martedì 27 luglio 2021

Recensione: Due vite, di Emanuele Trevi

 
| Due vite, di Emanuele Trevi. Neri Pozza, € 15, pp. 128 |

Somigliava al suo nome, Rocco Carbone. Ruvido e scuro, originario di Reggio Calabria, pareva l'eroe tormentato di un romanzo di Jack London. In trasferta nella labirintica Roma, rifuggì la vita accademica per rifugiarsi nella scrittura: non un piacere, bensì un'ossessione. Bipolare, Rocco cercava disperatamente di opporsi al caos attraverso la parola scritta e di scorgere una fuga dalla propria infelicità. Morì nel 2008, in un incidente stradale, senza ottenere mai il successo sperato. Pia Pera, scrittrice e traduttrice dal russo, aveva invece l'aria di una madama inglese d'altri tempi. Limpida, discreta, ma sostanzialmente inconoscibile, coglieva talora in contropiede con descrizione di sesso particolareggiate o con progetti destinati a scontentare: riscrivere il capolavoro di Nabokov, ad esempio, attraverso il punto di vista dell'oggetto del desiderio. Masochista, si legava agli uomini sbagliati. Fu uno di loro a farle notare impietosamente che zoppicava: erano i primi segni della SLA. Sarebbe morta nel 2016, curandosi degli affetti e del giardino in un incantevole podere di Lucca.

Io non credo, non ammetterò mai che un dolore o una malattia servano a qualcosa, è solo una consolazione moralistica, e comunque rinuncerei volentieri a questi famosi frutti della sofferenza. Non siamo nati per diventare saggi, ma per resistere, scampare, rubare un po’ di piacere a un mondo che non è stato fatto per noi.

Diametralmente opposti – maestro del risentimento lui, leggerissima lei –, questi autori a me sconosciuti rivivono per magia nei ricordi di un amico comune. Alla maniera di Plutarco, Emanuele Trevi intreccia esistenze parallele ricercando analogie e differenze: non aspettatevi un romanzo canonico. Due vite è una doppia biografia, è un saggio di scrittura creativa e critica letteraria, è una seduta spiritica. Rocco e Pia si materializzano nel nostro salotto e, per mano, ci conducono con commovente delicatezza tra nevrosi e piccole premonizioni. Razionale eppure pieno di sentimento, attraverso una prosa d'arte che l'amico avrebbe giudicato forse un po' antiquata, Trevi firma un elogio funebre mirabile, sofisticato, misuratissimo. Vince il premio Strega. Lettura lontana da me, intrapresa soltanto per sbirciare sul proverbiale carro del vincitore, Due vite non mi ha fatto ricalcolare d'un fiato i confini della mia comfort zone – preferisco la narrativa all'autofiction –, ma merita comunque tutti gli onori. Ci sono, infatti, opere mosse da un'innegabile urgenza interiore: quelle scritte più per sé stessi che per gli altri.

Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene. E quando anche l’ultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene, allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande e interminabile festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno.

Trevi piace per la sua sincerità e, al contempo, coglie in contropiede: ho avuto l'impressione di sbirciare una corrispondenza privata, un lascito testamentario, e mi scopro incapace di formulare giudizi radicali davanti a qualcosa di tanto intimo. Rubando le parole all'autore, il suo libro è come un dipinto impressionista. A seconda del nostro punto di vista, potrebbe apparire o troppo confuso – un insieme di macchie – o troppo comune – un album di foto in bianco e nero. Alla giusta distanza, tutto cambia. Gli occhi saettano dal particolare al generale. E aguzzando lo sguardo, nell'universalità del dipinto, potremmo vederci a nostra volta ritratti. Abbiamo un po' di Rocco, abbiamo un po' di Pia. Ma abbiamo qualcuno, accanto a noi, che somigli a Emanuele? Un amico, un confessore, un custode? Mi auguro di sì, in modo da avere in regalo una seconda opportunità, due vite: una vissuta – spesso derelitta – , una rimembrata – bella come un romanzo da palmarès –. 

mercoledì 21 luglio 2021

Brevi e romantiche: Foodie Love | Master of None S03 | Generazione 56K | Chiamami ancora amore

