mercoledì 27 febbraio 2019

Recensione: Ritorna, di Samuel Benchetrit

| Ritorna, di Samuel Benchetrit. Neri Pozza, € 17, pp. 238 |

Il procrastinatore seriale si riconosce fra mille. Qualsiasi età abbia, ciondolerà per casa con i capelli scompigliati, la barba sfatta e le mutande un po' ingiallite sul davanti. Pigrissimo, rimanderà a domani quello che potrebbe sbrigare oggi; compilerà accurate liste per punti per poi fare carta straccia dei buoni propositi. Il protagonista di questo romanzo, allergico agli impegni a lungo termine e all'attività fisica, non è l'eccezione alla regola. Scrittore divorziato, al mattino fuma come una ciminiera e trinca caffè sulla tazza del water: gli arrivano nel mentre sgradite newsletter dall'Ikea, email di editor e creditori, messaggi spam presi talora troppo sul serio. E notizie del figlio, invece: nessuna speranza che in Groenlandia ci sia il segnale wi-fi? Hanno condiviso insieme quell'appartamento a soqquadro fino al diciottesimo compleanno del ragazzo: partito all'avventura sulla scia dei romanzi di London, Conrad e Kerouac, lasciandosi alle spalle quella vita per soli uomini – il ketchup sugli spaghetti, il formaggio scaduto in frigo, la regola sacrosanta del rutto libero. La sua assenza rende il genitore inconsolabile. Lo stesso può dirsi per l'ex moglie, in attesa accanto al telefono alle quattro del mattino: invano, e in vena di insolite gentilezze. Quant'era bello e sincero Cemento armato, il romanzo d'esordio del protagonista a cui, purtroppo, aveva fatto seguito l'oblio generale? Così tanto, a detta di alcuni produttori televisivi, da accarezzare l'idea di realizzare un trasposizione per il piccolo schermo: nell'era in cui ogni cosa diventa serie TV, infatti, meglio rispolverare quel discreto successo editoriale che ricercava il lato poetico dei famigerati banlieu parigini. Il procrastinatore un giorno muore di noia. Così tanto, a detta dell'irresistibile Samuel Benchetrit, da darsi a un pensiero sconsiderato: rimettersi a lavorare. Se in una commedia francese di quelle esilaranti, schiette, dolcissime, riprendere in mano la propria routine sarà un'impresa assolutamente rocambolesca.

Consideravo gli scrittori e i registi che ammiravo come dei familiari o degli amici intimi. Nabokov era uno zio russo. Fellini uno zio di Roma. Stesso discorso per John Fante e Vittorio De Sica. Duras era la mia cara zietta. Sagan la mia cugina adorata. Flannery O'Connor la cugina d'America. Avevo bevuto diversi whisky con Beckett. Avevo dormito tra Cohen e Yourcenar, che volevo riconciliare. Tutti insieme formavano la mia grande famiglia allargata, piena di meravigliosi parenti acquisiti che avevano fatto per me così tanto, e io così poco per loro... Eppure mi amavano, tutti loro amavano teneramente questo nipote non granché dotato, e anche un po' coglione.

Tutto parte dal romanzo da trasporre: i produttori ne vogliono una copia, peccato risulti introvabile. Quelle con dedica sono troppo preziose per sottrarle ai legittimi proprietari, i corrieri di Amazon all'ultimo danno forfait e non resta, allora, che rivolgersi a un'appassionata lettrice chiusa in una casa di riposo: forse l'unica a poterlo salvare dal macero e dall'ennesima disfatta. Nell'ospizio ci sono innumerevoli anziane di nome Raymonde, che pretendono la lettura a voce alta dei romanzi di Pierre Lamberti, storico rivale del nostro eroe; belle infermiere balbuzienti di cui conquistare il cuore con uno spietato corteggiamento vecchia scuola; uno stagno di anatre a corto di esemplari maschili, da salvare dall'estinzione spingendosi in una fattoria ai confini del mondo dove si consumano bislacchi triangoli sentimentali. Dappertutto, intanto, rimbomba una domanda da sottoporre ai passanti, all'ufficio delle entrate, al cielo aperto: dopo quindici anni di silenzio, cosa direbbe un padre inuit al figlio in partenza per terre selvagge?
Ho pensato a me e mio padre – ugualmente affini e laconici, poco aperti al dialogo eppure abilissimi a darci a raccomandazioni profuse e a sollecitudine in quantità, nel momento del bisogno –, alle opportunità perse e a quelle ritrovate invece per caso, leggendo la nuova fatica di Benchetrit. Già regista dell'altrettanto delizioso e malinconico Il condominio dei cuori infranti, l'autore firma una mezza autobiografia a tinte esistenzialiste sulla solitudine siderale e la sensibilità nascosta di noi uomini medi.

«Ma stia a... a... attento, perché ci sono delle so... solitudini che non vanno di... disturbate».
«Cosa intende dire?»
«Se inizia u... un libro, deve fi... finirlo. Altrimenti aspetteranno la fi... fine, e la solitudine sarà ancora più... ù... ù grande».

A suon di incubi, farneticazioni e voli pindarici, fra cani gatti e bonsai di cui non ci si sa prendere affatto cura, Ritorna è un ritratto al maschile logorroico e fanfarone, incapace di prendersi sul serio ma con uno sguardo al contempo pieno di poesia. Il protagonista ha una soglia dell'attenzione bassissima e cerca stimoli dappertutto. E tutto, perciò, anche quando se ne sta in panciolle, anche quando non ha voglia di fare alcunché, si trasforma in un racconto ispirato e ben scritto. In qualcosa di buono. Grazie alle tragicommedie a cui vanno incontro i suddetti procrastinatori, alle bugie degli scrittori, alla sottovalutata tenerezza dei nostri papà. Ritornano così il batticuore, il desiderio di rimettersi all'opera davanti a una pagina Word immacolata, un pezzo di te salpato per terre lontane. Frammisto a un'insospettabile profondità d'animo, a risate a crepapelle, eccolo qui: ha fatto ritorno anche il buonumore.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Indochine – Song for a Dream

domenica 24 febbraio 2019

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Copia originale | At Eternity's Gate | Spider-Man: Un nuovo universo | Gli Incredibili 2

Ci sono biopic e biopic. Quelli sui personaggi da santificare inutilmente e quelli su mine vaganti da assolvere. Copia originale, forse l'unica sorpresa nella piattezza di questi Oscar, è parte della seconda categoria. Chi era Lee Israel? Biografa misantropa, idealista e gattara, non credeva né nel proprio talento né nell'amore. Rispondeva a tono, si vestiva male, non meritava ingaggi o buoni amici. Finché non sono state le soluzioni, gli altri, a trovare lei: prima una lettera d'autore rinvenuta in un volume della biblioteca, e da lì la folle idea di falsificare epistole in serie sfruttando il proprio sapere enciclopedico; poi l'affinità istantanea con un inglese eccentrico e irresponsabile, l'istrione Richard E. Grant, che non sa prendersi cura degli animali domestici, proteggersi dai rischi dell'Aids o dalle domande dei federali, eppure risulta un'indispensabile spalla comica. In un mondo di sedicenti Tom Clancy, autori svenduti alla logica del bestseller, Lee era la pecora nera: costretta infine a esporsi, a metterci la faccia, ma in maniera impensata. A restituirci l'orgoglio, l'umanità e le storture di una truffatrice sui generis con una coscienza tutta sua, è la rivelazione Melissa McCarthy: senza mai strafare, l'attrice comica sposa il cinema impegnato in un passaggio naturalissimo, portando con sé una fisicità irresistibile e quello sguardo già insospettabilmente comunicativo nei film più goderecci. In una New York alleniana, colta e piena di note jazz, c'era una storia che la falsaria non ci aveva ancora spifferato: la sua. Ne viene fuori una commedia dall'impalcatura esile, ma con una scrittura elegante, sardonica e perfino commovente: Copia originale non conosce redenzione, e quello è il bello. Marielle Heller tocca con un crime che sfugge alle definizioni, spiritoso e ritmato com'è, e consacra una grande interprete. Mette in luce uno dei tanti caratteristi a corto di ruoli memorabili. Ci regala abili duetti attoriali e scorci sui sordidi meccanismi editoriali, a cui in particolare i lettori non potranno restare indifferenti. Alcune emozioni, alcune simpatie, non si simulano a comando. Alcune criminali vanno perdonate a occhi chiusi. Alcune copie, come in questo caso, sono migliori dell'originale. (7,5)

