricordo... ma non dal desiderio. Quello resta, tutto ciò che eravamo e tutto ciò che credevamo da bambini, tutto quello che brillava nei nostri occhi quando eravamo sperduti e il vento soffiava nella notte. Parti e cerca di continuare a sorridere. Trovati un po' di rock and roll alla radio e vai verso tutta la vita che c'è con tutto il coraggio che riesci a trovare e tutta la fiducia che riesci ad alimentare. Sii valoroso, sii coraggioso, resisti. Tutto il resto è buio.

Più del fiato corto per l'inquietudine (trent'anni dopo, proviamo ancora un timore reverenziale), più di una sincera stanchezza sopraggiunta verso l'epilogo (troppo visionario, sbrodolato a tal punto da introdurre la scena di un'orgia rituale di pessimo gusto), di It esperienza densa e infinita, assolutamente da fare, benché sia un altro il Re che amo senza riserva alcuna – ricorderò i sorrisi stupiti di chi si perde e poi si ritrova; la meraviglia nascosta dietro l'angolo. L'angoscia corre, ma una bicicletta soprannominata Silver di più. L'infanzia passa e si dimentica, gli amici mai. E preferirò dimenticare qualche capitolo non indispensabile, io, la fatica al giro di boa, tenendo bene a mente i miracoli di quel candore, il ghigno di una città dannata, le risate che scoppiano contro la paura inconcepibile di morire giovani. It parla di un'epoca, dei riti di iniziazione di qualche estate fa, della tragedia di crescere perdendo l'immaginazione. Quella che rende il mostro reale e affamato. Quella che può trasformare gli inalatori in armi infallibili e far luce oltre il buio delle nostre palpebre abbassate.

Ma in verità i mostri vivono di fede, no? Mi sento trascinato irresistibilmente verso questa conclusione. Il cibo può essere la vita, ma la fonte del potere è la fede, non il cibo. E chi più di un bambino è capace di un atto di fede?

Come i Perdenti, da oggi mi sforzerò di dimenticare anch'io le insidie di Derry. Farò ritorno tra ventisette anni, magari. Quando tornerà l'asma, la balbuzie sfiderà qualsiasi consulto dei logopedisti e le cicatrici dei giuramenti di sangue, scavate sui palmi delle mani col coccio di una vecchia bottiglia di Coca-Cola, sanguineranno nei giorni dei pranzi andati di traverso e dei ritorni a casa. E sarà come vivere per sempre. Laggiù, dove eppure si va per morire.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Peter Gabriel - Heroes


giovedì 17 agosto 2017

Dear Old Mr. Ciak: Che fine ha fatto Baby Jane, J'ai tué ma mère, Beginners, Frantz

[1962] Papà Hudson ha reso Jane una stella del palcoscenico. I boccoli biondi della sua bambina prodigio hanno ispirato perfino una bambola. Molti esemplari resisteranno alll'eclissarsi della notorietà di lei: scalzata dalla sorella rivale, Blanche, che crescendo ha voluto pareggiare i conti. Un incidente, all'apice della gloria, le ha tarpato le ali e spezzato le gambe. Bloccata in sedie a rotella, vive di rendita e delle cure della sola Jane. In un cupo castello dedicato al dio passato, dove non sono ammessi visitatori e in cui, a lungo andare, l'insofferenza miete vittime. Chiudete in una stanza due sorelle che si accusano a vicenda di essersi rovinate la vita. Mettete sullo stesso set due dive sul viale del tramonto, professioniste che fanno di qualsiasi capriccio una questione personale, e buttate via la chiave. Allo scontro tra titani a colpi di battute taglienti sopravviverà la più posata Joan Crawford o l'insuperata Bette Davis? Se la prima è la vittima messa a tacere, vessata e schernita con una crudeltà così esemplare da divertire, l'altra pianifica un impossibile ritorno al passato. L'indimenticabile Jane nasconde topi e passerotti ammazzati sotto la cloche; strega con gli occhi spiritati, lo straordinario sprezzo del ridicolo e il trucco sbavato. Qual è la sorte dei ragazzini bollati anzitempo come promettenti, poi incapaci di mostrarsi all'altezza della situazione? Cos'è stato dei ritornelli di Nikka Costa, del biglietto aereo per Macaulay Culkin, del sesto senso dello struggente Haley Joel Osment? Che fine ha fatto Baby Jane? La domanda te la pone il titolo di un thriller psicologico passato alla storia. Uno di quelli che suscitano reverenza, che recuperi con sessant'anni di ritardo. La scusa perfetta: Feud, la serie antologica che accende i riflettori su una faida che seguì le protagoniste anche fuori dal set. Nonostante il bianco e nero, Che fine ha fatto Baby Jane? non è invecchiato di un giorno. Genitore degenere di qualsiasi Misery non deve morire; figlio tiranno del capolavoro Viale del tramonto; stella fissa. (8)