Lui e lei non hanno un nome. In un'era senza pandemia, si incontrano grazie a una app pensata per gli amanti della buona cucina. Parlano moltissimo, temporeggiano e divagano, ma non si dicono niente l'uno dell'altra. Braccati dai fantasmi delle relazioni passate, ci mettono la bellezza di cinque episodi per scambiarsi un bacio. Bevono cose sofisticate, mangiano squisitezze degne degli chef stellati, si muovono tra Spagna, Italia, Francia e Giappone. Quanto sono connessi stomaco e cervello? E il cuore, in quest'equazione, che ruolo ricopre? Laia Costa, al solito cosmopolita e disinibita, è un'editor che filosofeggia di croste sul cuore che sarebbe meglio non grattare. Il fascinoso Guillermo Pfenning, invece, è un matematico che si è preso un anno sabbatico: si lamenta un po' troppo, e un po' troppo confida nel prossimo. Di loro ci parlano quelle conversazioni che sono un piacere origliare, ma anche le nuvolette che raccolgono i loro pensieri segreti o quelli degli altri avventori. Ciarlieri ma impenetrabili, diretti magnificamente da Isabel Coixet, ispirerebbero un tour gastronomico in tempi migliori di quelli correnti. Esistono davvero quei locali così telegenici, che qui offrono alla coppia fondali incredibili? In un viottolo della Città Eterna c'è forse una gelateria con una filosofa al bancone, che sembra essere proprio la nostra Littizzetto? È il Normal People della generazione successiva. È il Prima dell'alba al tempo degli algoritmi. Ma preferisce citare Secretary, Io e Annie, Hiroshima Mon Amour e spaziare, nella colonna sonora, da Vinicio Capossela a Mina. È loquace, è colto, è spudoratamente sexy, è una gemma preziosa che in piena pandemia mi ha fatto sentire nostalgia del contatto carnale e dei ristoranti assiepati. Guardatelo su Rai Play. Perché Foodie Love insegna che le cose belle – e quelle brutte pure – sono inutili se non condivise con qualcuno di speciale. (8)

Si chiama Master of None. È scritta, diretta e recitata dalla stessa persona: un genio incompreso. Oggi resta la serie più sottovalutata di casa Netflix. Perché recuperarla? Per lo sguardo indie irresistibile, l’ironia raffinata e perché il protagonista Dev, attore aspirante, nella seconda stagione omaggiava il cinema di De Sica e faceva innamorare una Mastronardi radiosa come non mai. Lontano dalle scene per diversi anni, Aziz Ansari è stato travolto da accuse per molestie cadute in quattro e quattr’otto. Ritorna, finalmente, ma questa volta sceglie di starsene in disparte. Di non far parlare di sé e di rendere omaggio proprio a loro, le donne: la terza stagione di Master of None è un gesto per scagionarsi. Lontani anni luce dagli episodi precedenti, più drama che comedy, Istanti d’amore segue gli alti e bassi di una coppia nera e omosessuale mentre l’età adulta e l’orologio biologico seminano nuove prerogative. Come perdonare un tradimento? Cosa fare di quell’invidiabile cottage di design, arredato con simmetrie certosine? A quando, soprattutto, un figlio? La serie spiazzerà i fan. Ne scontenterà più di qualcuno. Ha toni agli antipodi, sembra un dramma di Baumbach. Dev, che ha smesso di fare l’attore e sta perdendo i capelli, vive a casa coi suoi e ha un ruolo marginale. La regia, al solito impeccabile ma glaciale, è fatta di campi lunghissimi, musica operistica e di un claustrofobico 4:3. Contro ogni pronostico, io mi sono abituato in fretta. E ho trovato il primo episodio bello – il focus è su Denise, la migliore amica di Dev –, il quarto un capolavoro – complice la rivelazione Naomie Ackie, che ci guida nel percorso accidentato della fecondazione assistita –, il quinto un agrodolce e bellissimo ritorno alle origini. Si chiama proprio così, questa serie: Maestro in nulla. Ma davanti a tanta bellezza inattesa, davanti a tanta chimica, ancora una volta si fatica a prestar fede alla modestia del titolo. (8)

