venerdì 30 marzo 2018

Recensione: Il sole a mezzanotte. Midnight Sun, di Trish Cook

| Il sole a mezzanotte. Midnight Sun, di Trish Cook. Fabbri Editore, € 18, pp. 205 |

Diciassette anni di buio. Diciassette anni dietro un vetro schermato. Diciassette anni da principessa, vittima di una tremenda maledizione – il coprifuoco di Cenerentola, l'impenetrabile torre d'avorio di Raperonzolo. La vita di Katie, maturanda, è l'esatto contrario delle favole.
Certo, ha la bella voce delle eroine Disney – potreste avere la fortuna di sentirla cantare in stazione, di notte, se passeggeri di un treno che fa le ore piccole.
Certo, il suo vicino di casa, Charlie, non sfigurerebbe nei panni del principe azzurro – le spalle da nuotatore, una borsa di studio molto poco in forse, il curriculum del ragazzo d'oro dell'esemplare provincia americana. La maledizione di Katie ha un nome che fa paura e, impossibile da spezzare con un bacio, potrebbe degenerare da un momento all'altro. Lo xeroderma pigmentoso, una rara allergia alla luce, ha fatto sì che le sue esibizioni in pubblico fossero piccole e occasionali e che Charlie, il dirimpettaio di cui è innamorata sin da bambina, ignorasse la sua esistenza al di là del vetro blindato. Conoscenze: papà, amica di sempre, qualche dottore in caso d'urgenza, il bigliettaio con cui è ormai in confidenza. Aspettative di vita, prima di andare incontro a una degenerazione neurologica: basse; vent'anni appena.

Solo il presente conta.

Il sole a mezzanotte è una storia di un'adolescente che vuole qualcosa di più. Tutto, diremmo, riprendendo alla lettera l'esordio di Nicola Yoon. Anche lì, infatti, una sindrome con pochi precedenti, una piccola fuga romantica, la vita che si fa beffe all'ultimo della paura di morire presto. Manca l'esperienza necessaria per scriverle, le canzoni, dalla finestra sul cortile. La consapevolezza di quanto duri una giornata perfetta e di quanto brucino addosso i raggi, e i sentimenti. Perciò Katie, via il cappuccio della felpa, osa innamorarsi di quel coetaneo tenuto all'oscuro mentre lei sceglie la luce. Perciò Katie, desiderosa di libertà nonostante la sua sfida ci appaia persa in partenza, rischia: le occhiate all'orologio si fanno meno preoccupate, il tempo vola se in dolce compagnia, certe notti rischiano di restare impresse come le migliori e le peggiori della sua giovane vita. Quanto può essere bello, però, il miraggio del giorno che sorge?

So di avere le notti contate e i giorni sempre più brevi. Per questo devo sfruttare al massimo ogni istante che mi resta. Devo restare aggrappata a Charlie per salvarmi.

Young Adult dal tramonto all'alba, meno brillante di Noi siamo tutto ma con più cuore sotto la copertina rigida, Il sole a mezzanotte è un film con Bella Thorne – di solito odiosa ape regina, qui con un copione che potrebbe far la differenza in una carriera in salita ma non felicissima – già arrivato nelle sale italiane. Il remake di un melodramma giapponese, leggevo, e da lì la domanda legittima, il dubbio che non ho saputo ancora fugare: è venuto prima l'uovo o la gallina; il film è nato prima del romanzo di Trish Cook, o viceversa? La lettura, lieve e godibile come non spiace affatto in questi pomeriggi di primavera, ha infatti lo stile frettoloso e senza guizzi, anche se ironico il giusto e melenso affatto, delle sceneggiature pret-à-porter. Di quelle che nel mentre non ti ispirano grandi pensieri, positivi o negativi che siano, con passaggi significativi da ricercare con il lanternino. Succede tutto subito, e ai protagonisti non ci si affeziona poi tanto. I sintomi e il progredire della malattia, accelerati, liquidati in quattro e quattr'otto, fanno apparire lo xeroderma – su carta, eppure, uno spunto vincente – rapido e indolore: un'invenzione letteraria senza il minimo fondamento di verità. La scrittura della Cook non scalda, no. Ma lo stesso non può dirsi del primo amore di Katie, che al cinema – i pareri, fra l'altro, sono positivi – piacerà, e brillerà, più forte. Scottando di febbre e d'amore cuori di vampiro, cuori di burro. 
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Ellie Goulding - Burn

mercoledì 28 marzo 2018

Recensione: L'ultima diva dice addio, di Vito Di Battista

| L'ultima diva dice addio, di Vito Di Battista. Sem, € 15, pp. 209 |

Un appartamento in stile Liberty nel cuore di Firenze. Uno di quelli lussuosi, rari, in un palazzo con balconi a vista e l'Arno a un passo. Si sale al terzo piano senza ascensore e, giunti sull'uscio, è buona abitudine togliersi le scarpe. Per non disturbare il sonno della vedova al piano di sotto che nelle notti, negli anni, ha tanto patito il passo pesante degli ospiti altolocati, il battere sincopato dei tacchi, lo scalpiccio dei passi a due. All'interno, una penombra di abat-jour e merletti, di foto senza colori. I lampadari dondolano dai soffitti, inutilizzati, e accendendoli sembrerebbe di peccare di tracotanza. Di interrompere la sacralità di quelle confidenze sussurrate, di quelle notti bianche che celano ad arte le rughe d'espressione e, con la città addormentata, spingono i nottambuli a scoprirsi intimi. Il frusciare di un registratore. Le scenografie fisse di un dramma da camera in cui i successi, i drammi e gli amori avvengono fuori scena: rievocati da parole che rianimano il passato e, inevitabilmente, lo plasmano. 

Non esiste abitudine per la bellezza.

A metà fra la ribalta e il retroscena siede un giovane uomo che, nel 1974, ha ventisette anni e una crisi esistenziale in corso. Laureato da quattro anni, originario del Sud, ha modi alteri, d'altri tempi, che gli permettono di sacrificare a cuor leggero il presente per il passato, l'amore per la memoria. Innamorarsi gli appare perciò troppo banale, come l'allontanarsi a suon di divagazioni da argomenti che non siano l'arte e le sue eterne muse. L'insonnia: la sua benedizione. Mentre il capoluogo toscano dorme il suo sogno di bellezza, così, un protagonista senza nome prende sottobraccio una donna il cui nome è invece sinonimo di leggenda. Lei siede fumando al centro del palcoscenico, con un taglio di capelli assai audace per una settantenne e una tazza di tè che rabbocca spesso con generosi sorsi di vodka. Per tutto il tempo si rivolge al suo interlocutore con un garbato mio caro, e parla. Non temendo la teatralità di certi silenzi o, come la Norma Desmond dell'intramontabile Sunset Boulevard, implacabili primi piani. Si chiama Molly Buck e, non si sa bene perché, ha accettato di alleggerirsi l'anima e il cuore prima che la reclusione in Costa Azzurra e i fuochi di Capodanno le rubino l'ultimo respiro. Fan, ladro, il protagonista origlia, legge ciò che non forse non dovrebbe, parte. In cerca di quel passato – un figlio illegittimo, una sorella prostituta per scelta, un nobiluomo dal ruolo sfuggente – su cui lei glissa ad arte.

Il punto, mio caro, è che ci vuole coraggio a lasciare un segno di sé in una qualunque altra forma che non sia la memoria delle persone. Perché quella, lo sappiamo bene, dura troppo poco, ma il cinema no, è lì e ci starà per sempre.

L'ultima diva dice addio, biografia fittizia di un'attrice che non c'è, è la storia di un'epifania. Di un tarlo dolcissimo che prima spinge a colmare i vuoti nell'infanzia della candidata al premio Oscar, poi a domandarsi che senso abbia infrangere l'illusione di un'esistenza spesa a regalarne, di illusioni. Quando il cinema si chiamava come lei, i rotocalchi e i giornali scandalistici scarseggiavano. Le stelle risaltavano meglio nel dubbio, nell'oscurità del mistero. Strano ma vero, a volte trovavano il corraggio di arrendersi alla resa dei conti; di rifiutare le telefonate di agenti che disturbano la quiete del loro pensionamento anticipato con proposte di spot o fiction da poco. L'intervistatore sbircia dietro il copione, oltre la maschera. Smista mazzi di foto in bianco e nero, in cui ogni anno è indicato da un nastro dai colori diversi. Siede sulle panchine e nelle case d'asta, segue fantasmi di vecchi amanti per strada. Nella Buck c'è luce anche a luci spente? Se le parole sono una promessa di resurrezione, ci si nega per discrezione il lusso del contatto umano; di un abbraccio fra generazioni e mondi agli antipodi. Sulla scia delle riflessioni di Loving Vincent e Final Portrait, l'esordiente Vito Di Battista – pensate com'è piccolo il mondo: per un semestre ho avuto il fratello minore come compagno di corso, all'università – debutta con una storia nella storia a proposito del tempo che fugge e di una memoria, quella dell'inchiostro, che non tradisce.

Perché in realtà, mio caro, ci basterebbe anche solo l'illusione, e anche solo per un momento, di riavere indietro un po' di quel tempo in cui eravamo ancora nessuno, un tempo che ci ha lasciato in bocca il sapore più gustoso e la più bella fra le scoperte possibili: tutto quello che potevamo diventare.