[2009] Il giovane Hubert condivide un appartamentino kitsch con l'irritante Chantale. A volte sono cane e gatto, altre metà complementari. A detta del giovane, la donna è la persona che più odia sulla faccia della terra. Affermazione forte, ma tutto nella norma: lui è un adolescente scalpitante, lei è una madre che lo ostacola con la scusa di ciò che è meglio per lui. Siamo nella provincia canadese, illuminata a sprazzi dai ninnoli e dai centrini colorati di una casa di bambole; siamo in un film del talentuoso Dolan. Per la precisione, il primo. Lui – attore, autore, regista – aveva vent'anni. L'invidia dovrebbere rendermelo antipatico. Quella, e la consapevolezza di non avere apprezzato pienamente i film che hanno preceduto il suo effettivo capolavoro – il ciarliero Les Amours Imaginaires, il nebuloso Tom à la ferme. Lì c'erano, accanto a un lato visivo comunque potentissimo, un lezioso compiacimento di fondo e molto autobiografismo: tra arte, omosessualità e pop-art, in un duplice ruolo, troppo Dolan per una conoscenza preliminare. Qui, alle radici dell'enfant prodige, è presente di tutto un po'. Ma, benché molto acerbo, ho trovato J'ai tué ma mère un'opera prima fresca e sincera. I rapporti interpersonali al limite, la dolcezza e le urla, i piatti infranti e gli aforismi da incorniciare. Anche agli inizi, una genitrice che somiglia proprio a Anne Dorval: tenuta a distanza, contestata, tanto da nascondergli l'esistenza di un fidanzato non per timore di non essere accettati, ma per puro dispetto; una madre nevrotica, ispiratrice di continue invettive e instancabili recriminazioni. Accanto a lei, un capriccioso e imberbe Dolan: all'occorrenza ottimo attore e pessimo figlio unico. Uccide la madre nei temi in classe, dicendosi orfano. Nei suoi sogni segreti, si inseguono all'ombra di un bosco: lei, nel clou di un curioso ma delicato complesso di Edipo, indossa l'abito da sposa. Hubert è un adolescente con il mondo contro e in cerca di se stesso, Chantale è una mamma chioccia che non si accorge di soffocarlo per paura di un ulteriore abbandono. Come loro, tutti i figli imperfetti e tutte le mamme single. Come Dolan, già in tempi non sospetti, nessuno. Dietro l'ingannevole confessione di un presunto matricida, J'ai tué ma mère è una storia vera. Lo schizzo in potenza che precede il disegno di Mommy, indimenticabile atto. (7,5)

[2010] Oliver ha tempo a sufficienza per fare un bilancio. Vive solo, il suo lavoro da illustratore lo tiene impegnato ma non troppo. Gli fa compagnia un Jack Russel e il pensiero di un'affascinante attrice francese, che alle feste mascherate ha l'aria di essere infelice tanto quanto lui. Il protagonista ha scelto di travestirsi da Freud. Per uno scherzo del subconscio o per precisa volontà, chissà, la maschera dello psicanalista la dice lunga sui problemi personali di Oliver. Su una famiglia strana e sfortunata, perfino più delle nostre, che si è decimata nel giro di pochi anni: prima è morta la madre, portata via da un tumore; poi l'ha seguita a ruota il padre, con lo stesso male e un clamoroso outing prima di andarsene. L'arzillo genitore ha approfittato della vedovanza, del poco tempo a disposizione, per uscire allo scoperto: si è avvicinato alla storia della comunità LGBT e ai siti di appuntamento; ha incontrato un personal trainer infedele ma presente, che è stato con lui fino alla fine dei suoi giorni. In Beginners, autobiografia agrodolce sotto forma di commedia indipendente, c'è un Ewan McGregor – bravissimo, al solito – in fase di elaborazione. Medita, ricorda, si innamora dello spirito girovago della Laurent. Fa respiri profondi e passeggiate al parco e nei corridoi degli hotel. Per essere sempre in fuga, d'un tratto si fossilizza a riavvolgere il passato. Mette radici in una camera d'albergo con la moquette a terra, accanto a una sconosciuta. Pensa alla scoperta della tenerezza e della sessualità di Cristopher Plummer, ma senza rancore: lo compiange, un po' imbarazzato all'idea di gestirne il disordine postumo e il compagno in lutto. Confronta il passato e il presente, e c'è spazio per gli schizzi, le fotoricordo e gli sprazzi di genialità molto cari al cinema del già promettente Mike Mills (quest'anno apprezzatissimo con 20th Century Women, gioiello in sordina). Ci sarà spazio anche per l'amore, dopo aver preso atto che quello tra i suoi genitori è stato una sciarada ma non proprio tutto, eppure, è perduto? Vedasi la leggerezza di Plummer: pienamente se stesso a settantacinque anni. Vedasi gli adorabili difetti della nostra lei: amante dei libri usati e delle case vuote. Come il titolo rivela, i protagonisti sono tre individui alle prime armi. Impreparati a voltare pagina – a convivere in pace, a morire in silenzio –, ma non del tutto inadatti. Plummer deve avere fatto sua la lezione alla scuola serale. Assente ma presente, dà ripetizioni sentimentali a principianti in attesa di ravvedersi e di rivedersi. Se l'amore è questione di famiglia, meglio condividerne i segreti. (7,5)

[2016] A proposito di registi francofoni che adoro: posto anche a Ozon. Il parigino che viene dal mondo della moda e spazia con nonchalance dal thriller alla commedia musicale, è stato a Venezia con l'applaudito Frantz. Un melodramma postbellico che rinuncia coraggiosamente al colore e si rifà a una pellicola di Lubitsch. In un paesello tedesco del primo Novecento, una vedova di guerra piange il promesso sposo. Sulla sua tomba, un giorno, trova un fiore. A depositarlo, un soldato francese. Adrien parla di Frantz, ma non come farebbe un semplice amico. Fa breccia nei cuori dei genitori del defunto, seduce l'anticonformista Anna. Poi sparisce, nel clou di una rivelazione, e le lettere inviate a lui ritornano al mittente. Chi era quel forestiero per il soldato caduto? Cosa si nasconde nei suoi modi gentili, nelle sue risposte vaghe, nello sguardo altrove? Come l'ultimo Dolan, anche Ozon sceglie di allontanarsi dalle piste consuete. Restano integri il mistero, il fascino, la splendida cura della regia. A malincuore, dopo una bellissima parte introduttiva, si fanno presto i conti con ciò che manca. Frantz è sobrio, lento, raffinatissimo. Il regista cede al richiamo di un film diverso dal solito. A un omaggio classico, languido, che riflette sulla verità e il perdono. Alla trama si rimprovera una certa piattezza, purtroppo, e sono le bugie e il ricordo a colorare magicamente i concerti privati del sempre bravissimo Niney (brutto ma bello, come solo i francesi possono) e i sorrisi della raggiante Beer. La pacatezza del bianco e nero ammorbidisce le passioni proibite, l'impostazione rigorosa abbraccia un'estetica splendida e trascura il coinvolgimento. Le cose belle, però, piacciono. E la classe rètro dell'etereo Frantz – un Ozon a metà, sprovvisto del suo eros e della sua ambiguità – incanta. Lo si apprezza, se non altro, per la Grande guerra raccontata dal punto di vista dei sopravvissuti a una generazione perduta, rievocata attraverso le inimicizie tra tedeschi e francesi: vicini di casa, eppure rivali. Finito il conflitto, finirà l'odio? E la vedovanza di una ventenne che, un po' come noi, si aspettava dall'elusivo amico di Frantz l'enigma, la svolta, l'amore ? (6)