Film belli come un quadro. Come un quadro di Van Gogh, nello specifico. Un arista irrequieto, dannato e intrigante, che non poteva non meritarsi un biopic errabondo, malinconico e criptico come questo: non necessario, forse, ma all'altezza dell'omaggio. Il pittore è ad Arles: in cerca dell'essenza della natura, alza il gomito, scaccia i bambini molesti e attende visite per scacciare la solitudine che ha nel cuore. Non sono abbastanza frequenti gli incontri con il fratello, un commovente Rupert Friend. Non è abbastanza lunga l'amicizia con Gaugin, di ritorno dal Madagascar. La fine dell'Impressionismo ha portato gli artisti a rielaborare il rapporto fra pittura e realtà, e Van Gogh sognerebbe di creare un movimento intellettuale, di circondarsi di ospiti pur di non patire la sindrome d'abbandono. Sappiamo che in un raptus si taglierà via l'orecchio e lo offrirà in dono al collega Oscar Isaac. Sappiamo che fine farà: merito dell'irripetibile Loving Vincent. Sulle soglie dell'eternità non aggiunge niente di rilevante al mito dell'uomo, non fa chiarezza sulle modalità della sua dipartita, ma coglie lo spirito di un personaggio che affascina ancora: benché indagato a più riprese, proposto e riproposto. Pensavo che il film perdesse in partenza la sfida di eguagliare la bellezza del capolavoro d'animazione, e invece ammalia e rattrista con le sue lunghe passeggiate nel verde e i suoi colloqui ancora più lunghi, dal gusto teatrale. Julian Schnabel ci mette una regia da maestro, che fra soggettive, primissimi piani e un uso marcato della macchina a mano permette una totale immersione sensoriale: i veri coprotagonisti, perciò, saranno gli steli d'erba, le nuvole, il vento e la luce. Un invasamento panico, insomma, retto da un Dafoe gigantesco e dolente, con attimi di impagabile spensieratezza e monologhi struggenti. Intenso, al punto che a volte si fa fatica a reggerne gli occhi grandi e spiritati; le farneticazioni dai toni messianici. Infarcita di riflessioni estetiche e filosofiche non per tutti, con una seconda parte un po' didascalica, la visione è lenta, perturbante, istruttiva. Per guardare attraverso gli occhi di Vincent i demoni, i desideri, i parti creativi, e condividere con lui un fardello pesante. Per sbirciare, dalla soglia del cinema, uno spiraglio d'eterno. (7)

Hanno ucciso l'Uomo Ragno, chi sia stato non si sa. Lo cantava Max Pezzali e alla fine è successo davvero: il supereroe è morto. Questo, almeno, accade nella Brooklyn di Miles Morales: adolescente goffo e adorabile, con il pallino dei graffiti, un padre poliziotto e un affezionato zio pigmalione. Al risveglio, un giorno, si accorge che c'è qualcosa che non va: colpa dei misteriosi terremoti che fanno tremare l'intera città, oppure del morso di un ragno nei tunnel della metropolitana? Il protagonista pensa sia l'arrivo della pubertà, invece sono i superpoteri. È finito in un fumetto. In una dimensione in cui il famoso Peter Parker non ce l'ha fatta, morto sotto i colpi di un Kingpin al solito violento e sentimentale, Miles ha l'onere di sostituirlo: il compito, distruggere la creazione di un villain che scherza con i piani temporali e il destino. Al punto che, contemporaneamente, si daranno appuntamento nella cameretta di Miles gli Spider-Man di tutti i multiversi immaginabili: le conseguenze sapranno come entusiasmare, attraverso quest'apprendistato spassosissimo. Un trio di ottimi registi, utilizzando il meglio di cui l'animazione è capace, ha proposto sotto Natale un'irresistibile variazione sul tema; una curiosa storia delle origini che, in nome di uno spirito malinconico e giocoso insieme, fa faville con gli stili e le teorie quantistiche. Vengono rivoluzionate le identità e i connotati di comprimari e antagonisti – su tutti zia May, armatrice bad-ass, e un Peter fresco di divorzio – e ci si prende gioco con originalità di sequel, remake e reboot, pasticciando a fantasia con intelligenza e colore. Nonostante un epilogo eccessivamente caotico, che conferma il mio scarso feeling con un genere fatto di esplosioni, onde d'urto e laseroni, Un nuovo universo convince appassionati e profani con un'orgia di citazioni nerd e grandi poteri, da cui puntualmente derivano grandi responsabilità: colpi di scena ben dosati, una tecnica all'avanguardia, un cuore eccezionale. Grazie a un eroe vulnerabile e alla mano, che mi piaceva già interpretato da Maguire, Garfield e Holland. E che qui torna a conquistare in tutte le salse, in ogni universo possibile. (7,5)

Avevo dieci anni, amavo già poco i supereroi e l'animazione digitale, e il soggiorno presso la famiglia Parr mi era piaciuto ma non troppo. Avrò collezionato ai tempi qualche gadget dalle merendine, adesivi o calamite a tema, eppure la tentazione di vederlo una seconda volta non mi ha mai tentato. Sono passati quindici anni dagli Incredibili, e perché aspettare tanto per un sequel fuori tempo massimo? Per insindacabile volontà degli sceneggiatori, i protagonisti non sono cresciuti nel mentre. Non si sono allontanati di un passo degli eventi del film introduttivo. È cambiato il target, tuttavia; sono cambiati gli spettatori, all'epoca bambini e adesso pressoché adulti. Gli aggiornamenti, presenti a piccole dosi, non sono dei più felici: la dimensione corale scarseggia, purtroppo, e l'arrivo di una nuova ondata di femminismo ha fatto sì che questa volta sia Mrs Fantastic a ricoprire un ruolo di potere, mentre per il consorte in fermo ci sono i pannolini di Jack-Jack, i compiti di matematica di Flash, i sospiri d'amore di Violetta. Visivamente accattivante, offre due ore che non pesano, nonostante la sensazione di assistere a semplici scenette giustapposte, e un discreto intrattenimento ad alto budget. Ci si è presi del tempo, però, senza una giustificazione valida. Mi ripeto: quindici anni, e per cosa? Verrebbe da chiederselo ancora e ancora, sì, davanti a una trama semplice e prevedibilissima e alle aspettative dei fan, sostanzialmente mal riposte. E io, che fan non ero né lo sono diventato? Gli Incredibili 2 non sorprende, non volta pagina, non matura, e cerca invano di tenere a freno un potere e un potenziale – mi ha illuminato la mostra Pixar a cui ho assistito a Roma lo scorso gennaio – che neppure il bravissimo Brad Bird, alla regia, sa padroneggiare. (5,5)

venerdì 22 febbraio 2019

Recensione: Perduti nei Quartieri Spagnoli, di Heddi Goodrich

| Perduti nei Quartieri Spagnoli, di Heddi Goodrich. Giunti, € 19, pp. 460 |

Alcune prose ti portano lontano, nonostante storie e luoghi vicinissimi a te. Quando pensavi di sapere già tutto di un amore dal finale annunciato o di una regione in cui hai trascorso le estati d'infanzia, fino ad apprendere a dovere i segreti della parlata di nonna o del suo ragù speciale, a prenderti in contropiede sono le guide turistiche con le referenze sbagliate; con nomi stranieri che, all'apparenza, poco hanno da spartire con l'eredità e le contraddizioni di certi angoli di paradiso, sfuggenti perfino per chi ci è cresciuto. Manco a Napoli da un po', colpa di rapporti familiari diventati negli anni più facili da ignorare che altro, e mi aspettavo di farvi ritorno a breve con il terzo romanzo dell'Amica geniale. Alcune gite fuori porto, tuttavia, non le programmi. Arrivano biglietti omaggio dell'ultimo minuto, occasioni da afferrare al volo, o esordi che non sapevi di voler leggere fino a quanto non li hai stretti fra le mani. Mi è successo con Perduti nei Quartieri Spagnoli: poche pagine e, come da titolo, era troppo tardi. Mi ero perso: avevo scelto deliberatamente di farlo, nonostante non fosse un momento opportuno per darsi all'avventura, ai viavai, ai romanzi impegnativi. Ci ho messo una settimana abbondante a uscire da questo dedalo e, a fine lettura, la nostalgia superava il sollievo: io che eppure patisco i vicoli stretti e la gente rumorosa, i titoli di tendenza, e di solito non vedo l'ora di far ritorno nel porto sicuro di casa mia. È stato merito di un romanzo di formazione a confine con il memoir, dove a rivelarti le scorciatoie strategiche e gli scorci da immortalare in fotografia è un Cicerone straordinario: leggete bene, sì, Heddi Goodrich. Americana senza radici, girovaga per deformazione caratteriale, che in Campania aveva gettato gli ormeggi in nome dell'amore: correvano gli anni Novanta.

La città era acqua che mi colava dalle mani, e il solo amarla mi intristiva, soprattutto di notte. Era una malinconia che non riuscivo né a scacciare né a capire. Mi ero data a lei tutta quanta, forse anche a tradimento di me stessa, eppure dopo tutti questi anni Napoli mi teneva sempre a distanza. Vir' Napule e po' muor', si dice. Frase abusata che non avrei mai inserito in una conversazione ma che quella sera bisbigliai alla notte in quanto verità.