Può il primo amore avere una seconda possibilità? Daniel e Matilda, compagni di classe alle scuole medie negli anni Novanta, si rincontrano a trent’anni con un appuntamento al buio: peccato che ci sia un equivoco alla base e che lei, restauratrice, stia per convolare a nozze con Enea, regista teatrale dall’adorabile accento britannico. Deluso, il protagonista – che per mestiere sviluppa app d’incontri – si lascia andare ai ricordi d’infanzia e a due voci, tra un passato sfavillante e un presente dubbioso, costruisce tassello dopo tassello questo ritorno di fiamma. L’avvento di internet ha facilitato o complicato le nostre esistenze? Le relazioni: meglio senza modem? La magia dell’isola di Procida e i consigli degli amici di sempre, interpretati dai divertentissimi Fabio Balsamo e Gianluca Fru, faranno la differenza. Da un’idea di Francesco Ebbasta, trentaquattrenne napoletano che ha contribuito al successo dei The Jackal su YouTube, arriva su Netflix la commedia sentimentale di cui il tuo umore storto non sapeva di aver bisogno. Stremati dal caldo e dalla noia del mese di luglio, correte a rifugiarmi negli otto episodi di Generazione 56K. Un tuffo piacevole, nostalgico e leggerissimo nei migliori anni della nostra vita, con uno scenario da cartolina che farebbe l’invidia della Disney Pixar e una coppia rivelazione – i bravi e belli Angelo Spagnoletti e Cristina Cappelli –, che si prende, si lascia e si riprende ancora in mezzo a pile di floppy disk e canzoni degli 883. (7)

Incuriosito da un intenso spot, dove al romanticismo del giorno delle nozze si alternava un ballo in cui i protagonisti non riuscivano neanche a sostenere l’uno lo sguardo dell’altro, ho seguito in diretta le prime due puntate. Da lì non mi sono perso nemmeno gli appuntamenti settimanali successivi. Ci sono una coppia in lotta per l’affido del figlio, piccola promessa del calcio; le ricerche a tappeto degli assistenti sociali; i ricordi di un amore ormai sbiadito. Conoscendo gli standard della TV generalista, sarebbe potuto venirne fuori il classico amarcord. Invece questa fiction in sei puntate è una rissa che, a suo piacimento, colpisce basso. Contemporaneo, moderno, dolorosissimo, ricorda Lacci e Storia di un matrimonio. E a me ha ricordato il tracollo vissuto dalla mia famiglia con una puntualità animale. Può una grande passione cedere il passo a un odio velenoso? Succede a Greta Scarano e Simone Liberati, protagonista di due performance da applausi, al centro di una guerra in cui tutto è lecito: troppo impegnati a ferirsi reciprocamente, purtroppo, non pensano alla reale vittima del conflitto. Il figlio. Lontana dai cliché Rai, scritta bene e recitata meglio ancora, la serie di Giacomo Bendotti e Gianluca Maria Tavarelli ha il coraggio di parlare fuori dai denti d’interruzione di gravidanza, depressione post parto, abusi familiari, fecondazione assistita. È l’anti This is us per antonomasia. I Pearson sono perfetti, i Pearson sono degni d’invidia. Ma la mia famiglia somiglia più a questa. Sfasciata, imperfetta, un po’ cafona. E rivederci ha fatto bene e, insieme, male. (7,5)

sabato 17 luglio 2021

Recensione: Il libro delle cose nascoste, di Francesco Dimitri

| Il libro delle cose nascoste, di Francesco Dimitri. Longanesi, € 18, pp. 352 |

È il dieci giugno. E come ogni anno, da tanti anni, un gruppo di amici si riunisce rispettando un giuramento solenne: quello di non perdersi di vista. Ormai adulti, disillusi e amareggiati, devono fare i conti con un posto vuoto a tavola: perché Art, l'anima della compagnia, è assente? Incostante e poliedrico, protagonista perfino nell'assenza, questo personaggio è un giallo da risolvere. Ma la sua assenza è soltanto il primo dei misteri del Libro delle cose nascoste, secondo romanzo di Francesco Dimitri che leggo dopo il bellissimo L'età sottile.