lunedì 14 agosto 2017

I ♥ Telefilm: Speciale Comedy #2

Prendere ogni affermazione alla lettera, non capire gli stati d'animo altrui, spiazzare i nostri interlocutori con frasi brusche e rare manifestazioni d'affetto. L'armatura delle felpe col cappuccio, il pensiero della normalità. Sam, diciotto anni, è un libro aperto. Non coglie le sfumature. Candido, non ha segreti. La sua famiglia ci ha fatto il callo: da bambino, gli è stata diagnosticata una forma di autismo ad alto funzionamento. Com'è vivere l'adolescenza sentendosi diverso? Cosa significa dividere la casa con un ragazzo fragile, irritabile, dolcissimo, che suo malgrado monopolizza le attenzioni? Keir Gilchrist, già adorato in United States of Tara e It's a Kind of Funny Story, è un tenero Forrest Gump alle prese con il pensiero dello scioglimento della calotta polare e del primo amore: cotto della sua psicoterapeuta, prigioniero del suo mondo su misura, vuole far pratica con una coetanea che lo sopporta e supporta. La sorella maggiore, l'irresistibile Brigette Lundy-Paine, pensa a costruirsi una vita altrove (ha vinto una borsa di studio, ha un fidanzato) ma, fedele al nido, poi se ne pente. Nel frattempo, una Jennifer Jason Leight sull'orlo di una crisi di nervi tradisce papà Rapaport: l'amante, un giovane barista, non sa di Sam e dello stress che comporta. Chi può giudicarla se, per una volta, desidera sentirsi una donna e basta? Atypical, teen comedy in otto puntate sbarcata su Netflix a metà agosto, e non senza controversie, è la storia di una famiglia ordinaria alle prese con drammi e traguardi straordinari. Accusata da qualche testata americana di utilizzare l'autismo come spunto per risate facili, la compagnia di Atypical in realtà mi è parsa godibile, veritiera, delicata – lo confermano, in giro, le ottime medie e un cast vincente, senza un viso o una sottotrama fuori posto. La cosa davvero bella, accanto a un capomastro estremamente facile da voler bene, è che chi in cerca di una via di fuga, chi della felicità, sempre e comunque bene attenti a non pestarsi i piedi a vicenda, i membri della famiglia di Sam sono uguali noi. Se più atipici, be', solo sulla carta. (7,5)

Si erano conosciuti e piaciuti en passant. Quarantenni. L'idea che quella potesse essere l'ultima possibilità per diventare genitori aveva fatto sì che, galeotta una gravidanza indesiderata, diventassero una famiglia. L'amore era arrivato solo dopo. E con quello i figli: nella seconda stagione, ambientata a qualche anno di distanza dalla prima, ben due. Cos'è di Sharon e Rob adesso? Li avevamo lasciati in crisi. In un momento di riflessione, brilla, Sharon aveva fatto qualcosa con qualcuno. Neanche Rob, licenziato perché accusato ingiustamente di molestie sessuali, era senza macchia. Con la coscienza un po' sporca e il broncio, nella terza stagione di quel gioiello di umorismo nero che è Catastrophe ci si gode il piacere, dopo tanto rumore, di fare all'amore (questa volta con qualche precauzione). Non mancano i ripensamenti, le ricadute colpose, le emozioni grandi e piccole. Gli amici stretti e i parenti serpenti – genitori malaticci, fratelli scapestrati – danno qualche inevitabile imbarazzo, ma fanno compagnia. Il resto è un copione grossomodo invariato, e per questo vincente. Catastrophe non è la solita comedy. Somiglia tanto a un bagno di realtà. Alle relazioni comuni, ai disastri che ci combina l'amore, a noi spettatori. Romantici, con il dente avvelenato e il copyright sull'unicità. (7,5)

L'incipit di The Mick è tutto un programma. La protagonista, troppo in là con gli anni per giocare a fare la vandala, si fa bella tra le corsie di un supermercato – lavandosi e profumandosi con i loro prodotti, gratis – per poi scappare fuori senza pagare. Usare il prossimo, per Mickey, è un'arte. Così, un giorno, si presenta a casa della sorella maggiore – una che si è accasata con un tizio ricchissimo, madre appagata, organizzatrice di feste esclusive. L'aperitivo a scrocco però si conclude con un colpo di scena. La polizia arresta i padroni di casa e Mickey, suo malgrado, si trova a fare da tutrice a tre pesti di età diverse: una ragazza ribelle, che cambia fidanzati e hobby a giorni alterni; un adolescente convinto di poter comprare tutto e tutti, perfino l'amicizia; un bambino adorabile e assurdo, con il pallino per la piromania, l'omicidio e gli abiti da donna. Scorretta, volgarotta e nerissima, la comedy con l'ottima Kaitlin Olson diverte impunemente e ha macchiette – la domestica Alba, lo sfortunato fidanzato Jimmy – che sono tra i suoi punti forti. I bambini rischiano di diventare mele marce, ma tu ridi. Qualcuno ci lascia le penne, ma tu ridi. Qualcuno chiamerebbe gli assistenti sociali, il Telefono Azzurro: io, in poltrona, aspetto già la seconda stagione. The Mick è Io e zio Buck in chiave femminile. Tutti insieme appassionatamente che scopre il sarcasmo. Le famiglie convenzionali, la buona educazione, in fondo a chi piacciono? (6,5)