Ventitreenne iscritta a Lingue orientali, la studentessa fuori sede aveva una famiglia a Washington e una cerchia di amici stretti nei Quartieri: si cantavano tanto i Pearl Jam quanto i classici di Renato Carosone; ci si stringeva in appartamenti abusivi belli e pericolanti affacciati sul Vesuvio; si andava alla scoperta della Napoli sotterranea, del Cimitero delle Fontanelle, attratti irrimediabilmente da quei racconti folkloristici di gnomi dispettosi, teschi senza nome e vecchie indovine con lo sguardo al futuro. Lo scirocco sornione soffia, ti accarezza e t'importuna. Il vulcano, addormentato, tra sé e sé deve ribollire così come ribolle la giovane Heddi davanti alle gentilezze di Pietro. A una festa universitaria le ha regalato una cassetta con i successi musicali di quegli anni, e la protagonista non riesce a togliersi dalla testa i ritornelli della Franklin, degli U2, né lo spasimante: la bocca carnosa come un frutto proibito, le Marlboro nel taschino a dispetto dei polmoni fragili, un attaccamento alla terra difficile da comprendere fino in fondo – la stessa che esamina nei suoi studi di Geologia, la stessa che coltiva in una fattoria modesta in provincia di Avellino. Prendete Chiamami col tuo nome: quella passione viscerale sullo sfondo di una penisola coltissima, il suo epilogo agrodolce, e descrizioni di odori e sapori tanto suggestive da appagare i cinque sensi. Aggiungete all'incanto di Aciman il rione, reso lussuosissimo dal tocco di Elena Ferrante: il codice d'onore delle famiglie partenopee, i pregi e i difetti di culture affascinanti soltanto alla giusta distanza, i bagordi di veglioni di Capodanno che fanno schiantare dai balconi pallottole e lavatrici volanti. Il meglio che la nostra Italia è stata in grado di ospitare, fra cinema e letteratura, trova un incastro perfetto in un esordio che farà vendere e parlare: per fortuna, non l'operazione commerciale che qualcuno potrebbe supporre. Perduti nei Quartieri Spagnoli prende avvio dallo scambio di e-mail fra i protagonisti cresciuti: Heddi ha visto l'alba del nuovo millennio in Nuova Zelanda, Pietro ha lavorato su una piattaforma petrolifera per un po' prima di tornarsene al punto di partenza.

Ci mettemmo di nuovo come angeli dell'erba, stesi mano nella mano, abbandonati alla felicità. Nemmeno una nuvola. C'era soltanto uno strato di azzurro, uno strato di verde, e noi in mezzo come angeli caduti. Mi sembrò di vedere nel mondo, e nell'amore, la sua semplicità di base. Ed ebbi la sensazione che, invece di stare incollati alla terra, ce ne fossimo sradicati, che ci fossimo liberati perfino della gravità. Come piume.

Sappiamo in anticipo che li hanno separati il rapporto di amore-odio con Napoli, il peso dei vincoli, la differenza che passa fra voler bene e amare. Lei sempre in volo, lui che non ha mai preso un aereo; lei che lo invita ad Atene a conoscere la sua moderna famiglia allargata, lui che al contrario la porta in visita nell'angusta Vallesaccarda. Un paesino di provincia, devastato ancora dalle conseguenze del terremoto dell'Irpinia, in cui per la prima volta Heddie si sente una forestiera – colpa di una suocera dalle parole sporadiche e sentenziose e di un pronome personale, “edda”, che la bolla spietatamente come altro da loro. La Goodrich, eppure, parla un italiano perfetto e conosce sfumature dialettali che perfino a me, di mamma e padre casertani, talora sfuggono. Ha una dialettica fuori dall'ordinario e, durante la lettura, sorprende grazie a una lingua di cui è padrona esemplare e a pennellate precisissime. Scrive meravigliosamente bene, e noi abbiamo la fortuna di non leggerla in traduzione: impressiona realizzarlo, ma tant'è. Quest'autrice scrive in italiano e pensa in napoletano. Testimoni di un tale imprinting, mi sono scoperto commosso: gli occhi bruciavano qui e lì, e non soltanto per lo smog che evoca. Erano gli anni del servizio militare, della fiducia nel futuro, delle immagini da cartolina da smantellare. Di un'euforia involontaria, di un'anarchia che riguardava tanto il sesso quanto la politica, in cui si tremava di ingiustizia e grandi speranze. Non bastava rifugiarsi sotto il vano della porta per sfuggire al terremoto in agguato. La protagonista, così, si è resa irraggiungibile per non soffrire più. Da scambi iniziali in stile Le ho mai raccontato del vento del Nord, infatti, sappiamo che vive dove lui non potrà mai raggiungerla né dimenticarla. Colpa delle lingue diverse, degli stili di vita agli antipodi, dei mondi inconciliabili che passano fra chi torna e chi parte. Perduti nei Quartieri Spagnoli raccoglie tutto quello che resta. La bellezza di un accento riconoscibile fra mille, un briciolo di rimpianto, un odore che si insinua nei capelli o sui vestiti. Come olio per friggere le cotolette, i crocchè, la pasta di pane lievitata. 
Non basteranno i lavaggi. Non basterà l'impegno di scordarsi. Qualche parola in dialetto persiste, e resiste anche un po' d'amore. In un incredibile lessico sentimentale che supera con eleganza il tempo, lo spazio, l'intrico inestricabile delle viuzze, e punta con un colpo d'ala al cielo aperto. Un ritaglio di azzurro stentato, fra le lenzuola che sventolano, le sinfonie ritmiche di piatti e bicchieri, lo sfrigolare profumato del soffritto sul gas.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio: Arisa – Vasame 

mercoledì 20 febbraio 2019

Recensione: Ottanta rose mezz'ora, di Cristiano Cavina

| Ottanta rose mezz'ora, di Cristiano Cavina. Marcos y Marcos, € 17, pp. 197 |

Dicono sia il mestiere più antico, in questo mondo in cui gli uomini smaniano per la brama di possesso e le donne, loro malgrado, hanno imparato presto a fare di necessità virtù. Sarà la storia più antica del mondo, di conseguenza, quella di cui si legge nell'ultimo romanzo dell'apprezzato Cristiano Cavina: lì dove esiste una donna di tutti e di nessuno, infatti, c'è un uomo alle corde pazzamente innamorato di lei. Basti pensare al cinema, magari alle commedie romantiche, piene zeppe di prostitute dal cuore d'oro sulla via della salvezza. Julia Roberts trasformata in gran signora da Richard Gere, Melanie Griffith tentata dalla vita di provincia per il bene del figlio di Ed Harris, Monica Bellucci riscatta da un mite impiegato dal gangster Depardieu. Accanto a loro, da oggi, mettete Sammi. Che forse una scelta alternativa l'aveva, a ben vedere, ma che in nome di un orgoglio tutto femminile ha decretato di unire il dovere al piacere, messa alle strette dalle incombenze. Se a letto è disinibita, libertina, generosissima, perché non farsi pagare? Se troppo formosa per diventare in gioventù una ballerina professionista, perché non sfruttare quelle curve a gomito a proprio vantaggio?

Siete mai stati innamorati di una puttana? Non una facile, come intendono i maschi frustrati: voglio dire, siete mai stati innamorati di una che va con gli uomini per soldi? Una normalissima ragazza italiana con i capelli neri e le fossette in fondo alla schiena, che riceve fra un turno di lavoro e l'altro in un monolocale che sa di umido e dell'odore morente di un falso gelsomino? Io sì. Che Dio mi maledica, io sì. Ed è stata la storia più pura e innocente di tutta la mia fasulla vita di merda.

Con la coda di cavallo dondolante, le punte dei piedi all'infuori e due irresistibili fossette sul sedere, la donna – insegnante di danza classica che paga il mutuo a volte improvvisandosi barista, altre commessa in un centro commerciale – attira disastri e sguardi lussuriosi a bordo della sua Vespa sgangherata. La nota così anche il protagonista, un anonimo scrittore con l'agenda stipata di presentazioni e la tendenza a dividere la vita in rigorosi compartimenti stagni: ha chiuso lì l'adorata figlia Gaia, gli schiamazzi di una separazione ancora fresca e le pratiche atipiche che gradisce a letto. L'irruenta Sammi – all'anagrafe, Chantal – se ne infischia dei paletti, e vive la loro relazione con la stessa voracità con cui negli alberghi di lusso si avventa sui buffet. I personaggi, adulti e consenzienti, si rimpinzano di messaggi romantici, foto esplicite, post-it buffi, avvinghiandosi in luoghi pubblici – il letto, in mezzo a tante trasgressioni a fantasia, li tenterà di rado – e aprendo la porta anche a qualche ménage à trois: il protagonista non parteciperà. Un po' voyeur, affatto geloso, ama guardare l'amore e la bellezza anche a distanza di sicurezza. Quanto è difficile parlare di sesso al giorno d'oggi? Colpa delle Cinquanta sfumature, che hanno trasformato l'eccitazione in ridarella. Colpa del politicamente corretto, che davanti a una storia come quella di Cavina scomoderebbe forse la mercificazione, il femminismo battagliero e altri temi caldi. Ottanta rose mezz'ora, eppure, riesce a essere spudorato senza mai diventare volgare; provocatorio e leggerissimo insieme. Il trucco: raccontare una strana coppia, e la loro ben più strana deriva, in cerca della normalità e mai del dettaglio scabroso.

