lunedì 31 dicembre 2018

[2018] Top 10: Mr. Ciak



10. Figlia mia
Un selvaggio melodramma al femminile dai colori accesi e gli impressionanti piani sequenza. Un romanzo di formazione purtroppo passato in sordina, con affascinanti sprazzi kitsch e interpreti al loro meglio. In terre, in film, in cui raddoppiano l'emozione, le mamme e l'amore.

9. Lontano da qui – The Kindergarten Teacher
Insieme alla Bispuri, il grande outsider della rassegna. L'amicizia tra un'insegnante e un piccolo poeta di cui salvaguardare il talento (anche appropriandosene), in un dramma pedagogico fra due estremi: la disattenzione degli adulti e le pressioni morbose di chi sogna un futuro migliore. Sullo sfondo, un mondo troppo distratto per i geni incompresi e le maestre con una missione, che fa orecchie da mercante davanti alla poesia del cinema indie.

8. Tonya
L'ascesa e la caduta – soprattutto, i chiacchierati misfatti – di un nemico pubblico col vestito glitterato e il fiocco fra i capelli. Il risultato è la biografia politicamente scorretta che non ti aspettavi. L'altro lato della medaglia. 

7. Hereditary – Le radici del male
La prima parte è una logorante tragedia domestica, la seconda una libbra di carne da pagare alle logiche di mercato. I pro bilanciano i contro, se a dirigere c'è un esordiente con la mano dei miniaturisti. Tutte uguali le famiglie felici, infatti, a modo loro quelle le maledette.

6. Dogman
Storia di cure affettuose e violenza barbara, è un noir che si affranca grazie al cuore grande del cinema d'autore. Emoziona, intenerisce, spossa, con una vicenda a briglia sciolta legata all'orgoglio di un omino con un soprannome da anti-eroe da fumetto. Complice quale sei, ti salvi soltanto se corri più forte, lontano, del cane che abbaia e che morde.

5. Roma
Piccola grande ode alla tenacia delle donne, alla quiete delle case in ordine, alle infanzie da non rinnegare mai, in cui si ricercano con successo l'arte e la poesia dappertutto. Assieme alla bellezza di una nuova meta, una seconda Roma, dove darsi appuntamento con la puntualità dei ricordi.

4. Il filo nascosto
Bello in ogni suo orlo, occhiata e increspatura, l'ultimo Paul Thomas Anderson è la dimostrazione di come la perfezione stilistica possa risultare respingente. Come un abito preso in prestito, al di fuori della nostra portata, che abbiamo paura di sgualcire. Ma che, nel mio caso almeno, non ha avuto il cuore di restituire al legittimo proprietario.

3. Tre manifesti a Ebbing, Missouri
Un bagno di male da cui si esce annaspanti, grati, toccati: colpiti in pieno petto. Si perdona, ci si vendica. Si piantano i fiori, e una donna in tuta da meccanico se ne prende cura, perché ha un cuore nero ma il pollice verde. Si aspetta che un cerbiatto – un segno del destino, diremmo – torni a brucare. Alle porte di Ebbing, Missouri, finché c'è rabbia c'è speranza.

2. La forma dell'acqua
Magnifica creatura anfibia che sa conquistare le acque e la terra, uccidere, ridere e fare l'amore, questo novello La Bella e la Bestia a spasso nel Favoloso mondo di Amélie è un gioiello dell'emozione che rinnova in poltrona il colpo di fulmine per la settima arte. Quindi tuffatevi a recuperare quella scarpetta che se ne va alla deriva. A vedere come fa, un cuore di conchiglia in cui accostato l'orecchio puoi sentire battere e rombare il mare.

1. Chiamami col tuo nome
Con un indefinibile senso di meraviglia, Guadagnino ci lascia assistere al risveglio della natura di Elio e Oliver. In un melodramma intriso di classicismo e grazia, epidermico ma angelico insieme, che spiazza, spezza e spazza via. Partecipano Madre Natura in persona, i cinque sensi, e uno spettatore che non vorrebbe cacciare mai gli innamorati da quel Paradiso su misura. Le persone che si vogliono bene sono tutte belle. Queste, un po' di più.

I PREMI COLLATERALI

Miglior attore protagonista: Timothée Chalamet (Chiamami col tuo nome), Harry Dean Stanton (Lucky), Marcello Fonte (Dogman);
Miglior attrice protagonista: Diane Kruger (Oltre la notte), Margot Robbie (Tonya), Tony Collette (Hereditary);
Miglior attore non protagonista: Michael Stuhulbarg (Chiamami col tuo nome), Sam Rockwell (Tre manifesti a Ebbing, Missouri), Alessandro Nivola (Disobedience);
Miglior attrice non protagonista: Allison Janney (Tonya), Elena Sofia Ricci (Loro), Claire Foy (First Man).