Raffinato, algido, coltissimo, lo scrittore abruzzese ha frasi preziose come camei e, in apertura di capitolo, un refrain costante; la stessa indole elitaria del narratore, soprattutto, purtroppo poco affine alla mia. Mi sono domandato più volte quanto fosse maturo e quanto artefatto, in un ritratto dietro un vetro smerigliato – vedasi la foto in copertina – che affascina coi vedo-non vedo, ma rischia di renderci parzialmente estranei. L'ultima diva dice addio è l'eredità di un'ossessione che non ho fatto mia, un'epifania a metà. Ma un esordio a passo di valzer che sa imporsi comunque, pur parlando di commiati. Si spegne così l'abat-jour nel salotto di Molly Buck. Ci si infila le scarpe lasciate sullo zerbino e si va via. Per un'illusione ottica il fiume scorre al contrario, come al contrario scorre fra queste pagine la vita dell'attrice venuta al mondo quando Méliès atterrava su una luna panciuta – c'è un termine inglese per dirlo, racconta Di Battista: l'elegante e intraducibile waltzing back. Restano allora i fantasmi dei successi passati, un taccuino che pesa in tasca e un pulviscolo leggero, all'alba di un altro giorno senza Molly, come fosse polvere di stelle.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Umberto Bindi – Il nostro concerto

lunedì 26 marzo 2018

Mr. Ciak - Metti una sera su Netflix #3

Ho sempre ritenuto sopravvalutata la serie Cloverfield. Un primo capitolo che si perdeva quasi fra gli horror a basso budget di telecamere tremolanti così in voga nei primi anni Duemila. Un seguito con un ambiente unico e un paio di attori – ricordiamo il bravissimo John Goodman – con una tensione, un'ambiguità, smascherate però da un titolo che dava indizi sostanziali e indicava l'appartenenza del film al filone di Abrams. Non facevo il conto alla rovescia per il terzo capitolo – ce n'è già un quarto, Overlord, atteso in sala il prossimo ottobre. Non l'hanno fatto, questa volta, neanche gli estimatori, trovandolo sul menu Netflix il giorno stesso del rilascio. The Cloverfield Paradox non passa in sala, ma per effetti speciali e cast non ha nulla da invidiare ai film del genere. Ma non convince, leggo, e chi ero io per dirmi invece positivamente sorpreso se questo mondo – anzi, mondi – non mi ha mai fatto suo? Nessun mostro, nessun aguzzino farneticante, nessuna città a ferro e fuoco. Il terzo capitolo della saga – forse un prequel, forse ambientato in un altro angolo del multiverso – si svolge su un'astronave, all'indomani di una crisi energetica che ha messo il futuro in ginocchio. Per scongiurare la terza guerra mondiale c'è un'unica soluzione, un acceleratore di particelle, ma usarlo rischia di fare uno strappo nel velo della nostra realtà: facendo sì che, da un'altra dimensione, si rovescino demoni e caos. A bordo, quando la Terra scompare dai radar, misteriosi guasti, tradimenti, paradossi temporali e qualche morto ammazzato; Bruhl, Oyelowo, O'Dowd, l'enigmatica Elizabeth Debicki e l'ormai onnipresente Gugu Mbatha-Raw, mamma addolorata con la tentazione e la paura di scoprirsi più felice in una dimensione alternativa. Al nuovo Cloverfield fanno male l'alto budget e, dopo i flop recenti di Life e Covenant, la solita astronave alla deriva con un equipaggio in preda all'ansia. La mitologia, anziché complicarsi, viene liquidata in fretta, assieme a uno spunto appena accennato e immediatamente riposto: lasciandosi decifrare, sezionare, da fanatici della rete che tentano invano di intrecciarne i fili, nonostante appaia oggettivamente un inservibile e incandescente garbuglio a rischio di corto circuito. Anche Onah, alla regia, perde la bussola. E il suo sci-fi, incerto e rattoppato com'è, probabilmente risulterebbe brutto in qualsiasi dimensione possibile. (4,5)

Si incontrano raramente ma con puntualità, scoprendosi ogni volta invecchiati. Questa volta, in un pub fra tanti, fantasticano di concedersi una vacanza tutti insieme – Ibiza o Las Vegas, magari, anche se non sono più giovanissimi. La sera stessa, una rapina finita nel sangue sottrae loro un elemento fondamentale. Rafe Spall, protagonista intenso e amico codardo, ha assistito all'omicidio dell'ex compagno di scuola nascosto dietro uno scaffale di vini. Commemorare il defunto, venire a patti con se stessi, grazie a un viaggio – non più soltanto una fantasia fuori tempo, un'innocua ipotesi alcolica, ma un modo per rendere grazie, ricordare. C'è questo gruppo di inglesi di mezza età, insomma, che si mette alla prova con il trekking sui monti fra la Svezia e la Norvegia. Terre di miti e leggende, di paesaggi mozzafiato, che ispirano incubi – a occhi aperti e chiusi – e una sentita elaborazione. Quel viaggio fuori porta si rivela una pessima idea. Come pessima è l'idea di imboccare scorciatoie, se tagliano in due una foresta popolata da misteri e presenze millenarie. Da idilliaco, il luogo diventa presto spettrale: animali impalati ai rami, simboli antichi, fantocci di paglia. Preoccupate domande sui culti locali, discordie interne. A metà strada fra The Blair Witch Project e The Wicker Man – strada pericolosa in ogni caso, sì, ma qui in salsa indie –, Il rituale è un horror d'atmosfera piccolo e ben diretto dal promettente David Bruckner, con scenari inesplorati, protagonisti che fan simpatia perché lontanissimi dai classici adolescenti in vena di trasgressione, un dramma  umano alla base. Avremmo preferito, tuttavia, fare a meno della computer grafica, per quanto usata con parsimonia. Non sapere che faccia avessero la paura, il mostro, se il mistero di quel vedo-non vedo bastava. Riuscito nella prima ora soprattutto, quando fruscii e alterchi alimentano la suggestione, il film del regista che piace a Flanagan e Del Torto potrebbe fare tanto con poco. Rischia di rovinarsi nel mentre, volendo mostrare troppo. (6)

Abbie e Sam, eterni fidanzati, fanno coppia da quando sono bambini e, in gita, lei morse lui davanti a un acquario: restano ancora la cicatrici per i cinque punti di sutura, un amore sincero. Immaginarsi in dolce attesa è la scusa perfetta per dirsi di sì. A crescerle dentro è però qualcos'altro, qualcosa di brutto. Morire a trent'anni per un tumore all'utero. E lasciarsi indietro un trentenne tenero e impacciato che non sa cucinare il pollo, fare la lavatrice, parlare con donne che non siano lei. Sono stati infatti l'uno la prima volta dell'altra. Come andare oltre, se si può? Come assicurarsi che Sam resti in compagnia, in buone mani? In L'unica non si cerca una cura, il tempo perduto, ma la donna che amerà Sam dopo di Abbie. Rifargli il guardaroba, iscriverlo di nascosto a Tinder, chiamare le prescelte per un colloquio. A rischio di sottovalutare la forza di lui, e di allontanarsi. Di non goderselo fino all'ultimo, nutrendo in anticipo rimpianti che confinano con l'ossessione. La lanciatissima Gugu Mbatha-Raw, incantevole e sorridente, interpreta una malata terminale che non apprezza i pietismi, l'uncinetto e la retorica dei gruppi d'ascolto – anche se lì puoi incontrare Coogan, la McKinnon e un esilarante Walken. Michiel Huisman, irriconoscibile perché trasformato dall'adone svestito di Games of Thrones a un goffo nerd che mi somiglia moltissimo, fra gli occhiali a fondo di bottiglia e i calzini spaiati, non ha nessuna voglia di dimenticare la sua lei finché gli sta accanto. Brillante commedia sentimentale, l'esordio della Laing ha un appuntamento galante con la morte e un futuro che non vedremo mai. Si sorride più del previsto. Si apprezza una storia d'amore e perdita, la solita, ma che a sorpresa sa ridere con leggerezza di se stessa. Non è 50 e 50, non è Miss You Already. Nonostante le belle facce dei protagonisti e il romanticismo diffuso, per fortuna, non è neanche la copia di un Nicholas Sparks a caso. Ben recitato, emozionante con discrezione, il film Netflix non rischia di diventare il migliore del filone, ma il cuore – rinfrancato, preso in giro come gli piace qualche volta – ringrazia ugualmente. Come dicono le frasi fatte, non è mai troppo tardi. Soprattutto, nell'Unica, non è mai troppo presto. (6,5)