Qualunque cosa accada, ovunque ci porti la vita, ci incontreremo in questo posto, in questo giorno, a quest’ora. Non fa nessuna differenza se per il resto dell’anno non ci vediamo mai, o se invece ci sentiamo regolarmente. Non faremo mai menzione del nostro rendez-vous. Non cercheremo mai di cancellarlo o di spostarlo. […] Ci siederemo al nostro tavolo e faremo finta che il tempo no sia passato. E fanculo al mondo reale.

L'autore e saggista italiano, considerato un'eccellenza del fantasy, racconta nuovamente il fascino brullo del Salento ma questa volta in un'altra lingua: scritto in inglese e pubblicato con successo all'estero, il suo ultimo romanzo arriva in Italia in traduzione e con un notevole ritardo. Avvincente e cinematografico, con toni pulp che ricordano un po' il cinema di genere degli anni Settanta, il romanzo è vittima della troppa carne al fuoco e dei cliché in surplus. Raccontato a voci alterne dai protagonisti, l’autore propone un trio di personaggi alle prese con le classiche nevrosi della mezza età. Fabio, fotografo di moda pieno di debiti, ha un debole per la moglie del migliore amico; Mauro, avvocato, vive annoiatamente il ruolo di padre e marito; Tony, chirurgo omosessuale, fa i conti con i vecchi fantasmi dell'intolleranza. Non mancheranno le abbuffate, le scene di sesso spinto e procaci femme fatale – tutte così le figure femminili: meglio farci il callo –, sbucate quasi da una comune fantasia adolescenziale. In sella a una Vespa, Fabio e gli altri se ne vanno a zonzo in un Sud all'apparenza immutabile, in cui la fissità inquietante del paesaggio e della società sembra il frutto di una maledizione. A ritmo di taranta, Dimitri conduce i suoi eroi in un viaggio fosco e peccaminoso, tra trulli trasformati in camere sadomaso e coreografici rituali mafiosi. Art, intanto, avrà pestato i piedi al boss sbagliato?

Le Cose Nascoste non si curano di noi, ma in alcune circostanze mordono, proprio come le vipere. E quando succede, non serve a niente invocare l’aiuto dei santi: non ne danno alcuno. Perché i santi, come le vipere, sono Cose Nascoste.

Le risposte si annidano nel fitto di un uliveto, in cui l'amico già sparì all'età di quattordici anni; nei confini demarcati dai muri a secco, che sembrano separare o dischiudere mondi possibili; in un manoscritto battuto fittamente a macchina – lo stesso che dà il titolo al romanzo –, in cui si farnetica di contrade segrete e ricerche del tempo perduto. Con abilità innegabile, Francesco Dimitri doma lo scirocco e trasforma il quotidiano in magia al pari della collega Lavinia Petti. Ma questa volta l’elemento fantasy è appena accennato e la presenza del soprannaturale, sottile e sfuggente, è un dubbio mai chiarito del tutto, insieme al contenuto del famigerato Libro delle cose nascoste. Benché mi abbia divertito, risvegliando in me l'adolescente che amava le lunghe amicizie di Stephen King e i campi di grano di Niccolò Ammaniti, dopo tanta attesa sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosa di più.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Negramaro - Singhiozzo 

mercoledì 7 luglio 2021

Recensione: Promesse, di Bryan Washington

| Promesse, di Bryan Washington. NN Editore, € 18, pp. 352 |

Mike, giapponese, fa il cuoco in Texas. Ben, afroamericano, sieropositivo, è un maestro d'asilo. Fanno coppia da quattro anni. Si sono incrociati a una festa di amici di amici, poi si sono ritrovati su una app d'incontri. Giunti ormai a un bivio, litigano spessissimo e rimediano dandosi a quel sesso riparatore che lascia addosso una vaga tristezza. La loro relazione, avvizzita più che matura, è fatta di sporadici momenti di romanticismo e di compromessi infiniti. Cosa sarà di loro? La domanda si complica quando la loro convivenza, un tempo privata, diventa una questione di famiglia. Nessuno ha risposte consolatorie, neanche i genitori: tutti divorziati, spesso incapaci di voltare pagina, elaborano in maniera goffa i propri fallimenti sentimentali. Il romanzo di Bryan Washington prende avvio con la partenza di Mike per Osaka: quando la madre, Mitsuko, giunge in visita a Houston, lui è costretto a volare in Giappone per riappacificarsi con il padre, Eiju, affetto da un tumore all'ultimo stadio. Scappa forse lontano dal compagno? Soprattutto, tornerà indietro?