Muchacha sexy: Matilda Lutz (Revenge), Ophélie Bau (Mektoube, My Love: Canto Uno), Lily James (Mamma mia! Ci risiamo);
Bello e impossibile: Henry Golding (Crazy Rich Asians, Un piccolo favore), Armie Hammer (Chiamami col tuo nome), Alessandro Borghi (Napoli velata);
La coppia più bella del mondo: Chalamet-Hammer (Chiamami col tuo nome), Blunt-Krasinski (A Quiet Place), McAdams-Weisz (Disobedience);
Nice to meet you: Lady Gaga (A Star is Born), Alex Wolff (Hereditary), Adriano Tardiolo (Lazzaro felice).


Sing it back: Shallow (A Star is Born), Mystery of Love (Chiamami col tuo nome), Never Enough (The Greatest Showman);
Psycho Killer: Blake Lively (Un piccolo favore), Michael Shannon (La forma dell'acqua), Edoardo Pesce (Dogman);
Will you recognize me?: Robbie-Jenney (Tonya), Alessandro Borghi (Sulla mia pelle), Toni Servillo (Loro).
Let's talk about sex: La pesca (Chiamami col tuo nome), Il bagno-acquario (La forma dell'acqua), Mezzogiorno-Borghi (Napoli velata).
Cry me a river: Il ballo (La forma dell'acqua), I titoli di coda (Chiamami col tuo nome), Il ritrovamento del corpo (Searching). 



domenica 30 dicembre 2018

[2018] Top 10: Le serie TV


10. Kidding
Quand'è che lo spettacolo deve continuare? Se lo chiede un Carrey in forma smagliante, rinnovando su Showtime il sodalizio con Gondry. Ci mettono l'intensità del cinema indie, un po' di stop-motion, la malinconia degli ultimi sognatori.

9. Killing Eve
Produzione BBC affatto ingessata, ti corteggia con l'ironia e gli sguardi giusti prendendosi nel mentre poco sul serio. Cosa c'è in ballo, con una seconda stagione già annunciata? Se in un thriller scoppiettante in cui le donne fan da padrone, potremmo confidare nei trucchi che nascondono in borsetta – oggetti contundenti compresi.

8. American Vandal
Un giallo con le problematiche dei nostri ragazzi e gli incastri della Christie. Un esperimento sociale che schiera in campo l'intelligenza degli autori, l'originalità dei mezzi, per vandalizzare un genere ormai abusatissimo e dagli scarabocchi osceni, dai virus intestinali, far nascere i germi della rivoluzione.

7. The Marvelous Mrs. Maisel – Stagione II
Riecco Midge, già pronta per il tour. Ha un nuovo flirt, nuovi cappelli per gli abiti da cocktail e quache difficoltà a gestire la sua doppia vita. Se si sente la mancanza dei suoi numeri di cabaret, messi da parte per lasciare spazio a personaggi con meno appeal, compensano le battute al solito fulminanti, gli invidiabili colori pastello e un'eroina contro i tabù.

6. The Affair – Stagione IV
Ci sono meno rancori, meno bugie, ma tanti segreti. Scarseggia il sesso, nella stagione più matura delle quattro, e ci si dà a confessioni struggenti e a qualche rara caduta di stile. Ci si prova a rimpiazzare come si può, nell'impossibilità di dimenticarsi. Lo stesso può dirsi anche di una serie tornata agli alti livelli di un tempo, che invece, sfiduciato, davo già per persa.

5. BoJack Horseman – Stagione V
Sempre un gioiello di scrittura, l'inossidabile serie animata si cimenta con altri impeccabili esercizi di stile, spesso al limite dello sperimentale, che trovano facilmente terreno fertile da queste parti – viva i soliloqui teatrali, viva gli incastri audaci. Accendete: c'è l'esistenza in onda. Magari in binge watching?

4. Daredevil – Stagione III
La serie Marvel che non ha i superpoteri ma è comunque super. Una granitica crime story che lascia da parte la lentezza della stagione introduttiva, gli affollamenti della seconda, e trova con successo una dimensione noir atipica per il genere.

3. Homecoming
Le geometrie di Kubrick, gli split screen di De Palma, l'aspect ratio di Dolan. Esmail è andato a scuola dai migliori. E nobilita, così, un thriller psicologico che più classico non si può: rigoroso ma non senza ironia, algido ma non senza sentimento; rétro eppure modernissimo.

2. L'amica geniale
Le abbiamo lette, le abbiamo supportate, le abbiamo immaginate. E le abbiamo riconosciute a colpo d'occhio nella serie che doveva farcele conoscere in carne e ossa e che, per fortuna, ha compiuto il miracolo.