La ragazza perfetta, un incontro indimenticabile a Halloween, e poi? Adam DeVine, vittima della regola dell'amico, resta al suo posto: spalla su cui piangere, confidente, compagno fraterno perdutamente innamorato. Alexandra Daddario, spiritosa e con due occhi (ma sì, chiamiamoli così) grandissimi, si sposa con un perfetto impiastro tutto muscoli. Sabotare le nozze? Per fortuna si può fare di meglio, se il soprannaturale, gli espedienti di Big, permettono al protagonista di tornare a piacimento indietro nel tempo. Si possono cambiare le cose? Si può creare il colpo di fulmine a tavolino? Sbagliare, ricominciare, sbagliare ancora. Rifare. A volte vedersi come l'amico di letto, altre il promesso sposo tradito, scoprisi e riscoprirsi continuamente con occhi nuovi. Piacevole ma stancante a lungo andare, diretto dal regista di quel mezzo gioiellino adolescenziale che fu The Duff, la commedia di Ari Sandel è una di quelle senza meriti né demeriti particolari. Nella norma, tipicamente estiva. Purtroppo, vero grande difetto, arriva tardi alla festa. Giorni rivissuti daccapo prima con Before I Fall, poi con Ricomincio da nudo, infine con Auguri per la tua morte, in un'annata – la scorsa – che deve avere molto amato Bill Murray e avuto scarsissima fantasia. Se ci conoscessimo oggi. Se lo avessi visto ieri. Sempre per scordarlo, poi, l'indomani. (5,5)

venerdì 23 marzo 2018

Recensione: I segreti di mia sorella, di Nuala Ellwood

| I segreti di mia sorella, di Nuala Ellwood. Nord, € 18,60, pp. 351 |

Nelle nostre case perfette, nei nostri armadi odorosi di lavanda e naftalina, nascondiamo scheletri nell'armadio non dissimili da quelli lasciati a scarnificare nelle fosse comuni, sui campi di battaglia senza gloria. Lo sa bene Kate, ventinove anni, professione giornalista, di ritorno da un viaggio in Medio Oriente in cui ha lasciato il cuore – a pezzi – e il corpicino di un bambino che le domandava ogni giorno cosa avessero gli inglesi – scontrosi, di poche parole, privilegiati – per cui essere sempre tristi. I bombardamenti alle spalle, il lascito di una madre appena scomparsa davanti: troppo per una mente già fragile e provata. L'accoglienza nella cittadina natale, Herne Bay, non è delle migliori. Pioggia, vento e, a parte il cognato, nessun parente alla stazione: fra lei e la sorella del titolo, Sally, non corre buon sangue, ma fiumi di alcol. E se il ritorno al luogo in cui tutto ha avuto inizio fosse più pericoloso del conflitto ad Aleppo?

La mia vita sarà sempre così d'ora in poi. Perché questo è ciò che mi rimane: un incubo infinito pieno di voci e grida.

Leggere il testamento della matriarca, soffiare via la polvere, significa per Kate venire a capo di una matassa viva e contorta che non riguarda solo lei, ma l'intero albero genealogico dei Rafter. Una famiglia segnata dalla sfortuna, dallo squilibrio, che ha lasciato alle sue giovani figlie una casa in malora, tare genetiche ed enigmi continui. Le bombe nel petto e in testa. La protagonista si convince presto, infatti, che i dirimpettai stiano nascondendo lo sporco sotto il tappeto e un bambino maltrattato nella rimessa. Sarà che la vicina, Fida, ha origini iraquene. Sarà che in mezzo a Kate e Sally c'era un altro bambino, David, morto per annegamento nell'impotenza generale. Sarà che, cresciuta da un padre manesco che ha sempre preferito le moine della secondogenita, la ribelle Kate sa ormai riconoscere il male che sfugge ai più. Anche quando ce l'hanno sotto gli occhi. Peccato che i sonniferi e i calici di vino rosso, la diagnosi di disturbo post traumatico da stress, la rendano una testimone e una narratrice inaffidabile.

T'inventi le cose, Kate. E' più forte di te.

Ma questa è anche la storia dell'altra sorella, a lungo personaggio marginale: pessima madre di un'adolescente in fuga, cattiva moglie di un uomo zerbino, è la prova di come la mela non cada mai lontano dall'albero. Kate e Sally sono così inconciliabili, così diverse, o sono forse voci complementari della stessa storia tragica? Il reciproco risentimento, rimpiazzato dalla tensione. A pagina uno, nel prologo, sappiamo che una delle due morirà. Chi, e per quale mano? Cattivo, torbido, malato, I segreti di mia sorella è un romanzo psicologico che alla prevedibilità di qualche svolta – complici i pochi personaggi, che rendono scarsamente numerosa la rosa dei sospettati – risponde a tempo debito con inquietanti colpi di scena e cambi di prospettiva non annunciati. Mi è sembrato la versione scritta bene e meglio pensata della Ragazza del treno, in cerca di un erede – come se qualche lettore lo domandasse, poi – da qualche anno a questa parte. Un thriller al femminile che ha qualche difetto, qualche piccola forzatura, ma un bel peso. In ballo: emozioni viscerali e vicende scomode. La sua forza, invece, tutta da ricercare in personaggi caratterizzati sin nelle più piccole contraddizioni e in una costruzione che, fino all'ultimo, sa come intrigare. Restano allora i traumi, le ferite aperte. Perché da una guerra, dall'infanzia, non si esce mai completamente incolumi.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Bad Wolves – Zombie (The Cranberries)

mercoledì 21 marzo 2018

Mr. Ciak: Ready Player One, Annientamento, Jumanji: Benvenuti nella giungla

Ci sono appuntamenti al cinema fuori dal mio gusto, fuori dalla mia portata, e post che cominciano sempre così: avrei fatto a meno di questo film se. Questa volta non c'entrano però le pretese di un papà che stravede per i blockbuster, un debito di sangue. Questa volta è stata semplicemente questione di parole magiche: anteprima, gratis, Spielberg. In una baraccopoli distopica, in un futuro non troppo lontano, la fantasia è rimasta l'ultima speranza sul fondo del vaso di Pandora. Un paio di occhialini ed è possibile mettere le tende nella realtà virtuale di Oasis. Dove si accumulano ricchezze spropositate, dove ci si indebita e si muore, preferendo a lungo andare la fuga alla routine. Le opzioni ti permettono di modificare il genere sessuale, la faccia, il destino. Di diventare qualcuno. Un irriconoscibile Mark Rylance, lo Steve Jobs geniale e solitario che di quel mondo è l'artefice, prima di morire ha disseminato Oasis di easter egg e lanciato una sfida che fa gola non soltato ai giocatori, ma anche a una società rivale: ci sono tre indizi, tre chiavi da scoprire. Il più scaltro erediterà tutte le fortune di Rylance. Il protagonista, interpretato da un anonimo Tye Sheridan, vive così una doppia vita, una doppia avventura – c'è infatti un adolescente in carne e ossa dietro l'avatar, e da un lato deve sfuggire agli attacchi di un villain ormai sulle sue tracce, dall'altro completare le tappe che portano al successo della missione. A differenziare Ready Player One dai vari Tron o Atto di forza è un elemento tutt'altro che trascurabile: uno spirito spettacolare e giocoso che attinge allo stesso effetto amarcord che, altrove, sta francamente venendo a noia. Il creatore ha reso Oasis un'ode spassionata alla cultura pop, ai migliori anni, e laggiù Gundam può fare a cazzotti con Godzilla, King Kong accartocciare nel pugno la motocicletta di Akira; i ragazzi ballare sulle note di Tony Manero e, nella migliore sequenza, esplorare i corridoi insanguinati dell'Overlook Hotel. Figa più che bella, la trasposizione dello sci-fi culto di Ernest Cline non è esente dai difetti – emotivi, narratologici – di grandi produzioni che mi prendono a metà. Se gli sfondi di Ready Player One appaiono cangianti, avvolgenti anche senza 3D, protagonisti e comparse peccano invece dell'infantile bidimensionalità dei film-contenitore, in cui la trama resta un pretesto per schiamazzi ed effetti speciali come se non ci fosse un domani – Sheridan non farà perciò la minima piega davanti all'assassinio di una persona cara e con Olivia Cooke, per carità, adorabile, sarà amore al primo sguardo. La tecnologia ci divide o ci unisce? Ci isola o, al contrario, è il rimedio alla solitudine? Carnevale dal cuore buono e dalla morale scontata, il film diverte per le innumerevoli citazioni e per l'entusiasmante spirito di onnipotenza alla base. Potenzialmente ho i mezzi per far tutto, per pasticciare con i generi e i ricordi, e lo faccio: perché no? Considerazioni sparse, queste, di uno Spielberg sempre magistrale, sempre giovanile, in cerca di una ventata d'aria fresca dopo la noia dell'impegnato The Post e della scusa valida per mostrarci, con l'impazienza che la sua iperattività non sa contenere, il funzionamento del suo ultimo giocattolo. (7)