Una storia è un cimelio, dice. Una cosa personale. I cimeli non si chiedono. Ti vengono dati e basta.

Questa è una vicenda tenera e laconica di convivenze segnate dall'incomunicabilità. Caratterizzata da un'intimità palpabile, a volte irresistibile e altre dolorosa, racconta di culture agli antipodi e radici, di ritorni alle origini e ritorni di fiamma. Mentre Ben è obbligato a dividere l'appartamento con la suocera, una granitica fata madrina che cucina continue prelibatezze e si commuove segretamente davanti ai film di JLo, Mike raccoglie l'eredità del padre: a sorpresa, un anziano gioviale e benvoluto, che ha deciso di sospendere le terapie e di affidare al figlio il bar di sua proprietà. Il riavvicinamento andrà di pari passo col decadimento fisico di Eiju. Lieve e schietto, fortemente contemporaneo, Washington riporta i dialoghi senza le virgolette. Cattura i gesti, gli sguardi, le smorfie e i sorrisi attraverso una narrazione spontanea nel suo disordine, che intreccia a piacimento i ricordi dei protagonisti con gli eventi raccontati.

Senti, ha detto Mike. Solo perché qualcosa non funziona non significa che sia rotto. Devi avere voglia di aggiustarlo. Ci deve essere la volontà. Allora dimmelo. A te va di aggiustarlo?

La trama è appena accennata, l'epilogo sospeso, e qui si muovono senza copione personaggi completamente a piede libero. Come succede anche nei romanzi di Sally Rooney, tuttavia, alla curiosità iniziale subentra strada facendo un po' di monotonia: colpa di una parte centrale non esente da lungaggini, che sceglie di soffermarsi eccessivamente sul soggiorno di Mike glissando invece sugli sviluppi di Ben, e di uno stile all'inizio fresco e colloquiale, poi appesantito da capitoli densissimi. Promesse è una commedia indipendente che parla di identità, sessuale e culturale; dei luoghi e delle persone da considerare, finalmente, casa nostra. In copertina non sventola nessuna bandiera. Né giapponese, né americana, né arcobaleno. C'è semplicemente una busta in balia del vento. Perché Mike e Benson, scostanti, fuori forma e separati dai non detti, sono un casino e basta. Ma d'altronde ce l'ha insegnato American Beauty, in una scena che ha fatto istantaneamente la storia del cinema: anche una busta volante può essere un capolavoro.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Alphaville - Big in Japan 

giovedì 1 luglio 2021

Recensione: Tre gocce d'acqua, di Valentina D'Urbano

| Tre gocce d’acqua, di Valentina D’Urbano. Mondadori, € 19, pp. 372  |

Alla nascita l'hanno chiamata Celeste per via della sua pelle traslucida, pallidissima. Successivamente è stata ribattezzata Riccio di mare: da bambina, affetta da osteogenesi imperfetta, si è scoperta fragile e in balia della corrente. A suo fratello Pietro – più grande di una decina d'anni, figlio dello stesso padre ma di una madre diversa – la protagonista deve tutto, compreso il nome. Protetta da un esoscheletro di sarcasmo, isolata dal resto dei coetanei per scongiurare litigi, Celeste nutre un'adorazione viscerale verso il ragazzo, con cui condivide la camera e i dolori. Lui, ribelle e impegnato sin dall'adolescenza, giura di proteggerla da tutto. Ma le ossa di Celeste sono cave, come quelle degli uccelli, e basta poco a incrinarle: un salto di trenta centimetri dallo scivolo le rompe una gamba; colorare energicamente un disegno le spezza le dita. Cosa potrebbe accadere dall'incontro-scontro con Nadir – suo coetaneo, fratello di Pietro –, che nelle estati in piscina a Feudi gioca ad affogarla? Con gli occhi di colori diversi e il viso scavato dall'acne, spigoloso dentro e fuori, Nadir è una bestiaccia maleducata dai modi pericolosi: nella collisione fatale quei due potrebbero ammazzarsi; potrebbero amarsi.