Casta per scelta, una giovane donna si scopriva in dolce attesa per l'errore della ginecologa. Quanto poteva durare questa barzelletta su una moderna immacolata concezione? I risvolti impossibili e la simpatia di Jane The Virgin conquistavano pubblico e critica nella prima stagione. Il segreto della comedy surreale che faceva furore durante la stagione dei premi: indefinibile. Vuoi l'irrinunciabile voce narrante, vuoi un cast centratissimo di volti semisconosciuti, vuoi i toni da telenovela venezuelana tra parodia e guilty pleasure. La seconda stagione, ripetitiva e diluita, non faceva passi né avanti né indietro: una sufficienza stiracchiata e qualche dubbio. Sul rinnovo, sul proseguire oppure no. Lo scorso autunno mi ha portato consiglio. Jane Gloriana Villanueva torna in forma smagliante: mamma, moglie, scrittrice pubblicata. Ha fatto la sua scelta, anche se i poligoni amorosi sono lontanissimi dal risolversi, e finalmente si concede una notte di passione dopo una quarantina di puntate: il principe azzurro ha dovuto aspettare. Autoironico, pulito e un po' malizioso, Jane The Virgin intrattiene con triangoli, paradossi e intrighi consueti. Si decideranno mai i genitori della ragazza del miracolo a dirsi di sì? Nonna Alba imparerà a lasciarsi andare? Quanti omicidi, quante doppie identità, al Marbella? In venti puntate pienissime e spassosissime, a sorpresa qualche brivido inaspettato. Una perdita improvvisa, una tragedia ingiusta, una Gina Rodriguez più brava che mai. Quarta stagione in arrivo, un posto vuoto a tavola, bizzarie e tragedie di una vergine incinta che anche non più vergine, anche non più incinta, regala gioie. (7)

Nonostante un amore nato solo a metà della prima stagione, le follie e i ritornelli di Crazy ex-girlfriend erano stati tra le sorprese più clamorose del piccolo schermo, lo scorso anno. Dov'era saltata fuori Rachel Bloom? Rinnovato a sorpresa, Crazy ex-girlfriend è tornato alla carica. Rebecca, dolce stalker, ha abbandonato New York per la provincia. Nel finale di stagione, il famoso Josh la ricambiava. Dopo una notte di passione, però, affiorava il dubbio: grande amore o lavaggio del cervello? In mesi in cui il musical è tornato sulla bocca di tutti, Crazy ex-girlfriend ritorna e prendo poco a poco. Josh, messo con le spalle al muro, tentenna. Il suo rivale in amore va via, mentre in ufficio se ne affaccia un altro, turbato e affascinato dalle scollature della procace Rebecca. Paula, migliore amica ad honorem, si iscrive all'università, scopre il tradimento del marito, si allontana. E, a sorpresa, si formano nuove squadre al femminile, con la protagonista e la temibile Valencia costrette a collaborare per un bene comune. Dopo un momento di titubanza iniziale, i motivetti e i balli della Bloom – imperdibili le parodie osè di Thinking out loud e Diamonds are a girl best friends – conquistano, cambiando il giusto le carte in tavola. In un finale, soprattutto, in cui tutto è in forse e i progetti per una terza stagione ancora più assurda, ancora più folle, si palesano all'ombra di fiori d'arancio. (6,5)

venerdì 11 agosto 2017

Recensione a basso costo: Il giardino delle farfalle, di Dot Hutchison

| Il giardino delle farfalle, Dot Hutchison. Newton Compton, € 9,90, pp. 336 |

Le chiama così, le Farfalle. Giovani, leggere, bellissime. Hanno vestiti eleganti lunghi fino ai piedi, come ninfe di un quadro di Botticelli, e uno scollo vertiginoso sulla schiena a rivelare enormi ali d'inchiostro, dipinte durante sedute lunghe e dolorose. Sono tante, e hanno dai sedici ai ventuno anni. Poi muiono. Quella è la loro natura: spegnersi in fretta, all'acme dello splendore. Sono prigioniere in una serra di dimensioni straordinarie, in cui zampillano cascate e ruscelli. Nei corridoi, intrappolate sotto un vetro e cristallizzate nella resina, le Farfalle assassinate al compimento del ventunesimo anno d'età. Il loro aguzzino, detto Il Giadiniere, le tatua e ne abusa, spartendo il suo harem segreto con i figli – il primogenito, ormai fuori controllo, e un giovane violinista combattuto tra giustizia e senso di appartenenza.

Le creature bellissime hanno vite molto brevi, così mi aveva detto al nostro primo incontro. Lui se ne assicurava e si sforzava di dare alle sue Farfalle una strana specie di immortalità.

A capo del gruppo, Maya. Che è abbastanza forte per tutte. Che ha dimenticato il suo nome e, all'esterno, viveva un'esistenza non meno malsicura e angosciante (due genitori litigiosi, un'appariscente nonna tassidermista, le attenzioni degli adulti da schivare). Che, all'inizio del romanzo, siede nella sala interrogatori di una stazione di polizia. Le mani bendate, i modi accattivanti e una storia da raccontare al poliziotto buono e al poliziotto cattivo: una storia che, a pagina uno, sappiamo essersi già conclusa. Come si scappa dal labirinto di un ricchissimo Minosse? Qual è il ruolo della sopravvissuta, elusiva e seducente? Se non fosse stato per il consiglio mirato della mia amica Susi, Il giardino delle farfalle mi sarebbe sfuggito. Colpa dei romanzi Newton Compton che, con il copia-incolla, promettono tutti “Un grande thriller”. Colpa di un altro retro di copertina che, senza fantasia, annuncia “Il thriller più terrificante dell'anno”. Nel romanzo della sorprendente Dot Hutchison – una prosa affascinantissima e tutto un mondo di orrori da architettare – c'è del buono davvero, nonostante gli strilloni esagerati e tutt'altro che attraenti delle fascette promozionali. Insolito romanzo di genere, ha una costruzione impeccabile e una scrittura che regala immagini memorabili, di violenza e armonia: vedo nitidamente davanti agli occhi, a distanza di giorni, questa corte di ragazze in cattività, che rispettano le gerarchie del Racconto dell'ancella e si danno alle confidenze intime di un film di Sofia Coppola. Artefice dell'incantesimo, una narratrice che sembra non raccontarla giusta.