Credo che sia la meraviglia a tenerci attaccati a certi esseri umani, più di qualsiasi altro sentimento. Più della protezione, più della dolcezza, infinitamente più della bellezza. Piccoli sospiri di meraviglia, casuali e improvvise escursioni fuori dalle rotte prestabilite.

L'autore riesce nell'impresa di conciliare le mille facce della coppia e di tenerle a bada. Sfacciato, potrebbe forse arrossire qualcuno, solleticare qualcun altro, non ispirare critiche negative. Sammi ha il corpo caldo e i piedi freddi, non vuole dormire abbracciata, ispira confidenze senza pretenderle, non ha amiche o familiari. Ha avuto un fidanzato per quattro anni e l'ha mollato. È finita a intrattenersi, così, con un'anima a lei affine per perversioni e disperazione: un uomo di mezza età che ha storie per tutto, mentre sulla sua glissa a regola d'arte, e nella buona sorte la vizia regalandole orgasmi sonori, ciuffi d'oleandro, Coca-Cola non in sconto. Nella cattiva, invece, la asseconda quando s'improvvisa escort per non farsi mantenere da anima viva: da autore di narrativa a cercatore di clienti – ci sono forum, parole cifrate, annunci e scatti piccanti da immortalare –, il passo è breve.

La felicità, come il sesso, funziona a dovere solo se c'è qualcun altro. Masturbarsi non è affatto male, ma a cose serve la meraviglia se si è completamente soli?

La teiera in cucina straripa di banconote. In corridoio sfilano borghesi vanagloriosi, timidi cronici, pensionati arzilli. Ma a dormire con Sammi, in fondo, di notte resta un solo uomo. Può bastargli? Su uno sfondo di bambine in calzamaglia e fondali dipinti, mentre in scena va Il lago dei cigni, Ottanta rose mezz'ora mischia con spigliatezza la fiaba e il tabù. Rivelandosi una lettura particolare ma talmente conciliante nello stile da sospendere, per duecento pagine e oltre, qualsiasi giudizio morale; una storia d'amore struggente in cui la principessa batte, il principe è un codardo e il mago cattivo, con le sue sentenze da sputare, è in agguato. Si può fare il mestiere più antico del mondo, infatti, senza sentirsi sporchi. Senza far sentire il proprio compagno tradito. Poi basta una parola indiscreta, una macchia scura sulle calze, e quel corpo statuario usato, sporcato, contorto e cullato diventa infine un inavvicinabile nodo di dolore. Il sesso non ci sta, no, in un compartimento stagno: complica tutto. Complica tutto il cuore, l'unico organo che ci fotta davvero.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Ghemon – Rose viola

lunedì 18 febbraio 2019

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Bohemian Rhapsody | BlacKkKlansman | Se la strada potesse parlare

Doveva essere prima Sacha Baron Cohen, poi Ben Whishaw, ma la scelta è ricaduta all'ultimo su Rami Malek: fra uno slittamento e l'altro, la travagliata scelta dell'attore protagonista aveva accontentato tutti. Alla regia, invece, Brian Singer era stato sostituto nel mentre da Dexter Fletcher: gli scandali sessuali, si sa, non avvisano in anticipo le major hollywoodiane. Con tutti gli accorgimenti delle pellicole sofferte, rattoppate, che soltanto nel mentre decidono cosa essere e cosa non essere, Bohemian Rhapsody ha finalmente visto la luce lo scorso novembre. Nonostante le disastrose premesse, al botteghino si è rivelato un successo straordinario. Gli è andata senz'altro meglio che ad altri biopic al centro di simili rimaneggiamenti, ma il risultato, modestissimo, non cambia. In quale momento la voce solista dei Queen è diventata leggendaria? Da dov'è partita l'ascesa inarrestabile di Freddie Mercury, a cui nemmeno la morte precoce ha tarpato le ali? Nato a Zanzibar, facchino in un aeroporto britannico, aveva quattro incisivi superiori, un'estensione da pelle d'oca e avventure sentimentali che, con l'avvento dell'Aids, facevano tremare la comunità gay. Figlio maggiore in una famiglia di immigrati, sentiva il bisogno di sentirsi parte di qualcosa: tutto partì da una semplice band universitaria. Sognava di vedersi idolo delle folle. Non gli mancheranno attorno cattivi consiglieri, e la solitudine, a giorni alterni, si farà sentire. Quando tutti andranno avanti, si stancheranno di festeggiare e di seguirlo a ruota nelle sue bizze da primadonna. Mai, tuttavia, di starlo ad ascoltare. Biografia parziale e canonica, godibile ma mai all'altezza del suo ispiratore, in Bohemian Rhapsody funzionano quelle canzoni sempiterne; lo scatenato Malek, che compensa con gli sguardi e i movimenti all'impaccio delle parrucche e agli inguardabili denti posticci; le ville piene di gatti adorabili e la freschezza dell'attrice Lucy Boynton, descritta come l'amore di una vita a dispetto del compagno storico. Scarseggiano il sesso, le droghe, gli amanti sbagliati. Scarseggiano gli eccessi, la voglia di provocare e gli autentici colpi di genio. Sovversivo qual era, Mercury si merita ben più di una agiografica vittima dei divieti e dei cambi di rotta. I Queen hanno riempito gli stadi, e continuano a farlo con Adam Lambert come erede spirituale. Riempiono le sale, ora, rubando premi immeritati e infrangendo record. Il loro film piacerà ai fan di vecchia data, alle famiglie riunite, meno agli appassionati. Povero di trovate stilistiche, di guizzi, al punto da stonare un po': un autentico paradosso, dipingendo a spizzichi, bocconi e ritornelli da cantare a memoria un leader dall'intonazione perfetta. (6)

Ci sono quelle storie talmente assurde da essere vere. Ci sono sceneggiature – da premio Oscar, i bookmaker hanno parlato – che brillano senza grandi sforzi, perché la cronaca ha già mostrato umorismo e inventiva in dosi abbondanti. Questa è la storia, assurda per l'appunto, di un poliziotto che ha l'ardine di infiltrarsi in un covo pericolosissimo: il Ku Klux Klan. Un poliziotto afroamericano. Come passare inosservati nella setta intollerante per antonomasia, se la pelle nera e la voce grossa non mentono? Unico sbirro di colore a Colorado Springs, spiccherebbe nella massa di per sé: alle sue origini, aggiungete anche idee reazionarie. Rifiutare il modesto lavoro in archivio e far crollare nel decennio delle rivolte per la guerra in Vietnam, delle manifestazioni per il famoso Black Power, la casa degli orrori. Basta un annuncio sul giornale per comporre un numero di telefono e dichiarare di volerne fare parte dall'oggi al domani. Basta un aiutante – bianco, però – da guidare all'interno passo dopo passo. Non abbastanza militante per la comunità afroamericana, la mente John David Washington si appoggia al braccio Adam Driver, al contrario non abbastanza ebreo. Loro, che non hanno mai pensato alla razza, alla religione, né al dramma delle proprie origini, prenderanno coscienza di sé all'improvviso. I poliziotti, sul chi va là, guardano intanto dalla parte sbagliata. I membri del Ku Klux, affatto invisibili, cercano un nuovo leader carismatico: magari per puntare, un giorno, alla presidenza degli Stati Uniti? L'America, ci si consola invano, non eleggerebbe mai uomini così. O forse sì? Ci ha smentiti l'avvento Trump e, ancora una volta, il terrore è venuto dall'interno, non dallo straniero. Uno Spike Lee in forma smagliante punta il dito, fa nomi su nomi, non le manda a dire. Divertentissimo e arrabbiatissimo, prende in prestito l'aria scanzonata delle commedie poliziesche e un tema che scotta. Un po' classico buddy movie, un po' satira, un po' biografia d'inchiesta, BlacKkKlansman sa ridere della tragedia del razzismo e di se stesso. Ignora qualsiasi retorica, si fa beffe del politicamente corretto, ma conferma nel male la mia scarsa affinità con il cinema di Lee: regista che poco mi piace, e di cui avrò visto i film sbagliati. Appiattito dal doppiaggio e banalizzato strada facendo da uno sviluppo meno originale dello spunto di partenza – due protagonisti prima rivali e poi amici, un piano criminale da sabotare, l'immancabile trucco del microfono nascosto che, in ultima battuta, fa storcere il naso –, intrattiene con il suo carico di indignazione e attualità, grandi attese e grandi nomi. Graffia, ma poco aggiungono gli attori, la regia dai toni retrò, la settima arte. Il messaggio arriva, forte e chiaro, ma ci si aspettava una marcia in più. (6,5)