Discorsi da innamorati, fitti fitti, con la luce dell'alba a ricordare che è già tempo di separarsi. Il militare Oscar Isaac, a letto, non rivela alla biologa Natalie Portman la meta della sua ultima missione, ma le assicura che vedranno le stesse stelle e si addormenteranno nello stesso emisfero. Sembrava un'operazione più semplice delle altre, eppure c'è voluto un anno affinché lui tornasse a casa. Vivo, ma silenzioso: diverso. Promesse di donne curiose, coraggiose, che non si danno pace e, forse, non si sanno perdonare. Ecco spiegata perciò la decisione di ripercorrere i passi di quel compagno stravolto, ferito dentro, offrendosi volontaria per un'esplorazione dal ritorno incerto. Ci stanno invadendo. Non si sa bene perché, non si sa come. Non serve spostarsi troppo per vederne gli strani segni. Una luminescenza, un bagliore, ha avvolto un angolo degli Stati Uniti in una coloratissima bolla di sapone. Oltrepassata la soglia ci attende una natura irreale, tanto che è lussureggiante, e un luogo in cui le bussole impazziscono, i ricordi si confondono con le allucinazioni, il tempo perde di senso. Una squadra di soldati armati fino ai denti, fatta eccezione per Isaac, non è sopravvissuta agli intrighi di quel giardino arcobaleno. Guidate dalle intuizioni di una Portman capace di risultare aggraziata anche con un mitra in mano, le nuove esploratrici di Annientamento sono eminenti scienziate – plauso d'obbligo alla superba Jennifer Jason Leigh e a Gina Rodriguez, ritrovata con piacere al di fuori dal set di Jane The Virgin. Tutte con un dolore da espiare strada facendo, tutte donne, le protagoniste – volontarie in una missione autodistruttiva, più che suicida – puntano al faro, come in un classico della Woolfe, e si imbattono in coccodrilli coi denti da squalo e orsi preistorici, cervi con rami fioriti per corna e cespugli antropomorfi. A confine con le nostre città e l'Area X, con lo sci-fi a tinte esistenzialiste e la fantozziana cagata pazzesca, la trasposizione del best-seller di VanderMeer è una bestia strana. Una cellula tumorale che si trasforma e si sdoppia, alla luce di un prisma che rifrange onde sonore, coordinate, drammi coniugali. Affascinante, sofisticata, freddissima, con una prima parte da classico survival horror e una chiusa psichedelica un po' indigesta ma affatto insensata. Non a caso, a proposito di evoluzione, Annientamento è una landa di donne – le più brave a perdonare, a guarire, a reinventarsi dall'oggi al domani. Non a caso, eppure oscuro per qualcuno, Annientamento brilla, e di luce propria. Se alle domande incalzanti si risponde semplicemente non lo so e alla parola extraterrestre si fa seguire il silenzio impenetrabile dell'unica superstite, il bagliore dell'ultimo Alex Garland toccherà comprenderlo, combatterlo o, nel dubbio, abbracciarlo? Da un viaggio non si torna mai uguali a prima, qualunque sia la meta. La strada ci cambia nel profondo, nell'anima, nelle linee delle mani, e niente sarà più lo stesso: non noi. (7,5)

Capisci di stare invecchiando, immagino, quando remake o reboot toccano film della tua generazione. Lo capisci, soprattutto, quando è tuo il turno di lamentarti con toni da bontempone. Per quanto il primo Jumanji non sia mai stato uno dei miei must da bambino, alla notizia di un secondo capitolo – più che un seguito, un aggiornamento per le nuove generazioni – ho risposto con l'indifferenza più totale. A incuriosirmi, poi, sono stati i risultati sorprendenti al botteghino; le divertite voci di corridoio – tra queste, quella di un fratello minore uscito molto soddisfatto dal cinema, che alla cornetta mi nominava ricordi comuni, Spy Kids, le partite a Crash Bandicoot. Come in Breakfast Club, quattro liceali agli antipodi si trovano a dover condividere l'ora di punizione, e a sfidarsi a un misterioso videogioco per ammazzare il tempo. Non sanno che saranno proiettati per magia a Jumanji, con solo tre vite a disposizione e quattro avatar con cui muoversi in quel mondo virtuale. Lo sfigatello di turno si ritrova così nei panni (anzi, nei muscoli) di The Rock, lo sportivo in quelli del minuto Kevin Hart; la nerd saccente è la splendida Karen Gillan, l'antipatica ape regina – per ironia della sorte – l'improponibile Jack Black. C'è Nick Jonas, poi, intrappolato nel gioco da vent'anni e il cattivissimo Bobby Cannavale, artefice di un furto che ha trasformato Jumanji nella giungla selvaggia che è. L'obiettivo dei nostri eroi: restituire alla natura il suo diamante magico, purtroppo caduto nelle mani sbagliate. Lo sceneggiatore Chris McKenna, fra le firme del gradevolissimo Homecoming, lascia inciso su un tronco il nome dell'indimenticabile Alan Parrish e confeziona, complice la partecipazione di alcuni indiscutibili talenti comici, un intrattenimento per famiglie anni Novanta; un passatemo raramente riproposto con la stessa freschezza che, se avessi avuto l'età giusta, un tempo avrei visto e rivisto. Il ventitreenne di oggi l'ha trovato spassoso ma un po' lungo, spesso a rischio di ripetitività. Se il proverbio non sbaglia, il gioco è bello quando dura poco. E questo, con le sue quasi due ore, si prolunga a tratti eccessivamente, rendendo il soggiorno una toccata e fuga più godibile di quanto lasciassero supporre i pronostici a scatola chiusa, ma reiterate e poco fantasiose le tappe. L'effetto amarcord, il divertimento garantito e un Dwayne Johnson che un po' ci fa e un po' ci è, per fortuna, non lasciano che sia l'amarezza del game-over a dirti addio. O, forse, arrivederci. (6,5)

lunedì 19 marzo 2018

Recensione: A misura d'uomo, di Roberto Camurri

| A misura d'uomo, di Roberto Camurri. NN Editore, € 16, pp. 168 |

Lo definiscono romanzo per racconti, ma tra me e me ho elaborato una definizione alternativa per letture che somigliano a questa. Quelle che entrano nella tua quotidianità a piedi scalzi, in silenzio, confondendosi con te, gli stipetti della cucina, le mattonelle a fiori del bagno e le foglie secche in giardino. Quelle a cui vuoi bene comunque, come si fa con chi in fondo c'è sempre stato. Costantemente, banalmente, per routine. Ci sono persone che restano, e ci sono romanzi davanti ai quali non ti dici mai nel mentre, ecco, che bella pagina, che signor momento, quanto cazzo mi sta piacendo. Romanzi di poche parole, li chiamo io, come se uno scrittore – che con le parole crea immagini, gioca – potesse essere laconico. Un controsenso, no? Poi penso a Kent Haruf e ai suoi discorsi diretti, non preannunciati mai dai due punti e le virgolette. Penso a Nickolas Butler, con una scrittura emozionantissima perché ridotta all'osso, e alle sue amicizie maschili in cui parlano i gesti pratici: i tacchi degli stivali piantati a terra, nella polvere della perifera, di chi ha imparato a restare. A misura d'uomo, esordio narrativo di Roberto Camurri, è una di quelle storie che stranamente, da qualche anno a questa parte, mi si addicono. Semplici e concilianti. 
Uomini che bevono, uomini che fumano, uomini che masticano liquirizia per smettere, uomini che fanno lavori disprezzati e debilitanti in mancanza d'altra speranza.

Io però Garibaldi non l'ho mai amato, aveva continuato Giuseppe, ho sempre detto in giro che mi chiamavo Giuseppe come Mazzini, perché a me son sempre piaciuti più quelli che ci provano di quelli che ci riescono.

Io ho ventitrè anni, non fumo, non bevo, non ho problemi di donne e non grandi amici. Vivo in una città piccola, sì, ma da cui ogni mattina partono treni che mi mostrano che esiste, volendo, una scappatoia. Ci sto così bene, eppure, in compagnia di personaggi tutti vizi e fragilità, diversissimi da me. Mi piace da morire sedermi sulle sedie di plastica in piazzetta, davanti all'unico bar aperto. Ascoltare il disincanto che ancora non so, cedendo dopo i vari dai, dai ad aspirare tossendo un tiro di Lucky Strike. La provincia italiana spezza i sogni e imbianca precocemente i capelli. A trent'anni, a malincuore, si è già vecchi. Lo sanno Valerio, Davide e Anela, al centro di un'amicizia che decenni dopo si fa triangolo sentimentale. Lo sanno i deliri di Mario, che grazie alla perseveranza della compagna Elena sperimenta la lenizione dell'amore. Lo sanno gli incartapecoriti Giuseppe e Bice, da un lato e l'altro di un vecchio bancone, legati da un sentimento che non si sono mai confessati e dalla vergogna per un paese che, nel suo giorno di festa, rivela un'indole ignorante e razzista. Insieme a loro Maddalena, che sceglie un figlio e la solitudine; lo scrittore Luigi, di origine eritrea, che assieme a Mario, da ragazzino, pendeva dalle labbra degli inseparabili Valerio e Davide; una coppia scoppiata perché sterile che, in sosta sull'autogrill, magari si salva grazie a una provvidenziale cagnetta di nome Salvo. 
Uomini che perdono il pelo ma non il vizio. Uomini che non piangono ai funerali, si sentono in colpa, e alla fine si sciolgono in lacrime per la visione delle margherite in inverno. Uomini che si presentano ubriachi a casa degli amici d'infanzia, ma che cosa vuoi farci: metti in caldo la cena e offri loro il divano-letto. Cattivi compagni che bevono, fumano, ma portano le loro donne al mare. E tanto basta per baciargli a letto anche le cicatrici, anche gli sfregi.

Gli sembra che quella pianura, il giallo dei campi, il verde del foraggio, il marrone della terra dissodata sia tutto quello che ha, sia, in fin dei conti, quello che è.