I miei segreti sono vecchi amici; mi sentirei una pessima amica se li abbandonassi ora.

Maya pettina, rassicura, coordina. Recita a mente Edgar Allan Poe e i tragediografi greci, se sottomessa alle voglie del Giardiniere. Irretisce Desmond, erede da plasmare. Confonde gli agenti di Polizia e il suo lettore. Cosa non dice? Le risposte non sono delle più impensate: in ballo, a un certo punto, sembra esserci meno del previsto. Ai colpi di scena – canonici ma indispensabili, stando a me – Il giardino delle farfalle preferisce infatti una narrazione convoluta e un epilogo risolutivo, dalla morale femminista, in cui le donne oppongono ostinata resistenza. Le farfalle premono contro la teca e l'eventuale schianto, la pioggia di vetri in frantumi, fa meno rumore del resto – così scenografico, così originale nel suo dire e non dire. Restano le schegge insanguinate. L'inchiostro già penetrato sottopelle. La crisalide, lasciata sfitta per un volo lungo più di un giorno soltanto.
Il mio voto: ★★★★ -
Il mio consiglio musicale: Cloves - Don't Forget About Me

martedì 8 agosto 2017

I ♥ Telefilm - Speciale Comedy #1

Perché non l'ho visto prima? La domanda sorge da sé, spontanea, alla fine delle venti puntate che costituiscono prima e seconda stagione di Master of None. Una comedy Netflix newyorkese, premiatissima, che ha attirato la mia attenzione più per la partecipazione di una guest star italiana che della presenza fissa agli Emmy – un sorriso di Alessandra Mastronardi può tutto, ebbene sì, anche giustificare una maratona clandestina dei Cesaroni e far capitombolare all'unisono i giornalisti di IndieWire. Tocca aspettare la seconda stagione, l'arrivo in una Modena in bianco e nero che ammicca a Ladri di biciclette, per scoprirla innamorata insoddisfatta del solito Scamarcio e impiegata in un famoso pastificio della città. L'arrivo dell'adorabile Dev, americano in cerca di se stesso, metterà tutto in forse – tra balli già cult mentre fuori cade la neve, canzoni di Mina (Un anno d'amore, stupenda), passeggiate lunghissime che sembrano parte della perfetta romcom. Andiamo con ordine però. Partiamo dalla prima stagione. Dove il sorprendente Aziz Ansari – che recita, scrive e dirige, il tutto con innata simpatia e buon gusto – è un aspirante attore che non si accontenta più di apparire qui e lì. Sogna un ruolo da protagonista. Rifugge il luogo comune dell'indiano tassista, gestore di minimarket, vittima sacrificale. Lo supportano la famiglia, amici simpatici quanto lui (su tutti Arnold, gigante abbracciatore) e dosi generose di pasta fatta in casa. Si parla di religione, generazioni contro, matrimonio e convivenza. Si beve, si gironzola, si mangia. Si vola in Europa, infine, con il cuore in frantumi e all'inseguimento di un sogno: pasta all'uovo e l'amore impossibile per la Mastronardi, bellissima trentenne provata da un indimenticabile autunno a New York. La cucina, lì, è un'altra cosa, e ispira progetti alternativi: quant'è lungo il passo da attore a presentatore di un talent ai fornelli? Quanto è difficile non inciampare nei cliché – compresi quelli sugli imperituri poligoni sentimentali? Master of None è un gioiello intelligente, chiacchierato, originalissimo nella struttura. Una Grande Mela così viva, inoltre, non la si vedeva dai film del giovane Allen. E' uno di quei film indipendenti che tanto adoro, ma a puntate. Per questo più godibile, per questo più bello ancora. Sul reinventarsi e, da anonimo figurante, trasformarsi in protagonista della propria vita – conquistando la bella, brindando, lasciandosi andare. Sull'insostenibile leggerezza, finalmente, del non fare l'indiano. (8)

Timido e sdolcinato, il protagonista di Scrotal Recall si portava a letto un mare di ragazze. La comedy britannica aveva del geniale, davvero: Dylan, dopo aver contratto una malattia venerea, chiamava una ad una le sue partner passate per metterle in guardia. Ogni puntata era dedicata così a una cotta, a una sbandata: a storie lunghe o corte che l'avevano cambiato nel profondo. Tra una stagione e l'altra sono passati quasi tre anni: troppi, se l'attesa non è stata ripagata a dovere. La serie passa a Netflix e cambia titolo. Il novello Lovesick, in realtà, di nuovo non ha niente. Stanca prosecuzione della stagione introduttiva, ha gli stessi protagonisti e una struttura immutata. A lungo andare, se qualcosa non si evolve, anche le compagnie più piacevoli stancano. E Lovesick o Scrotal Recall che dir si voglia, da me molto atteso, lo si guarda a cuor leggero, ma questa volta poco coinvolti. L'ho visto sotto Natale e ne parlo solo ora. Più per riempire un post infrasettimanale che per voglia. Più per dirvi che è la copia carbone della prima stagione, ma che l'altra – vuoi l'effetto sorpresa ed episodi schematici, che non si prestavano affatto al binge watching – era stanamente un'altra cosa. (5,5)