Passato alla storia per aver soffiato lo scettro a La La Land, Barry Jenkins aveva infastidito più di qualcuno – occhi puntati a quella vittoria politica, a quel dramma tetro preferito al musical di Chazelle –, ma non il sottoscritto. Moonlight mi aveva commosso, imperfetto e strabordante com'era. A colpirmi, l'universalità e la discrezione di un autore che raccontava una storia d'amore senza farne mai un film LGBTQ. Atteso al varco, quest'anno è tornato: l'intento, quello di parlare di persecuzione razziale senza mai scomodare il razzismo. Possibile? Lo splendido romanzo di James Baldwin gli aveva già spianato la strada: si parlava d'amore, mica di odio, e i toni erano quelli inconsueti di una fiaba romantica. In cui lui ama lei, c'è un bambino in arrivo, ma il poliziotto sbagliato accusa l'uomo sbagliato: può Stephan James aver stuprato una donna indifesa? L'incantevole Kiki Layne non ci crede e, con il pancione che cresce, mobilita gli avvocati difensori e le famiglie in frantumi – se quella di Fonny, a proposito di fiabe, sarà composta da matrone bigotte appena uscite dalle pagine di Cenerentola, la ragazza potrà contare sull'ostinazione di Regina King: una mamma che s'impunta, s'improvvisa segugio in viaggio a Puerto Rico, ma non rischia di restare nel cuore con un'eroina femminile che sa di già visto. Bellissima dal punto di vista stilistico, la trasposizione colpisce lo sguardo per l'approccio di un Jenkins esteta come non mai: l'intimità mozzafiato dei piani sequenza, la scelta dei colori pastello, l'avvolgente colonna sonora jazz. Il filtro insolito della favola urbana, tuttavia, fa correre al regista un rischio serissimo: quello di risultare fuori tempo, con un melodramma alla Frank Capra. Mancano la vena sarcastica di Lee, la potenza dialettica di Washington, la concordia di Farrelly, e questo messaggio d'amore, purtroppo, al cinema trova un mondo troppo scettico, troppo cinico. Lì, nella sua semplicità, il suo grande coraggio ma anche la sua insanabile pecca. Il romanzo, scritto cinquant'anni fa, sembra stato pensato ieri; il film, fedelissimo, risulta antiquato. La tristezza, quella vera, nasce davanti al monologo di un vecchio amico appena uscito di galera e terrorizzato all'idea di farvi ritorno. L'empatia, quella vera, è per un Dave Franco che apre casa sua alle coppie felici, mentre i protagonisti – che penetranti sguardi in camera, che volti telegenici – fantasticano su come arredare un open space. Fonny e Tish credono in Dio, nella giustizia, in loro stessi. Se la strada potesse parlare, allora, ti racconterebbe di un epilogo sospeso nella speranza, di un passo indietro per Jenkins, di un tentativo a metà. Al chiaro di luna, Beale Street aveva tutta un'altra forza. (6)

giovedì 14 febbraio 2019

Mr. Ciak: La vita in un attimo | How to talk to girls at parties | Film stars don't die in Liverpool

Un Oscar Isaac dalla barba incolta parla della rottura con Olivia Wilde sul divano della psicologa Annette Bening: aspiranti sceneggiatori, i due facevano faville vestiti da Pulp Fiction a Halloween e aspettavano un bambino. Olivia Cooke, cantante arrabbiata con il mondo intero, annienta il romanticismo di una ballata di Bob Dylan urlandola a squarciagola in chiave metal. Da qualche parte in Spagna, invece, Antonio Banderas – proprietario terriero, ma non del “Mulino che vorrei” - aiuta il figlio di Laia Costa a superare un trauma insanabile. Una manciata di nomi noti, personaggi agli antipodi nel tempo o nello spazio, le cui storie ruotano attorno allo stesso avvenimento tragico. A lungo, così, è dalla tragedia che cercheranno di allontanarsi. Sebbene sia un melodramma corale da inserire nel filone di Collateral Beauty, Life Itself lo si approccia con un occhio di riguardo: merito del taglio indie e di un inatteso black humor, delle audaci variazioni sul tema della prima parte, dei cambi di rotta shock. Soprattutto, inutile negarlo, del tocco magico di chi ha ideato This is us e consumato 500 giorni insieme a furia di visioni. La voce narrante della Wilde ci racconta con toni alterni di famiglie disfunzionali, sentimenti da elaborare e altri drammi; del destino sfortunato degli orfani e della bellezza pericolosa di New York, scomodando fra le righe implicazioni filosofiche e narratologiche che rendono senz'altro più estremo il classico intreccio intergenerazionale. Questo nuovo giro di vite prende avvio in maniera violenta e proseguendo, poi, si scopre più accomodante senza grandi sensi di colpa. La morale, già consolidata: cosa fare se la vita ti dà dei limoni? Facile, fanne una limonata: spremila, zuccherala, bevine fino all'ultima goccia. E ricomincia daccapo. Magari, all'interno di una sinfonia polifonica che si muove al solito in cerca di risposte esistenziali, e al solito funziona bene con i toni dolci della seconda metà. Grazie ai dettagli, ai volti, alle piccole cose in cui piace riconoscersi. E di cui, nella sera giusta, magari ci commuoviamo un po'. I narratori, si afferma, sono inaffidabili per loro stessa natura: la narratrice per eccellenza, in teoria, resterebbe la vita stessa. Come crederlo, però, davanti a una frenata agghiacciante, a uno sparo a bruciapelo, a una malattia innominabile, a un tradimento che ancora brucia nell'anima? Ci si affida, in quel caso, agli sceneggiatori che non si allontanano mai dalla comfort zone. Se anche la vita si rivela inaffidabile, Dan Fogelman, per fortuna, non troppo. (6,5)

Prendete un trio di amici e collocateli nell'Inghilterra punk. Alla ricerca dell'ennesima festa trasgressiva, guardateli seguire la musica e imbattersi in una casa di stranezze, sesso e piaceri in stile Rocky Horror Picture Show: tutine in latex coloratissime, proposte indecenti, bassi solletichi che d'un tratto ti aprono le gambe e mondi interi, in barba alla virilità. I protagonisti pensano che i tenutari siano gente strana perché americana. In realtà, sono alieni in trasferta – e, per di più, cannibali. Elle Fanning, così perfetta da apparirci a tratti una marziana davvero, per quarantotto ore abbandona la base e segue con il batticuore Alex Sharp, bruttino ma con carattere. Tempo a sufficienza per affezionarsi all'idea di cantare in un gruppo, ai baci ribelli di lui, alla tentazione di restare lì? La classica relazione breve e impossibile, che ricorda un po' una fiaba moderna in stile Splash: Una sirena a Manhattan, regala sorprese se proviene, come in questo caso, dalla folle inventiva di Neil Gaiman. Fantasiosa metafora di quel decennio di lotta generazionale e incomprensione reciproca, How to talk to girls at parties è una commedia rock 'n' roll con la testa fra le nuvole e risvolti straordinari, che fa faville nei momenti da puro boy meets girl – questi ultimi culminano con un allucinato duetto, prima che il film imbocchi la poco convincente mezz'ora conclusiva – e purtroppo si sfilaccia un po' in un epilogo infarcito di dialoghi esplicativi, toni grotteschi, stanze affollate. Festa discinta, rumorosa e dispersiva – nella folla scorgiamo la talent scout Nicole Kidman, in un ruolo piccolo ma incisivo –, con un'irresistibile messa in scena e un messaggio tutt'altro che sottile a sfavore, ma una candida storia d'amore per centro nevralgico. Lontano dall'essere un manifesto generazionale, How to talk to girls at parties resta comunque un apprezzabile teen movie d'autore. John Cameron Mitchell, decisamente nel suo fra travestitismo, giovinezze scatenate e pentagrammi, questa volta è troppo immalinconito per provocare. Effetto non tanto delle droghe pesanti quanto della nostalgia di chi, insieme a Gaiman, rimpiange il graffio dei vinili, i vent'anni e quell'occasione persa un trentennio fa: con una aliena uguale alla Fanning che, nell'allegria sconsiderata delle prime volte, ci aveva promesso perfino le stelle. (7)