Nell'emiliano Camurri, in quel di Fabbrico, non esistono colpi di testa o incontri folgoranti. Ci si conosce da tutta la vita. Si va. Si viene. Qualche volta si torna per restare. Ci penso, e penso a una mostra fotografica a cielo aperto. Istantanee sui pali della luce, negli scheletri polverosi delle cabine telefoniche, sui tronchi degli alberi e i segnali stradali. Istantanee con le pinze colorate ai fili del telefono, come lenzuona stese ad asciugare. I racconti di Roberto Camurri – parte microscopica e vitale, in realtà, dello stesso identico quadro – altro non sono che un andirivieni di storie in ordine sparso, di facce che diventano presto familiari, di discese e risalite che ti portano inevitabilmente lì. Su una via di casa lungo la quale è meraviglioso attardarsi al tramonto. Dove appartieni. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Diodato feat. Roy Paci - Adesso

venerdì 16 marzo 2018

I ♥ Telefilm: This is Us - Stagione 2 | Mozart in the Jungle - Stagione 4

I Pearson sono tornati, e con loro le lacrime del mercoledì sera. Mi erano mancati più degli altri appuntamenti settimanali: loro che alla routine, piano, avevano restituito l'emozione perduta. I protagonisti di This is Us hanno bussato alla mia porta e ho detto entrate pure, fate come se foste a casa vostra, facendomi trovare al solito posto. Coperta, divano e qualche fazzoletto nella manica della felpa, ché non si sa mai. Al solito posto anche gli eredi degli adorati Rebecca e Jack. Desiderosi di far meglio, alla ricerca di un posto nel mondo che somigli almeno un po' alla casa perfetta in cui sono cresciuti. Impresa impossibile, se fragili e mai guariti dal cuore infranto per quell'urna sul caminetto; se il ricordo del patriarca, eppure scomparso vent'anni prima, toglie inevitabilmente dolcezza alle rimpatriate. Kate, con frequenti ricadute nel tunnel dell'ingordigia e un brillante all'anulare, deve lasciare a terra ogni zavorra – quelle del corpo, quelle della memoria – per spiccare il volo. Nessuno sarà mai come suo padre, ma che colpa ne ha Toby, che per lei c'è stato nella buona e nella cattiva sorte? Kevin, attore di sit-com dalla carriera in risalita, sta realizzando un sogno: affiancato da Stallone, recita nell'ultimo film di di Ron Howard, fra ospitate fuori città, alberghi di lusso, donne che vanno e che vengono. Un infortunio sul set lo rende schiavo degli antidolorifici, ricordandogli l'occasione già persa quando era una stella del football con le ginocchia difettose: e se da suo padre – troppo idealizzato nel tempo, ma in realtà imperfetto come tutti noi – avesse ereditato il peggio, la dipendenza? Infine Randall: marito e padre felice, sentimentale per natura, che non ha mai smesso di ringraziare i genitori adottivi per averlo strappato a una vita di abbandono. I soldi non mancano, c'è una camera da letto in più al piano di sopra: sdebitarsi accogliendo un'adolescente di colore meno fortunata di lui, che fino all'ultimo, purtroppo, fa grande antipatia. La formula resta la stessa e, nei salti indietro e in avanti, questa volta con occhiate al futuro che sarà, ritornano giovani e belli – ritornano insieme, soprattutto – i genitori che vorrei. Guardiamo Rebecca e Jack nei flashback e ci struggiamo, sapendo che il loro amarsi non durerà per sempre: Jack è morto e no, non è uno spoiler. Si scoprirà come nel corso degli episodi. E sì, si piangerà. Davanti a gesti eroici un po' esagerati, vero, che sanno però lasciare meravigliosamente spazio allo sconcerto del lutto – penso non dimenticherò mai l'onestà della reazione di Mandy Moore, qui straordinaria, che davanti a una notizia shock addenta un dolcetto del distributore automatico come se nulla fosse, lo sguardo perso di chi non ancora realizza. Davanti a un intreccio meno miracoloso, meno inappuntabile, che rivela le sue forzature, il suo dilungarsi, affinché il prezioso Milo Ventimiglia non sparisca nel nulla – poche sorprese, a questo giro, nonostante gli exploit di Justin Hartley siano degni di nota e di nomination. Ho aperto gli occhi, e di lacrime non ce n'erano poi molte. Lucidità e disincanto hanno lasciato emergere quindi i difetti di una seconda stagione che non ha fatto gridare al miracolo. Forse semplicemente non si può far meglio, se già si è fatto così bene in passato. Forse, come i fratelli Pearson, non tradiremo mai quella casa piena d'amore, il ricordo di Jack, per nuove storyline o altri domicili. La perfezione non esiste, neanche nelle famiglie felici. Neanche in This is us. Dev'essere per questo che mi è piaciuto meno, ma, a modo mio, gli ho voluto bene di più. (7,5)

La musica classica spiegata dal sovversivo Gael Garcìa Bernal era un piacere da scoprire. Folgorante e originale per approccio e formato, Mozart in the Jungle ha dato smalto agli spartiti – mai stati così rock 'n roll – e, negli anni, lustro a produzioni Amazon che non hanno in realtà nulla da invidiare ai cachet, ai nomi di grido, alle pubblicità di Netflix. Benché gli abbia sempre riconosciuto grandi pregi, se mi chiedeste perché lo seguo, cosa ci trovo, ormai non saprei più rispondere. Mozart in the Jungle, per il quarto anno di seguito sempre uguale a sé stesso, sembra aver perso infatti insieme al suo Rodrigo l'ispirazione iniziale e l'amore. Cosa succede: anzi, cosa non succede. La Filarmonica di New York non naviga in buone acque. Bernadette Peters, da vecchia volpe qual è, corteggia e accarezza l'ego degli investitori orientali, con buona pace di Malcolm McDowell – amante appassionato ma, se si parla di lavoro, rivale incorruttibile. Lola Kirke e Bernal fanno ufficialmente coppia fissa, ma impegnarsi spaventa. Lei, divisa fra l'emanciparsi e i dettami del cuore, passa da oboista ad aspirante direttrice d'orchestra iscrivendosi a un concorso dall'altra parte del mondo. Lui, alle prese con la collaborazione con un esuberante coreografo e l'arrangiamento impossibile del Requiem, sfida il fantasma di Amadeus – amico immaginario, complice – con il rischio che la sua scomparsa lo lasci solo e confuso, mentre Hailey bada intanto ai propri spettri, alle proprie ispirazioni. Lo scorso anno c'erano Venezia, la bellezza di Monica Bellucci. Questo inverno, invece, si sperimentano le stranezze e la spiritualità del Giappone – un robot di ultima generazione dirige i musicisti, con sommo disappunto del protagonista, e che noia, a dirla tutta, quel rito del tè che alimenta trip e brusche virate sentimentali. Mozart si allontana dalla trasgressione del titolo per le mete e le borie della Coppola – non a caso scrive Roman, che di Sofia è il fratello maggiore. Turista in terra straniera, smarrito nella Tokyo e nelle incomprensioni sottili di Lost in translation, Rodrigo ha perso assieme al mentore il senso dell'orientamento, il tocco, le chiavi di casa. Lo si segue con ritrovata leggerezza nel suo andirivieni senza senso, sperando trovi la retta via. Quella che porta a una giungla che inizia a mancarci, perché meno confortevole e patinata di tutto questo. Perché più selvaggia di un soggiorno all inclusive che impigrisce, annoia e imborghesisce. (6,5)

mercoledì 14 marzo 2018

Recensione: La casa del padre, di Karen Dionne

La casa del padre, di Karen Dionne. Sperling & Kupfer, € 17,90, pp. 324 |

C'erano una volta un papà, una mamma e la loro bambina. C'era una volta un bosco nella Penisola Superiore, in Michigan. Lì, in una casetta nel fitto impenetrabile degli alberi, nessuno al mondo sapeva di loro. Helena, la piccola di casa, aveva ricevuto per il suo quinto compleanno una bambola di sterpaglie e un coltello affilato. Aveva imparato a sparare ai cervi e agli orsi, a sporcarsi le mani di sangue, fra i lunghi silenzi di una mamma eternamente afflitta e le occhiate orgogliose di un padre ferino, abbronzato, tutt'uno con gli elementi e quella forma necessaria di violenza. Helena ha vissuto in quell'isolamento idilliaco, in quella favola selvaggia, per dodici anni. Dove non esisteva nemmeno il tempo, se non quello meteorologico. I National Geographic di mezzo secolo fa per imparare a leggere e scrivere, una natura ora amica e ora nemica, il pensiero innocente che oltre gli alberi e le montagne non ci fosse altro da conoscere. Poi, un giorno, la fiaba di un'infanzia di luci e ombre giunge a una pagina inaspettata. Un colpo di scena. Quel capofamiglia affascinante e avventuroso – che a volte si rivela sadico e vendicativo, che a volte punisce la bambina chiudendola per giorni in un pozzo buio – in realtà è loro nemico, l'aguzzino di sua madre. Un'adolescente appena quando Jacob la rapì, ne abusò, confinandola nel bel mezzo del nulla. Helena è la figlia di una crudele prigionia, il frutto dello stupro.

I ricordi non si basano sempre sui fatti reali. A volte sono legati ai sentimenti.