Scoperto qualche anno fa, Please Like Me era stato un gran recupero. Le disavventure di Josh avevano i colori pastello di Anderson e un umorismo differente, australiano, da scoprire puntata dopo puntata. Qualcosa, come in una di quelle commedie dove succede tutto e non succede niente, mi era venuta a noia col tempo. Episodi troppo hipster, troppo ripetitivi, troppo vuoti. Di buono: il talento del factotum Josh Thomas, capace e autoironico, anche se non particolarmente simpatico a detta del sottoscritto; la sigla da fischiettare, con tanto di cani e prelibatezze al seguito; i coinquilini d'oro e gli adorabili genitori in crisi esistenziale. Please Like Me, a sorpresa, si è concluso con la quarta stagione lo scorso dicembre – a sorpresa, dico, anche se è una stagione che non sorprende, perfettamente in linea con le ultime. I fidanzati sperimentano e si rendono conto che c'è di meglio in giro. Gli amici dicono di volersi trasferire: cose che capitano, crescendo. Le mamme bipolari, in attesa di guarire, minacciano lacrime. Josh, come Jack Frusciante, esce dal gruppo. Ci lascia così. Tra nevrosi, carineria e presenze fisse, ma senza rammarico. Forse ne sentirò la mancanza fra un po', ma dico che va bene così. Con un sorriso amaro e un ritornello da fischiettare, per ricordare che staremo meglio sulla scia di una canzone. (6)

Liza Miller, divorziata e madre di una figlia al college, aveva quarant'anni e scarse speranze di trovare lavoro. Entrava in una casa editrice spacciandosi per una ragazza ben più giovane. Quanto mai poteva durare? Anni e anni dopo, ci credono ancora tutti. Precisamente, la storia va avanti da tre stagioni. E Younger risulta sempre carinissimo, di gran compagnia, nel suo non essere niente di che. Materiale da commedia hollywoodiana, uno dice. Novanta minuti di sorrisi e cose non dette, e poi? E poi ci sono nuovi titoli da lanciare in casa editrice, seguendo la moda dei romanzi erotici scritti sotto pseudonimo e quella non meno dilagante del memoir; c'è un giovane tatuatore che vorrebbe impegnarsi sul serio, che chiede un figlio, ma a quarant'anni (anche se se ne dichiarano la metà) ci si pensa su mille volte prima di fare un passo importante; c'è che il castello di carte di Sutton Foster rischia di vacillare. Younger si difende bene. Quel telefilm da guardare con un occhio solo, mentre fai altro, è lieve e pulito. Le bugie hanno le gambe corte. Quelle della Foster, al contrario, sono lunghissime; come loro, la lista da spuntare degli indaffarati sceneggiatori. La quarta stagione, zitta zitta, è già qui. (6,5)

Se me lo chiedessero oggi, forse risponderei che Mom è una delle sitcom più valide su piazza. Dopo quattro anni, sulla CBS restano i sorrisi, i casi umani, il solito posto alla solita tavola calda. La serie, nell'arco di altri ventidue episodi, racconta la convivenza forzata di due disperate: mamma e figlia, separate dal rancore e unite poi dalle ristrettezze economiche. Dicono di non ricordare gli anni Novanta: li hanno bevuti e fumati. Hanno figli che preferiscono strare altrove, nel caso di Christy, e un'acuta sindrome di abbandono spostandoci alla scapestrata Bonnie. Si sono disintossicate insieme. Non saltano una riunione degli alcolisti anomici, si danno addosso. La prima studia Giurisprudenza – in un appuntamento al buio, in un episodio, conosce anche il marito Chris Pratt –, l'altra ha scelto di non voltare le spalle all'amante in sedia a rotelle. Si spera per tutto il tempo, ma il sogno americano non è cosa da tutti. E con quel misto di amarezza e sarcasmo, allegria e tenerezza, Mom si rivela al solito una sitcom più profonda di tante – qui si parla di stupro, aborto e adozione, evasione fiscale, senza sacrificare mai la leggerezza. Quelle risate registrate così odiate, all'inizio, ci danno invece indicazioni importanti. Dicendo che possiamo imitarle, se ci va, e ridere a nostra volta. Perché tragedia e commedia, in fondo, non dipendono che dai punti di vista. (7)

venerdì 4 agosto 2017

Mr. Ciak: Spider-Man: Homecoming, Slam, Covenant, Una, 2:22

Non inizierò nella solita maniera. Quando mi hanno proposto Homecoming non ho protestato. Spider-Man, infatti, fa eccezione in tutte le salse. Sentivo come mie le sfortune, la timidezza e le porte in faccia di Peter Parker ancora prima di incrociare, crescendo, avversità, musi lunghi e sonori no. Certo, da buon nostalgico, il Peter che intendo io è quello della trilogia di Raimi – checché se ne dica, però, ho sempre trovato generosissima dal punto di vista emotivo la serie tronca con Andrew Garfield. Fa eccezione, a modo suo, anche l'adolescente di Jon Watts: meno me, meno solitario, ma tre lustri e cinque film dopo non chiedevamo altri copia-incolla. Il nostro eroe di quartiere, sprovveduto e pasticcione, si mette sulla strada di un contrabbandiere di armi iper-tecnologiche. In ballo meno del solito, in questo reboot umoristico e ben scritto, a confine con il teen movie – da cui prende in prestito gli amori non corrisposti, i buffi amici nerd e, purtroppo, quell'esagerazione tutta americana di inserire minoranze etniche a sproposito in nome del politicamente corretto (che passi Zendaya nei panni dell'amata, ma non un Flash Thompson guatemalteco e sprovvisto del physique du role). La gara di decathlon o acciuffare i cattivi? Il prom o sventare un piano criminale? Homecoming ti precede, sa dove andrai a parare, e si difende con autoironia: i commenti a proposito della bella zia Marisa Tomei non si contano; il protagonista, per molti troppo giovane, è ribattezzato “Bimbo ragno”; Keaton ritrova le ali dopo Birdman ma coglie in contropiede, sul finale, con un gustoso colpo di scena. Riuscito apprendistato per entrare tra gli Avengers e nelle grazie di spettatori scettici, l'ennesimo Spider-Man sceglie la spensieratezza dell'adolescenza e tutto l'entusiasmo di cui Tom Holland è capace. Da grandi poteri, questa volta, piccole responsabilità. Ma, a quindici anni, sarebbe un peccato bruciare le tappe. (7)