Guardo i miei nove anni impressi sulla pellicola dalla macchina fotografica di Lucrezia. Ho un piede scalzo, i capelli scorciati male e un paio di pantaloncini di cotone rosa a righe bianche. Una serie di lividi scuri affiora sulle gambe nude, a guardarli da qui sembrano una costellazione. Dall’altra parte, Nadir tiene le braccia conserte. Ha un aspetto scontento, anonimo, antipatico, di ragazzino viziato. Proprio come me. In mezzo a noi c’è Pietro. Pietro che posa le mani sulle nostre spalle, come se fosse in procinto di stringerci a sé. In realtà stava cercando di separarci, di sedare l’ennesima zuffa, almeno il tempo necessario per scattare la foto. Lucrezia ci aveva sfiancati per farci mettere in posa, ma di sorridere proprio non se ne parlava. Era il 1994. Era la nostra prima vacanza tutti insieme. Non facemmo altro che litigare.

Vicenda lunga vent'anni a proposito di un triangolo viscoso e ossessivo che suscita invidia nelle persone tagliate fuori, che suona talora ambiguo, Tre gocce d'acqua è raccontato dall'unica donna dell'equazione: bloccata al quarto piano di un appartamento senza ascensore, imbottita di antidolorifici che poco servono contro le domande angosciose o i ricordi laceranti, una Celeste ormai adulta fa i conti con la misteriosa sparizione di quei fratelli giramondo. Zoppicante, ha fatto sempre fatica a stare al passo con le loro utopie reazionarie. A nove anni dal successo del Rumore dei tuoi passi, Valentina D'Urbano torna in libreria con un romanzo che sembra una versione più adulta del suo esordio. L'autrice è uscita sana e salva dalla Fortezza. Adesso ne sa di politica internazionale. È brava in biologia. Per nostra fortuna, non è diventata più educata. Porta con sé la lingua scabrosa che abbiamo imparato ad amare, i pensieri urticanti, le relazioni proibite. Porta con sé, immancabile, il crepacuore. Sai già che colpirà basso. Ma non sai come né quando. Farà male, e da lì la scelta precisa di centellinare le pagine conclusive; di rimandare il finale, prevedibilmente struggente, per paura che possa coglierti scomposto, brutto e inconsolabile, in lacrime, sul treno del ritorno.

Noi sappiamo cos’era Pietro, la materia insopprimibile e misteriosa che lo animava da dentro. È la nostra stessa radice.

Uniti a lei da una fedeltà simile al masochismo, questa volta la seguiamo in vacanza in Grecia – sono gli anni dell'università: danze, canne, alcol, follie – e, soprattutto, tra gli orrori della guerra civile in Siria. Pietro, single impenitente, ha imbracciato il kalashnikov e si è arruolato volontario per combattere in prima linea. Nadir, fotografo reduce da due divorzi, lo segue pur di fuggire dall'attrazione impossibile per Celeste. Fatto di distanze invalicabili, di angosciosi silenzi alla cornetta e di attese su attese, l'ultima D'Urbano ricorda i migliori Paolo Giordano e Margaret Mazzantini per la narrazione ad ampio respiro. È una storia d'amore e resistenza, di resistenza all'amore, in cui i martiri non muoiono. E gli amanti? Ci sono innumerevoli paradossi in questo romanzo, che è una storia di fuochi incrociati ma ha un altro elemento – l'acqua – nel titolo. Spetta infatti a Celeste, all'apparenza la più debole del trio, ergersi a custode dei fardelli di questa strana famiglia allargata. E spetta a una narratrice notoriamente spietata maneggiare il cuore e le ossa di una protagonista di vetro. Valentina D'Urbano è in ogni piede in fallo, in ogni scivolone, in ogni ecchimosi. È il punto di sutura che unisce insieme i lembi strappati di queste tre giovinezze perdute. Ma, a sorpresa, è anche la gommapiuma con cui incartare spigoli e pomelli affinché Celeste non si ferisca.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Vasco Brondi – Ci abbracciamo