Ormai donna, la protagonista ha tradito il suo spirito guida per il vivere borghese. Ha un marito, due bambine, marmellate biologiche per lavoro. Ha imparato le buone maniere, a coprire con un velo di trucco i suoi tatuaggi tribali, a mentire. Ha mandato in galera, soprattutto, il genitore cattivo. Ascolta distrattamente la radio quando annunciano che è evaso, assassinando due guardie con un punteruolo modellato con dentifricio e carta igienica. Il fuggitivo punta al Canada, ma è sempre stato un sentimentale. Helena è sempre stata la gioia dei suoi occhi, finché non gli ha voltato le spalle. Vuole rivederla, vuole punirla, e lei gli va incontro con un fucile carico in spalla e Rambo, un cane da caccia, al trotto. Per fermarlo, nel gioco del gatto col topo imparato un'esistenza prima. Per il bisogno tanto inspiegabile quando disperato di riabbracciarlo ancora.

Quello che fece a mamma è sbagliato, lo so. E il fatto che abbia assassinato due guardie è imperdonabile. Eppure una parte di me – una parte non più grande di un granello di polline su un unico fiore, su un unico stelo d'erba di palude, quella parte che rimarrà per sempre la bambina con le treccine che idolatrava suo papà – è felice che sia libero.

La casa del padre è un thriller cinematografico, muscolare, in marcia. Senza tranelli e senza inganni, articolato fra passato e presente com'è ormai norma, può contare su una sola idea – una riunione di famiglia che assume le fattezze di una sfida all'ultimo sangue –, una manciata di personaggi, piste da seguire aguzzando i cinque sensi. Sebbene ridotte all'osso per forza di cose, serratissime, le trecento pagine di Karen Dionne si reggono davvero bene. Merito di un'eroina dalla doppia vita, dalla doppia natura, cresciuta all'ombra di un padre adorato e ascoltando le leggende dei nativi assieme ai due amici immaginari. Merito di un antagonista che a tratti antagonista non è – viene istintivo ripensare a Viggo Mortensen, l'indomito patriarca hippie di Captain Fantastic –, che ha lanciato un inequivocabile richiamo in direzione della sua unica erede. Se soltanto Jack si fosse affezionato al suo carceriere più che a Brie Larson, sembrerebbe di leggere il seguito di Room. Una riscrittura del Re della palude di Andersen, se la protagonista – imprenditrice di successo sì, ma con una passione singolare per la caccia, la pesca, le trasferte in solitudine – fosse così brava a dividere i lati oscuri dal resto. I toni però sono quelli della narrativa d'azione, che procede in tempo reale e precede qualsiasi premeditazione.

Ero stata la crepa nella sua armatura, il suo tallone d'Achille. Mi aveva allevata modellandomi a sua immagine, ma nel farlo aveva piantato i semi della sua fine. Aveva il controllo su mia madre. Ma non lo aveva mai avuto su di me.

C'è, adesso, una giovane donna sulle tracce del padre assassino. In fuga, di nuovo, da un passato e da un DNA da zittire. Il terreno è accidentato in certi posti, ma non si fa quasi difficoltà. Karen Dionne e la sua protagonista ne assecondano gli avvallamenti, schivano i rami spinosi. Si prendono il loro tempo. Per esplorare. Per starsene riflessive, per conto proprio. Le cartucce non vanno bruciate infatti troppo presto. La natura è grande: copre il rumoreggiare dei pensieri, e le urla. Le scie – di foglie morte, legnetti spezzati, cadaveri innocenti, flashback – conducono alla resa dei conti. 
Per vivere così, forse, finalmente felici e contenti.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Guns N'Roses – Sweet Child O'Mine

lunedì 12 marzo 2018

Recensione: Isola, di Siri Ranva Hjelm Jacobsen

Isola, di Siri Ranva Hjelm Jacobsen. Iperborea, € 17, pp. 218 |

Apro Wikipedia, digito Faroe. Uno schizzo a matita, una virgola su un'ampia tela di sfumature oltremare. Punto il cursore tra Islanda e Norvegia. Ingrandisco. Eccole lì, diciotto isole nel blu dipinto di blu. Non abbastanza defilate da risultare irreperibili per le brutte notizie, non abbastanza piccole da sfuggire alle imperscrutabili strategie dei conflitti armati. Navi-spia per i soldati inglesi negli anni Quaranta, punto d'ascolto prediletto dagli Stati Uniti durante le intercettazioni della Guerra Fredda, le Faroe domandavano con orgoglio indipendenza dal Regno di Danimarca e con lo stesso orgoglio accartocciato a forza nel pugno affidavano i loro figli minori alle navi in partenza, se il rincorrersi delle onde a riva prometteva sogni e lavoro. Qualcuno, come me, le Faroe deve andarsele a cercare su una mappa. Qualcuno, come un'autrice qui al suo esordio, dovrebbe invece considerarle casa. L'anonima protagonista – probabilmente la stessa Jacobsen, che fra le pagine mescola autobiografismo e poesia ripecorrendo a ritroso i solchi dell'albero genealogico di famiglia – vive gli anni, le inquietudini e il disagio giovanile di chi si sente altro dal proprio corpo, dal proprio sangue. Immigrata di terza generazione, da bambina visitava l'arcipelago in estate, come una turista oziosa. La morte a distanza ravvicinata di omma e abbi, nonna e nonno, spinge lei e i genitori a infagottarsi in un cappotto pesante, la sciarpa fin sopra il naso e un biglietto aereo in tasca. La meta, a Nord dell'Oceano Atlantico, è uguale ma diversa dal solito: non ha le fattezze della vacanza, ma del viaggio di scoperta. Dei silenzi che hanno custodito i parenti, di leggende su sirene e rupi del malaugurio, di sé stessi.

Pensavo che tutti i presenti erano estranei. Stranieri. Erano venuti in aereo da casa loro, e adesso erano lì con noi. Io non avevo idea di chi noi fossimo. Ecco cosa pensavo. Che fluttuavamo.

Isola è il dramma di una ragazza che a un certo punto, crescendo, si accorge di non saper pronunciare bene il proprio nome. La storia di due genitori a metà, i suoi, e quella di due antenati coraggiosi che, fin quando la loro morte non ha portato la nebbia a valle, hanno parlato fluentemente danese e pensato clandestinamente in faroese. Settant'anni fa sono fuggiti senza voltarsi indietro dalla puzza di merluzzo che dalle cassette marcescenti del porto, dagli anfratti dei mercantili, si incollava ai cuori, ai capelli, alle mani. Si chiamavano Marita e Fritz, prima di essere per l'autrice semplicemente nonna e nonno. Lei – innamorata però del fratello sbagliato, il comunista Ragnar – raggiungeva il promesso sposo sulla terraferma con un doloroso segreto sotto il vestito della domenica. Lui – che di quei cinque fratelli pescatori era il penultimo, il più ambizioso – diventava maestro di scuola a Copenhagen e recitando Omero con voce commossa, tramandando alla nipote malinconia e tradizioni, imparava a non rinnegare Itaca. Si può provare nostalgia per luoghi che non abbiamo mai visto con gli occhi giusti, per persone che non abbiamo mai conosciuto davvero? Ci si può tormentare una generazione in ritardo per il taglio di un cordone che ci ha lasciato in eredità le fitte delle cicatrici?

La terza generazione è una coperta troppo corta [...] La generazione povero-me, sono-solo. La generazione né-né. La terza è una generazione invisibile, teorica, la cui pelle si confonde con la tappezzeria, e che lo si sappia o no, si porta dentro il viaggio come una perdita.

Isola, semplicissimo ma denso come possono esserlo alcuni ritratti d'autore, è fare ammenda. Venirsi incontro. Un albo di miti, scorci, memorie, con personaggi uniti dal fiuto per gli affari e da una meravigliosa telepatia. A separarli: la politica, le donne, le eterne promesse dell'acqua salata. Le streghe degli abissi sabotano le reti, i gabbiani si rivelano amabili animali domestici per vedove inconsolabili, gli orsi polari a riva sollevano la testa verso i pescherecci. Gli abitanti avranno forse i modi rozzi, ma un cuore d'oro e un fiasco d'acquavite sempre a portata di sorso. I ricordi, i “se” degli espatriati, parlano una lingua straniera da sciogliera con parole in libertà e una traduzione esemplare. Il primo romanzo che leggo dell'Iperborea – una meravigliosa copertina illustrata, lo strano formato allungato delle guide da viaggio – ha un albero genealogico ingarbugliato, fotografie che non so immaginare, nomi di cose persone e città difficili da trascrivere.

Nessun'isola è un'isola.