Ci sono quei film belli e sfortunati che passano in sordina. Ignorati ai piani alti, non trovano nessuna distribuzione italiana: l'avvento del sottotitolo, per fortuna, ha salvato dall'oblio la visione di Film stars don't die in Liverpool – a carico, la bellezza di tre candidature agli scorsi Bafta – e il ricordo agrodolce di Gloria Grahame, diva già una volta sparita dai radar. Probabilmente nessuno di noi, oggi, la ricorderà. Classe 1923, vincitrice di un Oscar nell'anno di Cantando sotto la pioggia, l'attrice aveva collezionato quattro matrimoni fallimentari, pochi ingaggi e un tumore al seno mai del tutto debellato. Meglio rinunciare alla chemioterapia, nella paura di perdere i capelli, la bellezza e il lavoro. Stella del muto ormai in caduta libera, negli anni Ottanta nascondeva la cicatrice della mastectomia e s'innamorava di un aspirante attore più giovane di tre decenni. Gloria porta Peter a New York, lo invita in ristoranti frequentati da leggende del cinema, gli regala una favola da seguire senza un briciolo di scetticismo. Lui, dalla sua, ricambia con un altro copione; quello dell'ultimo grande amore. La Grahame fumava come Lauren Bacall, si atteggiava alla maniera di una Marilyn seducente e falsamente svampita: piena di femminilità e decoro, permalosissima, faceva sparlare per le relazioni scandalose e sognava di interpretare Giulietta benché non avesse più l'età. Ignorò strenuamente il suo male, fingendo fosse indigestione; prima fuggì, come fanno gli animali morenti, e infine si rifugiò a Liverpool presso la famiglia di Peter, circondandosi di trucchi, pellicce e affetti sinceri. Si reincarna alla perfezione, qui, nei gesti di una Bening somigliante e straordinaria, al punto da non spiegarsi la mancata considerazione dell'Academy. E si gode la compagnia di un ritrovato e cresciuto Jamie Bell, che dopo i fasti di Billy Elliot torna a ballare e a condividere il set con l'adorabile Julie Walters. La biografia sentimentale di Paul McGuigan scivola con grazia invidiabile dal presente al passato. Il famoso umorismo britannico e qualche guizzo stilistico donano alla Grahame il batticuore finale, allora, e a noi qualche furtiva lacrima in poltrona. Soprattutto, nuovo lustro alle stelle offuscate dalla memoria breve di Hollywood. Film stars don't die in Liverpool è l'altra faccia di Viale del tramonto: quella felice. (7,5)

lunedì 11 febbraio 2019

I ♥ Telefilm: Sex Education | La compagnia del cigno | The Kominsky Method

Ai miei tempi c'era la serie di American Pie in videoteca o Melissa P. sfogliata di soppiatto al supermercato. Alle scuole medie un po' di sesso lo si vedeva o leggeva così: con la pudicizia verso il tabù. Molto più fortunati possono dirsi gli adolescenti di oggi: seduti al primo banco, attentissimi, prendono appunti e sollevano dubbi esistenziali a lezione da Sex Education. La versione live action di Big Mouth, essenzialmente, che attinge a tratti a Skins, a tratti al recente The End of the F***ng World. Siamo nel solito liceo di provincia e il solito sedicenne imbranato – Asa Butterfield, cresciuto bene dopo la benedizione artistica di Martin Scorsese – fa i conti con l'imbarazzo della mamma sessuologa e la cotta per una ragazza con la fama da bulla. Perché non mettere a frutto un'infanzia passata a sentir parlare di sesso per racimolare qualche soldo, tagliare il cordone ombelicale che lo lega alla sempre fascinosa Gillian Anderson e, se tutto va bene, conquistare l'erede lampo di Margot Robbie? A scuola c'è chi apre troppo le gambe e chi non le apre abbastanza. Chi sogna in segreto un'esperienza omosessuale, chi simula l'orgasmo, chi non si prende cura a sufficienza delle proprie zone erogene. Chi ce l'ha piccolo, chi ce l'ha grande, chi non ce l'ha depilata alla brasiliana. Otis, sotto lauto compenso, ha una risposta per tutto, ma non per il suo cuore misterioso. Né per l'inibizione verso la masturbazione, suo grande cruccio, che gli rende di conseguenza difficile anche il contatto fisico. Scorretta, boccaccesca, nuda e cruda, Sex Education non si fa mancare davvero nulla. Dà quello che promette, fra amplessi sbirciati e grasse risate, ma il risultato sorprende per buon gusto e misura. Modernissima ma con un accurato stile anni Ottanta, l'ultima commedia Netflix gioca con furbizia e impensata grazia le proprie carte vincenti. E fa bene, perché la semplicità, il prendi di qua e il prendi di là dai teen drama di ogni dove, si sposa bene con un cast dalla faccia pulita e una scrittura che, lasciati a sbollire i bassi istinti, a sorpresa scalda il cuore. Con le cliniche per l'aborto dagli Smiths in sottofondo. Con gli amici gay che non disdegnano i travestimenti e, per solidarietà, ti spingono a vestirti come Hedwig oppure a ballare un lento in pista. Con la revisione in chiave politicamente scorretta di un femminismo meno banale al suon di: «È la mia vagina!». C'è del vero nel luogo comune: non esiste sesso senza amore. (7+)

Alle medie adoravo High School Musical: conoscevo tutta la colonna sonora, inutile nascondersi, e l'altro giorno meditavo l'idea di un rewatch in nome della nostalgia canaglia. Alle superiori è stata la volta di Glee: serie subito cult, sfortunatamente in caduta libera dopo la collezione iniziale di plausi e premi in patria. Quest'anno, invece, scartato Rise, contro tutti i pronostici gli ho preferito La compagnia del cigno: una scusa per far fruttare il chiacchierato canone Rai e una bella occasione per portare la musica classica in prima serata, realizzando una serie per gli adolescenti di oggi e di ieri. Ivan Cotroneo, già con Un bacio autore di grande sensibilità, conferma di possedere un tocco delicato e nel suo piccolo fa magie con un cast di reali studenti del conservatorio chiamati per la prima volta a suonare, cantare e recitare. Qualcuno, per altro, con ottimi risultati: benché il protagonista sia Leonardo Mazzarotto, studente sopravvissuto al terremoto di Amatrice in fuga dal disturbo post-traumatico, spicca per spigliatezza il personaggio irresistibile di Hildegard De Stefano, un'ipovedente che spezza cuori a destra e a manca e si fa beffe del politicamente corretto. Il titolo: il nome di un gruppo WhatsApp che ha radunato gli emarginati e i talenti incompresi dell'orchestra di un Alessio Boni non meno spietato di J.K. Simmons. Di giorno direttore d'orchestra con i modi da canaglia, di notte giustiziere accanto ad Anna Valle per vendicare una figlia vittima d'omicidio stradale, Boni divide la scena con valenti addetti ai lavoro (Giovanna Mezzogiorno, mamma saggia ed evanescente morta nei crolli; Alessandro Roja, spumeggiante zio gay una spanna sugli altri), partecipazioni trash (i cameo di Mika e Michele Bravi; Marco Bocci che scimmiotta con ironia il Bernal di Mozart in the Jungle) e giovani leve. Peccato che la lunghezza degli episodi, gli inserti musical mal realizzati e la fotografia di un irriconoscibile Luca Bigazzi intrappolino la serie in stilemi televisivi che, a tratti, vedasi la stucchevole gita ad Amatrice del finale, cancellano i pregi diffusi al suon di nasi da storcere. Si apprezzano comunque le buonissime intenzioni, le ambientazioni milanesi, il tentativo di opporsi con la controprogrammazione al pessimo Adrian, e tanto basta per dirsi contenti. In attesa di un ritorno con gli stessi drammi vincenti, ma meno auto-tune nei ritornelli, più cura alla regia e altrettante armonizzazioni. (6,5)

Si conoscono da metà delle loro vite, e sono vite lunghe. Uno attore di scarso successo a capo di un'accademia di recitazione, l'altro suo fedelissimo manager. Il mondo del cinema, però, fra strizzate d'occhio e grandi nomi fatti tanto per vanteria, resta sullo sfondo. Si sceglie di parlare d'altro: delle gioie e dei dolori condivisi, della salute che va e che viene, dei segreti della terza età. Non si smette di fare sesso a settant'anni, lo sa bene il sempre affascinante Michael Douglas, che nelle sfilate sui Red Carpet continua a non stonare con Catherine Zeta-Jones accanto. Non si smette di considerare i propri figli alieni, lo ribadisce uno struggente Alan Arkin alle prese con il vuoto della vedovanza – ogni tanto, eppure, eccolo confidarsi con lo spettro della moglie in camera da letto – e con le bizze della figlia, alcolizzata da scortare in rehab. Aggiungete qualche vecchio problema familiare e nuove fiamme, la prostata che fa i capricci sotto le mani indelicate dell'urologo De Vito, l'amore altalenante ra due irresistibili brontoloni che nonostante tutto non si stancano mai della reciproca compagnia. Otterrete, così, The Kominsky Method: ultima fatica di un Chuck Lorre che gioca pedine fortunate e agli scorsi Golden Globe, complici due straordinari mattatori per fiore all'occhiello, sbaraglia una concorrenza agguerrita. Imprevedibilmente e, se lo chiedete a me, non troppo meritatamente. Vista agli inizi di dicembre durante i pasti, la serie è stata una compagnia rapida e indolore di cui parlare soltanto a vittoria avvenuta. Prima, infatti, non mi aveva tentato il bisogno di abbinare i soliti aggettivi, di raccontarvi la solita comedy agrodolce, per la quale a torto non vedevo un futuro. La seconda stagione è già stata confermata ai piani alti e questa strana coppia non smette di mietere consensi in rete (chiedetelo a Lisa, ad esempio, gerontofila doc). Affezionato all'umorismo nero di Vicious non meno che alla galanteria di The Old Man and the Gun, invece, io mi sono scoperto lontano dall'ironia più godereccia di Lorre; da una serie sulla settima arte a cui il cinema manca, strano ma vero, che nel giorno giusto potrebbe forse strapparvi più lacrime che risate. (6,5)