Samuele crede nello skateboard e nell'amore. Quando conosce Alice, capisce che è quella giusta. Ancora al liceo e con un futuro che spaventa, fa i conti con il diventare genitore. Questione di disattenzione. Questione di genetica: i suoi, infatti, l'hanno avuto alla stessa età. Darsi alla fuga, come suggerisce l'esilarante papà Marinelli? Provarci, come consiglia mamma Trinca? L'esordiente Ludovico Tersigni, con una spontaneità che non si insegna, resiste: non vuole che anche quel bambino, come lui, si senta un errore di gioventù. Ispirato all'omonimo romanzo di Nick Hornby, Slam è una commedia adolescenziale ma non troppo; un altro volto felice di un cinema che desidera dedicarsi a progetti nuovi. Le gravidanze indesiderate, un protagonista dubbioso, Roma: stessi temi del recente Piuma. Cos'ha Slam che il teen movie di Johnson non aveva? Una scrittura fresca e intelligente, che conserva la voce narrante di Tony Hawk e si diverte un mondo a giocare con i salti temporali della struttura (Sam si sveglia, a volte, e sono passati mesi o anni: deve rimettersi al passo e scoprire, in fondo, che non ha nessun rimpianto); un cast perfetto, di giovani leve e promesse mantenute; i toni semiseri, i dilemmi realistici, che rendono gli esiti non così scontati. Dirige con energia Andrea Molaioli, braccio destro di Moretti e autore del celebrato La ragazza del lago, e si vede. Produce Netflix. Certo: avremmo voluto più Marinelli e meno finali su finali; una durata più contenuta. Certo: sorridenti e leggeri, spensierati ancora per poco, ci si getta a colpo sicuro lungo una rampa. Si salta in alto, magari si vola. E si atterra in piedi, in un rumore familiare di ruote e risate. (6,5)

La serie di Alien è cara a una generazione che non è la mia. Negli anni mi sono dedicato al recupero di capitoli originali, sequel e spin-off, senza però mai farne miei personali oggetti di culto. Covenant, a voler essere precisi, è il sequel di Prometheus: un Ridley Scott non al suo meglio, una mitologia confusa e poco accattivante ma, con il senno di poi, non il disastro annunciato. Lo stesso, purtroppo, non vale per la regata fantascientifica arrivata in sala la scorsa primavera. Di Convenant dicevano il peggio e io non ci credevo. La solita critica, poco convinta in partenza. I fan dell'indimenticabile Ripley, difficili da rabbonire. Avevano ragione loro: Covenant è brutto. Perché girarci attorno? In due ore che si avvertono tutte nella loro pesantezza, i soliti astronauti risvegliati prima del tempo cercano tracce di vita umana sul pianeta in cui i personaggi del film passato, ovviamente già belli che rimossi, hanno lasciato lo scalpo. Un team anonimo e senza leader carismatici rischia di portare a bordo la solita piaga contagiosa. Alla piattezza della prima mezz'ora, rispondono qualche sprazzo di violenza e un doppio Fassbender – e per quanto sia bravo, per quanto faccia comunque piacere vederlo all'opera, dispiace quest'anno la scelta di progetti inutili quanto o più di questo. Covenant annoia e irrita. In giro, ha trovato le cattive parole che merita: il blockbuster che si atteggia a cinema d'autore e non riesce a essere né una cosa né l'altra, infatti, è un mostro della peggior specie. Freddarlo al mio "via". (4)

Una. Non come l'articolo indeterminativo, ma come il nome di battesimo di una donna che, un giorno qualsiasi, guida fino a una fabbrica in cui si trema per i tagli al personale. Deve incontrare un uomo, mostra una foto. Lui ha cambiato identità, è sposato, ma il destino l'ha rintracciato ugualmente. I due hanno una questione in sospeso. Un tempo sono stati al centro di un amore sconveniente, di un'ossessione che perdura. Quando lei aveva tredici anni e lui, adulto, era il suo vicino di casa. Di cosa parliamo quando parliamo di pedofilia? La bambina ingenua e l'orco cattivo, con la cronologia del computer piena di brutture. Ci figuriamo la manipolazione, lo stupro. E se quel vicino, condannato a quattro anni di carcere, non avesse mai guardato un altro innocente con malizia? E se la bambina, infatuata ma lucida, avesse voluto seguirlo in una fuga volontaria oltre la Manica? In Una, dramma fedelissimo alla propria natura teatrale, il presunto aguzzino incontra la presunta vittima. L'aggettivo, per dire che sfugge ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Per dire che agli occhi della giustizia c'è un colpevole ma non un cattivo, e che il faccia a faccia tra questi strani amanti intriga e destabilizza. Camminano come animali in gabbia, lungo un confine impercettibile. Non si sa cosa vogliano. Soprattutto, non si sa con chi schierarsi. Il tema, spinoso, è discusso con ambiguità. Così tanta che si resta in piedi, confusi, all'insegna di un finale sospeso di quelli che piacciono a me. Parlano fuori dai denti di sesso, e arrivano a un passo così dal farlo. Si rimproverano di essersi rovinati la vita. Tentano di andare avanti, di confrontarsi, perché non si sono mai mossi di un passo dal giorno del processo – lei sopraffatta da una mamma chioccia, lui sempre sul chi va là. Chi dei due ha avuto la peggio? Di cosa la fragile e seducente Rooney Mara, per molti in odore di nomination, accusa un contrito Ben Mendelson: mi hai rubato l'adolescenza, o perché mi hai lasciato sola? (7)