Ma quanto riconoscersi nella poesia un po' affranta di noi viandanti, nati in una valigia. Quanto calore, a sorpresa, a confine con l'Artico. C'è gente sradicata con il bagaglio pesante e l'anima alla deriva. Ci sono isole che si spostano con le maree. Prendono il largo, di notte. Le spingono a emergere, pare, le manate dei giganti. Scritture come questa, che creano intrighi e radici, e poi vedrai che germogli.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Francesca Michielin – Io non abito al mare

sabato 10 marzo 2018

Mr. Ciak - Torino Film Festival: Revenge, The Crescent, The Lodgers, Les Affamés

Alcune bellezze sono così sfacciate da mettere nei guai. Succede a Jen, che arriva a bordo di un elicottero privato nella villa dell'amante. Una casa da rivista nel bel mezzo del deserto di Mad Max. Il sesso, le feste, i viscidi soci di lui. Che la guardano ballare con la bava alla bocca, la desiderano, la hanno con la forza. Prima stuprata, poi messa a tacere con le cattive, Jen muore e resuscita in un letterale bagno di sangue. La sua sola colpa: essere troppo bella. Il suo solo scopo, se in un rape and revenge di quelli classici ma rigorosissimi, vendicarsi in maniera memorabile. Nero, esilarante, femminista, Revenge di originale non avrebbe nemmeno il titolo. Cosa me l'ha resto però un potenziale cult all'interno di un sottogenere che di spregevoli violenze sessuali e torture esemplari ne ha proposte e riproposte in abbondanza? Lo stile inappuntabile di chi sa unire Lolita a Rambo, un'estetica assurdamente alla moda a una violenza ributtante. Il corpo a corpo a nudo, come in La promessa dell'assassino, e trip allucinogeni che amplificano i cinque sensi ma spengono il dolore. Il mancato physique du role di due dei tre aguzzini, quasi buffi, e quello invece da capogiro di una Matilda Lutz che ci mette l'anima e soprattutto il corpo. Non violentate Jennifer, recitava il titolo del capostipite di film come questo. Non ci provate neanche lontanamente con l'attrice di origini italiane, già vista con occhi innamorati in L'estate addosso e Rings, che qui impressiona ancheggiando perfino uno spettatore poco ormonale come me e lascia che tutti i nodi vengano al pettine, armata di fucile e tanga. Se in un film che ha la marcia in più del cinema francese, se diretta da una regista donna, se in un'opera prima di quelle autoironiche e spregiudicate, Matilda passa da succinta icona sexy ad amazzone, da oggetto sessuale a corpo contundente. Mostrando che per alcuni fondoschiena, per qualche amore sbagliato, è necessario avere il porto d'armi. (7,5)

Mamma e figlio, una villa sulla scogliera troppo grande per due, un vuoto. Si sente forte la mancanza dell'uomo di casa, se il bambino piange e fa i capricci. Si sente forte la mancanza di un compagno, se si è ancora giovani per essere vedove e il crepuscolo, il vicinato, pietrificano per lo spavento. Quando cala il buio, dall'acqua emergono figure spettrali. Il male gocciola sul bagnasciuga e, immobile, spia dalle finestre. Cosa vuole la notte da quei protagonisti fragilissimi, già perseguitati dalla morte e dagli spettri della perdita? Horror psicologico che con molta probabilità e altrettanto disappunto qui non vedrà mai la luce, The Crescent è un esordio precoce, impressionante, nel segno delle tragedie familiari e dei simboli sfuggenti di quel Babadook che miete già proseliti. La prima parte ha la lentezza e l'intensità di un dramma a due. Mamma e figlio, bravissimi, dividono la scena fra momenti di sconforto e altri di tenerezza. Ti ci affezioni piano. Speri che lui si comporti da ometto e che lei riesca a trovare nella pittura, nell'amore per il piccolo, una via di fuga dalla depressione. La suggestione, le stranezze, salgono insieme all'alta marea, ma l'esordio del canadese Seth A. Smith affascinava già prima che i misteri della costa venissero a galla. Per la bellezza dei moti ondosi che, in sequenze quasi liriche, si confondono con i grumi di colore delle opere d'arte della protagonista. Per l'umanità di naufraghi del dolore che per tutto il tempo vorrebbero soltanto aggrapparsi: alla vita che resta, tra loro. Spaventa la mutamorfosi del sinistro dirimpettaio, che nasconde sotto la pelle la corazza di un paguro in cerca di casa. Si intuisce il colpo di scena finale, arrivati al giro di boa, ma il difetto è un altro: quei finali, al plurale, sì, che appaiono di troppo. Puntini sulle “i” per dare confini precisi a un incubo lynchiano; a un delirio subacqueo che un senso, una chiave di lettura, li troverebbe lo stesso. Alla deriva in un film, in un oceano – emblema ora di vita, ora di morte –, che strappa e risarcisce. (7,5)

La solita magione fatiscente nell'Irlanda del primo Novecento. Due gemelli – lui morboso e agorafobico, lei desiderosa di scappare con un giovane soldato ferito – che hanno chiuso fuori il mondo. A mezzanotte, la loro casa ospita i fantasmi. I due, chiusi in camera da letto, ne evitano il contatto: pur sapendo che è cosa impossibile eludere le loro attese; cambiarne i piani. Il regista Brian O'Malley, presente in sala, ha citato The Others, Giro di vite e Miriam si sveglia a mezzanotte fra le proprie ispirazioni. Ha parlato di un'educazione come artista, che si palesa a colpo d'occhio nelle atmosfere fiabesche e in un'insolita cura formale – nota a margine, ha scelto come set cinematografico una casa dalla fama losca che, nell'anno delle riprese, avrebbe compiuto fatidicamente 666 anni. Avrei anche perdonato la scarsa originalità, un colpo di scena male assestato, ma The Lodgers non ci prova nemmeno. Nessuna attesa, nessuna suspance, nessun brivido. Che senso hanno i fantasmi senza questioni irrisolte, se di un solito horror si tratta? Accanto alla bravura dei protagonisti, quei Charlotte Vega e Bill Milner che a onor del vero hanno volti inquietanti il giusto, in The Lodgers purtroppo si stentano a trovare altri pro. Affascinante nelle atmosfere ma sonnolento – chiedetelo a mio fratello, che non ha resistito a occhi aperti allo spettacolo delle ventidue –, questa solita ghost story ha spauracchi che paura non fanno e uno sviluppo non prevenuto. Stanco, non ho neanche avuto voglia di pungolare Diego per irritarlo a dovere. The Lodgers si meritava il suo sonno, sì, e i sottotitoli su Cineblog01. Non una sala per sé, né di certo un festival. (4,5)

Il solito manipolo di sopravvissuti, tra le nebbie e le campagne di un paese che resiste a un'inspiegata apocalisse. Spostarsi qui e lì, ma purtroppo a passo di gallina, in cerca di qualche supersiste con cui relazionarsi e di non morti ora da raggirare, ora da uccidere con qualsiasi arma a disposizione. Ero curioso di conoscere gli zombie secondo Robin Aubert, pare assai bene accolto allo scorso Toronto Film Festival. Di scoprire un cinema franco-canadese che non viveva soltanto del genio di Xavier Dolan, ma anche di registi poco conosciuti alle prese con una storia troppo risaputa. Les affamés (disponibile anche su Netflix, con il titolo I famelici) non mi è piaciuto, e non ne faccio misteri. L'ho trovato irritante, pretenzioso, e a fine visione non ho fatto compagnia a quegli spettatori che hanno abbozzato un mezzo applauso. Visivamente suggestivo (i misteriosi totem eretti nella brughiera, l'inquietante fissità di mostri immobili come le gemelline di Kubrick, un gore presente nelle giuste dosi), è un horror scarno, secco, ma vuoto più che esile. Si va lenti, molto, pur essendo per tutto il tempo in pericolo mortale. Si vagabonda senza speranze come nella Strada di Cormac McCarthy, ma senza mai prendere a cuore i protagonisti – volti e vicende anonime, che il pomeriggio stesso avevo già scordato. In un genere a digiuno di novità, con gli zombie che da otto anni a questa parte si sono fatti anche a puntate, Les affamés sceglie le peggiori borie da film da festival per distinguersi. Come se tutta questa noia, nell'horror, fosse poi l'ingrediente che mancava. (5,5)

giovedì 8 marzo 2018

Recensione: Reincarnation Blues, di Michael Poore

| Reincarnation Blues, di Michael Poore. E/O, pp. 440, pp.18 |

Reincarnation Blues, primo romanzo di Michael Poore a vedere la luce in Italia, è di quelli che possono intimorire. Opera complessa, corposa, ambiziosissima, sul momento mi ha affascinato e un po' spaventato. L'ho voluto presto perché sì, ma nessun momento sembrava quello propizio. Sapevo che avrei dovuto leggerlo – mi sarei perso altrimenti qualcosa di pazzesco –, ma temevo di non apprezzarlo troppo. L'autore, infatti, spazia nei generi, nelle epoche, nello spazio e nel tempo, come se il suo blues metafisico altro non fosse che un immenso puzzle. E se la sua fantasia iperattiva fosse stata troppo per me, che amo spesso restare coi piedi per terra? E se, come in Vita dopo vita, mi fossi annoiato? E se, peggio ancora, a furia di salti e balzi non mi fossi affezionato al protagonista? 
Milo è l'anima più antica del mondo. Non per questo, però, la più saggia. Ha vissuto la bellezza di 9.995 esistenze – da animale, pianta, uomo e donna, etero e gay – e, pronto a reincarnarsi di nuovo, scopre che il suo tempo sta per scadere. Glielo comunicano nell'Aldilà, il luogo a metà strada in cui finisce dopo ogni dipartita: costeggiato da un fiume che ora prende e ora toglie, suddiviso in quartieri, popolato da spiriti in attesa di una svolta e da forze primordiali che hanno assunto eccezionalmente le fattezze di Nonna e Ma', consigliere affettuose, con nugoli di gatti randagi tutt'attorno e il pugno di ferro. Ogni volta è lì, in quel limbo in cui è impossibile trasferirsi per sempre, che Milo può ricongiungersi all'amata Suzie, alias la Morte: donna appassionata e carezzevole, vorrebbe licenziarsi dall'impiego di tristo mietitore – anche se la sua onorata professione la ha permesso di conoscere perfino il nostro San Francesco, che la definiva sorella nel suo cantico – per aprire un negozietto di candele.