sabato 9 febbraio 2019

Recensione: Due fiocchi di neve uguali, di Laura Calosso

| Due fiocchi di neve uguali, di Laura Calosso. Sem, € 17, pp. 251 |

Mi chiudo dentro e butto via la chiave. Chi non l'ha mai pensato davanti a una scelta, a un dolore, a un incomprensione? Sarebbe molto più facile, la vita, in una bolla a tenuta stagna che tenga fuori la paura del futuro e, a malincuore, anche la luce. Ci sono modi diversi per affrontare un bivio: scegliere, mettendo a fiducia un piede dopo l'altro, oppure voltarsi dall'altra parte e scappare finché i piedi reggono. Puoi fare come Margherita, oppure come Carlo. Hanno diciotto anni e una perspicacia che, a tratti, vivono come una maledizione: qualcuno diceva, infatti, che più si è intelligenti e più si è destinati al tormento. Lei, la frangia troppo corta e il test di Medicina nei piani, prende un treno per raggiungere un'amica ad Alassio: il mare, studiare, anche se a impensierirla è quel padre falciato dalla crisi economica. L'uomo che le ha insegnato a essere buona e studiosa, a coltivare uno spirito di abnegazione profondissimo, ha smesso di leggere poesie la domenica: da piccolo imprenditore ad aiuto salumiere, adesso non pensa più che ogni sacrificio sia debitamente ripagato e l'affezionata figlia, vedendolo sull'orlo del baratro, tentenna insieme a lui. Se non esiste meritocrazia in questa Italia tutta da deridere, cosa farsene del cento e lode al Liceo classico e delle annotazioni fitte – sulle stelle, gli atomi, le fusioni nucleare, i misteri del cervello – ai margini dei libri di testo? Carlo si è posto la domanda ben prima di lei: cresciuto da una mamma single che ha fatto di lui il suo bambino perfetto – la camicia azzurra per far pendant con gli occhi, i capelli con la riga di lato da bravo alto-borghese –, si è ribellato alle aspettative altrui e ha scelto di dare forfait nell'anno delle scelte cruciali. Ha saltato la maturità, si è rifugiato nella sua stanza, ha chiuso le incombenze all'esterno. Gli basta poco: il bagno in camera, tapparelle che taglino fuori tutta la luce del mondo, risme di carta su cui disegnare banchi di pesci che nuotano verso il fondo dell'abisso, la Playstation e le chat. I pranzi passati attraverso una feritoia nella porta, l'illusione di ricominciare daccapo almeno nei videogiochi.

Gli occhi di Carlo restano su di lei ancora per un attimo, poi abbassa lo sguardo sulla punta della sue scarpe da ginnastica. Sembra stia cercando il coraggio per replicare. “Non sono unico”, dice a bassa voce “sono soltanto solo”.

Margherita e Carlo, un tempo, sono stati compagni di studio: i compiti insieme, uno strappo in motorino, contatti timidissimi. A riunirli è la notte di San Lorenzo da cui il romanzo di Laura Calosso prende avvio: una macchina precipita su una spiaggia ligure, come una stella cadente, e a bordo ci sono Margherita (che finisce in coma) e un ragazzo sconosciuto (che, al contrario, muore sul colpo). I protagonisti sono mondi da esplorare, misteri irrisolti, e l'uno potrebbe sbrogliare la vicenda dell'altro. Peccato che faranno fatica a incrociarsi, come rette parallele, nel corso di una lettura che predilige il punto di vista di lei sacrificando troppo l'interessante protagonista maschile: Carlo, che ha avuto l'egoismo e il coraggio che mancavano a Margherita. Li studia ma non a sufficienza un'autrice dal tocco delicato, con una narrazione in punta di piedi per entrare meglio nel travaglio, nell'intimità, di due adolescenti sfuggenti e complessi più di altri. In quel modo si fidano della Calosso, e si lasciano raccontare. Ma lo stile, sommesso per paura di disturbarli, sfortunatamente non è di quelli che conquista: pochi dialoghi, capitoli epigrafici, citazioni scientifico-filosofiche che vorrebbero ricordare il premiato esordio di Paolo Giordano. La sensazione di freddezza e apatia comunicata dalla copertina non mi ha abbandonato. Il romanzo, già di per sé dal respiro breve, si limita a ruotare per 250 pagine attorno agli stessi, sporadici avvenimenti, mostrandoceli da punti di vista impercettibilmente diversi; indagandoli ma non abbastanza. Apprezzo, eppure, le storie che sanno lasciarsi condurre dai loro protagonisti: senza artifici, senza bisogno di grandi trame. Il gioco funziona, però, quando quei protagonisti li capisco, quando li faccio miei. Questi mi sono rimasti dei perfetti sconosciuti: uno chiuso nella sua cameretta, l'altra nelle nebbie del coma. Non li ho compresi fino in fondo, né mi sono appassionato alla loro compagnia: il guidatore seduto accanto a Margherita – Gabriele, figlio di papà che calza Louboutin e prevedibilmente cova i dispiaceri dei poveri ragazzi ricchi –, in particolare, mi è sembrato una comparsa capitata sul set sbagliato.

Ogni cristallo nasce e si sviluppa attraversando condizioni di pressione, umidità e temperatura diverse ogni volta. La storia di ciascun cristallo non potrà mai essere uguale a un'altra. E questo è una forma di solitudine.

Gli eschimesi hanno parole per distinguere i fiocchi di neve. Sono un'infinità e tutti diversi fra loro, perciò necessitano di un lessico su misura. Così le gioie e i dolori degli adolescenti: secondo Giordano, inavvicinabili numeri primi. Laura Calosso, curandosi non soltanto delle analogie ma anche delle differenze, si mette in cerca del comune denominatore. Invano? 
I fiocchi di neve, Margherita e Carlo, non possono evitare di schiantarsi al suolo e sciogliersi, invisibili. Colpa delle amare delusioni di questo inizio febbraio, delle stelle, o della forza di gravità.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio: Ultimo – Ti dedico il silenzio

giovedì 7 febbraio 2019

Blog Tour "Bianco Letale", di Robert Galbraith: ricapitolando i casi di Cormoran Strike


Amici, è ufficiale. Cormoran e Robin sono finalmente tornati. È passato ormai un po' da quando, durante il primo anno all'università, avevo divorato nella mia stanzetta da matricola la loro indagine introduttiva, scoprendo una Rowling divertita e perfettamente credibile nelle vesti di novella Agatha Christie: serviva forse uno pseudonimo maschile a farcene dimenticare la connaturata classe? Se tra me e la serie televisiva prodotta dalla BBC purtroppo non è scattata la scintilla e gli altri esperimenti della mamma di Harry Potter non piacciano affatto – Animali fantastici, dico a te, che con il tuo secondo capitolo ci hai regalato uno dei peggiori film dello scorso anno –, comunque resta una certezza: questa volta si intitola Bianco letale, sfiora le ottocento pagine per rendere meno doloroso l'inevitabile arrivederci e ha il pregio di fugare la nostra curiosità, si spera, attraverso un altro caso al cardiopalma. Facendo il conto alla rovescia per gustarmelo – in questo periodo preme la scrittura della tesi, e a malincuore risulta sconsigliato dedicarsi a letture tanto corpose lavorando a pieno regime: il romanzo, però, è già pronto sul mio comodino e vi ricordo il Review Party l'11–, nella mia tappa del blog tour a tema ricapitolo insieme a voi i casi precedenti. Pronti, via!

Titolo: Bianco Letale
Editore: Robert Galbraith
Numero di pagine: Salani
Prezzo: € 24,00
Numero di pagine: 784
Data di pubblicazione: 4 febbraio 2019
Sinossi: Quando il giovane Billy, in preda a una grande agitazione, irrompe nella sua agenzia investigativa per denunciare un crimine a cui crede di aver assistito da piccolo, Cormoran Strike rimane profondamente turbato. Anche se Billy ha problemi mentali e fatica a ricordare i particolari concreti, in lui e nel suo racconto c’è qualcosa di sincero. Ma prima che Strike possa interrogarlo più a fondo, Billy si spaventa e fugge via. Cercando di scoprire la verità sulla storia di Billy, Strike e Robin Ellacott – una volta sua assistente, ora sua socia – seguono una pista tortuosa, che si dipana dai sobborghi di Londra alle stanze più recondite e segrete del Parlamento, fino a una suggestiva ma inquietante tenuta di campagna. E se l’indagine si fa sempre più labirintica, la vita di Strike è tutt’altro che semplice: la sua rinnovata fama di investigatore privato gli impedisce di agire nell’ombra come un tempo e il suo rapporto con Robin è più teso che mai. Lei è senza dubbio indispensabile nel lavoro dell’agenzia, ma la loro relazione personale è piena di sottintesi e non detti…

Il richiamo del cuculo: l'angelo che non volava.
Ha avuto inizio tutto da qui. Cormoran cercava una segretaria che ne sopportasse gli odori, il disordine, i modi burberi; Robin si spingeva in un vicolo di Londra in cerca di un incarico che la distraesse da una relazione perfetta solo all'apparenza. Per la loro fortunatissima collaborazione, e per il nostro istantaneo colpo di fulmine, galeotto era stato un cadavere: quello della top model Lula Landry, detta “Cuckoo”, precipitata dal terzo piano del suo invidiabile appartamento con vista. Suicidio oppure omicidio? Se sei giovane, bella e hai il mondo dell'alta moda che ti rema contro, meglio accantonare l'idea della depressione e mettersi alla ricerca del colpevole. Sarà insospettabile.