New York. Dove le luci dei grattacieli sono più numerose delle stelle. Dylan crede di poterle leggere. Vede schemi ovunque. Portano a Grand Central; a un balletto in cui conosce Sarah, gallerista nata il suo stesso giorno. A cosa vogliono condurlo le simmetrie? Cosa succede quando l'orologio fa il suo giro e, sulla città, una stella muore? Thriller romantico dagli spunti suggestivi, 2:22 crea una piacevole suspance che si rivela disattesa solo in parte. Più modesto nell'architettura che nella resa, il film sembra poggiarsi su quei paradossi temporali, su quella fantascienza discreta di viaggi nel tempo e amori a scorrimento veloce, che da queste parti trovano sempre un angolino tutto loro. Più Storia d'inverno che Premonition, più sospiri passeggeri che sceneggiature a orologeria, il boy meets girl a incastro ha protagonisti belli in modo assurdo e un triangolo sentimentale che non convince, per l'improponibile taglio di capelli del terz'uomo e l'andare a puntare tanto, se non tutto, su un melodramma in rewind. In 2:22, il ticchettio e le scie chimiche portano su scene del crimine passate, teorie di eterni ritorni, coincidenze che fan parlare di reincarnazioni. Credi che il colpo di fumine sia una storia già scritta? Credi che il destino abbia un piano alternativo per te e per lei, o che il futuro sia tabula rasa? Poco accattivanti ma sufficienti le risposte. Scontato, infatti, che due come Huisman e la Palmer, ora e per sempre, si somiglino e si piglino. Senza additare i déjà vu della sceneggiatura: semplicemente, è selezione naturale. (6)

mercoledì 2 agosto 2017

Recensione: Ritrovarsi a Parigi, di Gajto Gazdanov

|Ritrovarsi a Parigi, Gajto Gazdanov. Fazi Editore, € 15, pp. 155 |

Pierre è un uomo mediocre. Realizzarlo l'ha fulminato, anni fa, al cospetto delle meraviglie del Louvre: una perfezione a cui uno come lui, né particolarmente prestante né particolarmente intraprendente, sa di non poter ambire. Omino abitudinario e laborioso, contabile per inerzia, un giorno osa: accetta la proposta di un amico giornalista di seguirlo in campagna. Attorno a Parigi, nuvole temporalesche e le rovine della Seconda guerra mondiale. Questo agosto diverso, questo strappo alla regola che somiglia tanto a un'avventura, lo spinge a intraprendere un piccolo viaggio in treno – tra una fermata e l'altra, pensa a un papà morto di sogni irrealizzabili, a una mamma di cui si è preso cura fino allo stremo, ai pettegolezzi su una zia piena di amanti facoltosi – e a sposare la causa della misteriosissima Marie. Una giovane senza identità e senza memoria, infangata fino alle ossa, che infesta il bosco come uno spiritello: la paragonano a un animale ferito, che morde e si lascia morire in solitudine. Gli alberi si confondono con le nuvole. Il sole riaffiora. Gli animali e gli insetti fanno tremare gli steli d'erba; cantano. La natura è grande, realizza Pierre. E lui?

Io e lei diamo certamente un senso diverso alla parola “miracolo”. Per quanto mi riguarda, non è qualcosa che può prodursi, ma un fenomeno che ci sembra inconcepibile perché ne ignoriamo la natura e le cause. Ma poco importa: qualunque cosa si pensi, è accaduto un miracolo.

Nonostante ci si lasci volentieri ingannare dal fascino fumoso della copertina, Ritrovarsi a Parigi non è una storia d'amore. Va oltre, eppure resta fermo immobile. Lì, tra l'altruismo e l'egocentrismo, tra l'affetto e la bontà. Quel “ritrovarsi”, più che a un rendez-vous in un caffè del centro, allude a una presa di coscienza. Al ritorno alla vita e alla ragione. Gajto Gazdanov, autore novecentesco riscoperto all'indomani della sua scomparsa, ha un cognome difficilissimo, russo, ma è francese d'adozione. La cosa si nota a occhi chiusi. Tra le pagine prevalgono la sua anima parigina, malinconica ma ottimista. Una joie de vivre invidiabile perché mai sfacciata. Succede, infatti, che Pierre porta Marie a casa con sé. Si prende cura di lei, che prima dell'amnesia aveva un altro nome, un altro uomo, un altro stile di vita. Come nella fiaba My Fair Lady, la ripulisce, la veste, le insegna a parlare e a scrivere. La trasforma in una coinquilina a modo, senza stravolgerne assolutamente l'intima natura, e la presenza di lei gli riempie le stanze, i sogni, l'esistenza. I protagonisti non si danno baci; non si prendono per mano, dopo aver rischiato di perdersi. Siamo negli anni Cinquanta. Dio ha dato forfait, il positivismo pure. La morte spirituale schiacciava l'occidente.

Credi che possa durare all'infinito?

Gazdanov racconta, con pochi dialoghi e qualche pagina di grande bellezza, una relazione indefinibile e dai confini vaghi. Cosa sono loro due? Ci si può sentire più pieni rinunciando a qualcosa? Pierre, così, si eleva dalla propria mediocrità per il bene di qualcun altro. Non ho capito, però, quando la narrazione fosse lieve e quando impalpabile. Quando fosse discreta e quando un po' lacunosa. Ma lascia addosso questa sensazione bella, come di pace. Qual è, infatti, la giusta dose di delicatezza? Ritrovarsi a Parigi è etereo, eppure saldamente piantato a terra. Sulle macerie di un conflitto trascorso da poco, e non senza danni. Sulle zolle di un mondo troppo cinico, troppo materialista, che solo la scoperta tardiva della tenerezza può trarre in salvo.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: La Complainte de la Butte – Rufus Wainwright