Erano complementari, come solo le persone che sono state assieme centomila volte sanno essere.

A un'anima straordinaria toccano un amore straordinario e qualche vita extra per raggiungere la Perfezione. Sopravvalutata, a detta sua, ma stavolta non sono concessi errori di percorso: il protagonista ha cinque tentativi per essere un uomo esemplare, altrimenti svanirà. Quando non ci saranno più altre occasioni, quando non ci saranno soprattutto altri decessi, cosa sarà di lui e di Suzie – legati, ma per la morte? 
Ogni capitolo di Michael Poore è una storia, un'esperienza, un mondo inesplorato da battezzare dal nuovo. Come fosse una silloge di racconti eterogenei – uniti però dalla stessa cornice narrativa, e con un protagonista che ovunque sia avrà il fiato corto per l'asma e un nome che ispira dolcezza –, Reincarnation Blues è una lettura, al pari della Confessione di Roman Markin, che ne contiene tante in una. Si oscilla dal noir allo storico, dalla fantascienza alla distopia, in cerca di quello che tutti cercano: un senso. Non lo trovavamo in Stoner, e quello in fondo era il bello – un bello che nella sua banalità, nella sua semplicità, ci somigliava. A volte Milo è un figlio di papà che vorrebbe costruire una sala da ballo sul sole per rubare la verginità alla dama di turno; altre, un artista di strada che sogna di fare il giocoliere con l'acqua. Ora è un aspirante serial killer che la Perfezione spererebbe di raggiungerla con un omicidio senza sbavature; ora l'allievo prediletto di un Buddha malato di Alzheimer. Talora è uno studente ingiustamente condannato a scontare la pena in una prigione galattica; talaltra, invece, l'abitante di un'isola che non c'è, minacciata dalla malvagità della natura e dalle violente colonizzazioni del Cartello.

Le persone sono terrorizzate a morte dalla felicità.

La saggezza non si impara e non si insegna: la saggezza non esiste. Ci si sbaglia, anche ritentando. E ogni volta, nonostante più possibilità implichino maggiore solitudine, la magia è la stessa. Se la vita è un sogno, in Michael Poore – un Morfeo giocoso, leggero e dissacrante quanto i colleghi Vonnegut, Gaiman e Adams – è un lunga, lunghissima dormita, in cui il risveglio lascia un sorriso pacifico e qualche riserva all'indomani della lettura. Una volta che ne fai tuo il ritmo, viene inevitabilmente meno la sorpresa iniziale. E il romanzo, piuttosto schematico nella struttura e con un'ultima vita, a un passo dalla chiusura, che regala purtroppo il capitolo meno poetico, si limita a muoversi esclusivamente in vista dell'obiettivo preannunciato. Rischiando di apparire un esercizio di stile, e di immaginazione; una sinfonia impossibile da dirigere. 
Il direttore d'orchestra getta di lato la bacchetta, così, strappa lo spartito, e preferisce andare a orecchio. A cuore sciolto.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Belinda Carlisle – Heaven is a Place on Earth

domenica 4 marzo 2018

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Il filo nascosto | Corpo e anima

Nel mio recupero, ho lasciato in coda Paul Thomas Anderson. Titolo tutt'altro che sacrificabile, ma con un regista, con un attore, di cui forse mancavano troppi tasselli per apprezzarne pienamente l'ultimo. Mi stanno grandi: manierati, manieristici. Non farebbe eccezione Il filo nascosto: visione importante, lunga, alle prese però con il tema di cui ogni canzone canta, ogni romanzo racconta, ogni cineasta – perfino uno come Anderson, glaciale – mette in scena. L'amore. Quello di un lezioso Day Lewis, stilista affermato nella Londra degli anni Cinquanta, per il proprio ego. Quello della rivelazione Vicky Krieps, da cameriera a indossatrice ideale, per un esteta sempre troppo invaghito della propria arte, sempre troppo preso dalle analogie con le donne della sua vita – il protagonista, dopo Nine con un altro ruolo di felliniana memoria, si divide infatti fra la collaborazione con Lesley Manville, arcigna sorella maggiore, e il ricordo per una mamma-sposa che nel culmine del complesso di Edipo si fa spettro ai piedi del letto. La modella gli invade la casa, l'atelier. Semina disordine anche solo masticando e fa nascere apprensione nell'eterno scapolo che non pensava di provare sentimenti. Ne percepisce per la priva volta nella vita, così, la forza e l'ingombro – potentissimo il piano sequenza al veglione di Capodanno in cui, da una balconata, lo stilista cerca la giovane donna nella folla. Senza Alma non c'è equilibrio. Woodcock le toglie il rossetto con un colpo di mano, al primo appuntamento. Sua sorella, invece, la annusa. Senza di lei, tuttavia, non ci sarebbe nemmeno ispirazione. Da una parte Day Lewis: vecchio stampo, misogino, che non sta al passo con le mode e non è disposto a cambiare né per denaro, né per affetto. Dall'altra la Krieps: un remissivo manichino con poco seno e i fianchi larghi, cieca davanti all'evidenza, che lo irrita per temprarne i nervi; che lo compiace al fine di risultare insostituibile. Entrambi subdoli e sgradevoli, eppure tremendamente umani, sono la serratura e la chiave della gabbia dorata di un Anderson d'alta moda. Gli ingredienti, quelli dell'ultima Coppola: un cast impeccabile perché raccolto, rigore, funghi. Il filo nascosto – bello in ogni suo orlo, occhiata e increspatura, nonostante il finale trascinato e una colonna sonora talmente presente da risultare un po' stucchevole – è la dimostrazione che la perfezione esiste. Ma, a volte, può risultare anche respingente per alcuni spettatori. Come un'eleganza che non sorprende, assuefacendo. Come un abito preso in prestito, al di fuori della nostra portata per foggia e prezzo, che abbiamo paura di sgualcire. Ma che, nel mio caso almeno, non ha avuto il cuore di restituire al legittimo proprietario. In un intreccio tessuto con ago e filo, inganno e sopraffazione, ho trovato in filigrana un difetto di fabbrica di quelli belli. Il messaggio segreto di un cinema magniloquente che cuce l'orpello dell'emozione fra le pieghe di un amore sbagliato: come fosse un post scriptum, come fosse un capriccio. (8)

Premiato a Berlino, candidato fra i migliori film stranieri, quell'aria di pesantezza che rende felice il critico di turno. Quand'è uscito nei nostri cinema, Corpo e anima non l'ho neppure notato. Titolo come tanti in una cinquina di lungometraggi apparentemente tutti irrintracciabili, tutti poco fruibili, si è lasciato scoprire degno di attenzione, di emozione, quando raccontato con le parole di Lisa. Che descriveva un amore strano, sussurrato, degno dei boy meets girl di cui non ho mai abbastanza. Che invitava ad avere pazienza per trovarci dentro la delicatezza, la poesia. Una complicità inattesa, Morfeo, due cuori e un mattatoio. Anima e corpo è ambientato infatti in un macello di Budapest. Lui è un responsabile di mezza età con un braccio praticamente inerte. Lei, ispettrice sanitaria dal polso di ferro, fa chiacchierare perché altera, riservatissima, con silenzi e piccole manie che vanno ben oltre la semplice stranezza di noi, gente schiva. L'Asperger, supporremmo, notando il modo in cui schiva il contatto con il prossimo, l'abitudine di ricordare date e dettagli lontani, la buffa simulazione di conversazioni standard schierando a tavola file di omini Lego. Sono entrambi difettosi, chi in un modo e chi in un altro. Circondati da un ambiente troppo violento, troppo invadente. Appaiono sin da subito male assortiti. Il dialogo latita. L'imbarazzo ha spesso al meglio – colpa di Maria, che vanifica i tentativi di Endre con occhi educati ma indecifrabili. Una psicologa ne scandaglia le menti, il passato, il cuscino. Quei due mezzi sconosciuti, a occhi chiusi, vivono fantastiche avventure e una commovente intimità. Fanno lo stesso sogno: cervi sotto la neve, nel bosco. Passare al piano fisico: si può, se le loro anime sono già amanti? Come trovare il coraggio di darsi un appuntamento in camera da letto, di piacersi, nonostante cuori chiusi a riccio e fisime irrinunciabili? Intelligente, arguto e pieno di grazia, Corpo e anima è il film da festival che non ti aspetteresti. Sembrerebbe quasi una commedia francese – penso a Emotivi Anonimi in particolare – per l'apparente leggerezza dei toni e la simpatia di quei due solitari incalliti. I colori freddi del Nord e il tepore del letto al risveglio. L'acciaio inox delle industrie contro lo splendore abbagliante degli scorci naturalistici. Il desiderio di cambiare, di tollerare le briciole a colazione dell'altro, senza però tradirsi mai. La ricerca epidermica e incessante del calore, del contatto umano. Non chiudete gli occhi davanti al sangue, se facilmente impressionabili. Non lasciatevi scoraggiare dall'asprezza della lingua. La commedia romantica per cui tifare quest'anno è ambientata in un mattatoio: insegna che bisogna sognare un po' per ridestarsi. L'amore – uno di quelli sui generis, che piacciono a me – parla pochissimo, e ungherese. (7,5)