Il baco da seta: l'editoria uccide.
Dalle passerelle alle case editrici, meno sfavillanti ma altrettanto letali, il passo è breve. Tanto era classico e teatrale l'intrigo del romanzo introduttivo, tanto scandalizza per violenza e causticità questo secondo tassello. La Rowling si sporca le mani, e a macchiarle è sangue copioso. Questa volta la vittima è Owen Quine, scrittore controverso in attesa di pubblicare Bombyx Mori: titolo quanto mai programmatico se l'ultimo manoscritto era una bomba a orologeria pronta a denunciare il peggio dell'editoria britannica. L'uomo è stato eviscerato, cosparso di acido, condannato alla medesima fine del protagonista del suo inedito. Tutti lo odiavano, tutti lo temevano. Investigare sarà meno facile, soprattutto se salterà fuori senza avvisare una ex di Cormoran a scombinare le carte in tavola: proprio quando tra lui e Robin, non più semplice segretaria bensì suo braccio destro, iniziava a esserci finalmente del tenero.

La via del male: le bugie hanno le gambe... mozze.
Robin, eterna fidanzata di Matthew, è pronta a fare il grande passo. Seduta nel solito ufficio, attende forse un mazzo di rose, forse le macchine fotografiche usa e getta da distribuire agli invitati al matrimonio. Il corriere, figura chiave nel cuore dei blogger di ogni dove, malauguratamente la sorprende con una consegna ben diversa: una gamba mozzata. Il mandante, vecchia conoscenza di Cormoran, mira a far crollare il detective privato. Se la stampa parla già del ritorno di Jack Lo Squartatore, la serie con la firma del fittizio Galbraith va facendosi sempre più pulp e irresistibile: la rosa dei loschi sospettati, a questo giro, somiglia alla formazione dei cattivissimi membri della Suicide Squad.

Calendario
3 Febbraio - Aspettando Cormoran - (Desperate Bookswife - Baba) 
4 Febbraio - Dove eravamo rimasti? (L'ennesimo Book Blog
5 Febbraio - Chi sono Cormoran e Robin? (La Tana di una Booklover)
6 Febbraio - Serie Noir. Perché leggere Roberth Galbraith (Un libro per amico
7 Febbraio - Ricapitolando i casi Di Cormoran Strike (Diario di una dipendenza)
8 Febbraio - E la Serie? Dal libro agli schermi della BBC (La tana di una booklover)
9 Febbraio - Londra e l'ambientazione per un giallo (Desperate Bookswife - Nadia)

lunedì 4 febbraio 2019

Recensione: La falena dalle ali d'ombra, di Francesca Di Maro

| La falena dalle ali d'ombra, di Francesca Di Maro. Bookabook, € 16, pp. 400 |

Valentine Klein, ventotto anni, codardo, attore, si è ribellato alla famiglia alto-borghese andando a vivere in un casermone affacciato sulla città senza connotati né nome di un romanzo di Donato Carrisi. Deve guardarsi attentamente alle spalle, quando rincasa, e schivare le siringhe nascoste nell'erba alta. Barcamenarsi, ancora, in un pittoresco vicinato che conta maghe, prostitute, spacciatori e fornai maneschi, mentre al lavoro non trova pace. Si divide fra tre occupazioni per sbarcare il lunario – interprete teatrale, dogsitter, insegnante privato – e si dividerà fra tre donne – la collega Sarah, la spogliarellista Fara, la pittrice Wendy –, come il suo animo irrequieto esige. Valentine Klein è un assassino efferato, ma soltanto a parole. Guai a entrare nella sua lista nera: ha dato fuoco alla dispotica dirimpettaia, guardato un faretto schiantarsi in mille pezzi sulla testa del regista, gettato un nerboruto buttafuori in fondo al fiume, e le cose non sono andate meglio né a una mamma con cui ha qualche conto in sospeso né ai suoi allievi irritanti. Frustrato tanto sul palcoscenico quanto in privato, il protagonista condivide questi cattivi pensieri con Amleto: il principe shakespeariano a cui presta volta nell'ennesimo rifacimento, interiorizzando un bellissimo monologo che parla di spettri, colpe e redenzione. Sì, perché in questa versione del copione l'eroe tragico accarezza la speranza nell'atto conclusivo: farà lo stesso anche Valentine, che merita l'assoluzione dei nuovi inizi?

Credi davvero che ci siano persone non disturbate a questo mondo? È la vita che ci disturba, nasciamo già così, scomodati a venire alla luce, strappati dalla “non esistenza” che era il nostro nascondiglio caldo. No, tu non sei disturbato più di chiunque altro. Hai solo più fantasia di tutti noi messi insieme; il tuo talento è la tua condanna!

La falena dalle ali d'ombra spartisce con il suo protagonista una doppia personalità, un doppio fondo, una doppia natura. Diviso in due e per questo, forse, riuscito a metà. All'efficacia della prima parte, irresistibile mattanza nello stile di You e American Psycho, segue la vaghezza della seconda. Che prende avvio altrove, lontano, e ci racconta un altro aspetto di Valentine, una storia d'amore che all'inizio disorienta un po'. Dov'è il sociopatico represso? Dove, il thriller? Ci si sposta a Cape Town, in una vacanza/fuga in Sudafrica, e qui conosciamo l'espiazione nella dolcezza di Wendy: il lungo e ozioso soggiorno da innamorati si conclude con il ritorno dove tutto ha avuto inizio, ma con lei accanto che intanto arreda un appartamento spoglio e con pazienza scaccia via gli incubi. Questa volta va in scena Romeo e Giulietta e Valentine approfitta del piccolo ruolo di Mercuzio per lavorare a un copione tutto suo. Qual è il confine fra realtà e immaginazione? Quando un pensiero rompe le dighe e gli argini, riversandosi nel reale? L'esordiente Francesca Di Maro, attraverso una scrittura raffinatissima e descrizioni particolareggiate non soltanto nell'orrore, lavora così a un accurato scavo psicologico in cui gli estremi della cartella clinica sfuggono e le etichette si confondono. Il suo protagonista è forse colpevole, se gioca al tristo mietitore giusto fra sé e sé? La falena dalle ali d'ombra è un thriller, se la seconda parte subisce tutta un'altra virata con un certo rammarico degli appassionati del gore, del teatro, delle figure borderline? Mi domando come sarebbe stata la stessa storia con qualche taglio strategico qui e lì, senza il contrappeso dell'entrata in scena di Wendy. Ne avrebbe guadagnato in sveltezza, per quanto scorrevole risulti comunque, e avrei sentito meno la nostalgia dei divertentissimi scatti d'ira degli inizi, delle accese sfumature pulp, stemperate a malincuore man mano che il personaggio va facendosi tragico, dannato, romantico.

Gli sembrava di vederla, la sua essenza, fumosa e scura, librarsi dal corpo come una farfalla notturna; lentamente, con ali spiegate che si allungavano come ombre deformi sui muri grigi della notte, della sua notte. Fu in quel momento che diede il titolo all'opera: La falena dalle ali d'ombra, che altro non era che la sua anima, o addirittura la rappresentazione di tutte le anime, sorelle gemelle, aliti identici di un'unità superiore.

Valentine Klein, ventotto anni, codardo, attore, eppure è un personaggio carismatico come non ne incrociavo da tempo. Enfatico, melodrammatico, originalissimo, è un oratore talmente incisivo e affascinante che trovare la sua compagnia indispensabile è un attimo. Se non l'empatia, infatti, è assicurata la fascinazione verso i suoi modi, i suoi mondi, le sue esistenze parallele. Artefice di omicidi a tinte splatter e di monologhi interiori dalla notevole levatura drammaturgica, risente a tratti degli equilibri altalenanti di una farsa satirica dove la finzione – che sia la minuziosa scrittura di Francesca o il mestiere dell'interprete poco importa – è bellezza da preservare, anche con la violenza. La falena si brucia perché attratta dalla luce. Per fortuna non si bruciano i pregi di un esordio di grande stile ma dalla tessitura incerta, attratto ora dal troppo di sottotrame, divagazioni e comprimari che sul lungo tratto stroppiano; ora dal merito delle luci della ribalta.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: The xx – Fiction