1. The Hauting of Hill House
Si confondono realtà e immaginazione. Si viene a patti, in una terapeutica seduta di ipnosi, con la delusione di cinque bambini impreparati al mondo esterno. Prigionieri prima di quelle stanze buie, poi del ricordo, i Crane spergiurano, falliscono, commuovono e perdonano su una via per l'elaborazione che porta dove tutto ha avuto inizio. Ci viene richiesta un'identica assenza di logica per prestare fede all'amore, per credere all'orrore. Il resto, direbbe Nell, sono coriandoli.


I PREMI COLLATERALI

Miglior attore protagonista: Jim Carrey (Kidding), Jonah Hill (Maniac), Charlie Cox (Daredevil);
Miglior attrice protagonista: Julia Roberts (Homecoming), Rachel Brosnahan (The Marvelous Mrs. Maisel), Jodie Comer (Killing Eve);
Miglior attore non protagonista: Vincent D'Onofrio (Daredevil), Joshua Jackson (The Affair), Alan Arkin (Il metodo Kominsky);
Miglior attrice non protagonista: Yvonne Strahovski (The Handmaid's Tale), Mandy Moore (This is us), Sissy Spacek (Castle Rock).



Muchacha sexy: Debby Ryan (Insatiable), Elizabeth Lail (You), Kiernan Shipka (Le terrificanti avventure di Sabrina);
Bello e impossibile: Daniel Sharman (I Medici), Christopher Gorham (Insatiable), Bill Skarsgard (Castle Rock);
La coppia più bella del mondo: Barden-Lawther (The End of the F***ing World), Oh-Comer (Killing Eve), Barrymore-Olyphant (Santa Clarita Diet);
Nice to meet you: Elisa del Genio e Ludovica Nasti (L'amica geniale), Eliza Scanlen (Sharp Objects), Stephan James (Homecoming).




Sing it back: I Feel You (Sense8), Shall We Dance? (The Marvelous Mrs. Maisel), Renaissance (I Medici);
Psycho Killer: Jodie Comer (Killing Eve), Darren Criss (The Assassination of Gianni Versace), Wilson Bethel (Daredevil);
Cry me a river: La morte di Jack (This is us), Il monologo di Nell (The Haunting of Hill House), L'alzheimer di Sissy Spacek (Castle Rock);
Let's talk about sex: Il ménage à trois (Élite), L'orgia di addio (Sense8), Amy Adams e Chris Messina (Sharp Objects);
Ops, I dit it again – Guilty Pleasure: You, Élite, The Generi

sabato 29 dicembre 2018

[2018] Top 10: Le mie letture


10. The Outsider | Stephen King
Lo scriveva già Shakespeare: ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia. Nell'ultimo Stephen King ce n'è qualcuna in più.

9. Sotto il falò | Nickolas Butler
Lo scorso luglio ho salutato Butler fuori stagione. Aveva nel bagaglio a mano dieci storie, dieci ballate, che parlavano di paternità, amicizie al maschile, campagna contro città. È tornato a emozionarci sottovoce, così, con la malinconia che solo lui, Haruf e pochi altri cowboy romantici sanno suggerire. In pillole.

8. Dai tuoi occhi solamente | Francesca Diotallevi
Chi era Vivian Maier, la tata francese che dava false generalità, colleziona storie, fuggiva per la paura di essere abbandonata? Nella finzione letteraria a far breccia nella sua corazza sono le attenzioni della famiglia su cui veglia. In libreria, invece, l'arduo compito spetta a Francesca Diotallevi, qui alle prese con il più fascinoso e sfuggente dei suoi personaggi.

7. Se la strada potesse parlare | James Baldwin
Se la strada potesse parlare ti racconterebbe una storia bellissima già diventata film. Una favola d'amore e denuncia che, con la discrezione dei piccoli grandi classici, non diventa mai una celebrazione fine a se stessa del Black Power né un canonico dramma giudiziario. 

6. Vittoria | Barbara Fiorio
Un siamese, un po' di magia, il nome di Barbara in copertina. L'indispensabile, insomma, in una commedia sulla difficoltà di riprendersi in mano la vita, tra conti in rosso, cuori infranti e fotomanzia. Dentro, tutta la leggerezza del mondo e, a sorpresa, tanto di più. 

5. L'animale femmina | Emanuela Canepa
L'apprendistato di Rosita presso lo studio di Lepore, avvocato spregevole ma magnetico, dura il tempo di una prigionia e di un romanzo ambiguo. Quanto costa cara l'indipendenza, in un piccolo harem della Padova bene dove la parola resilienza è blasfema e il valore di una segretaria si giudica dai caffè che serve?

4. Salvare le ossa | Jesmyn Ward
Ritratto di famiglia con tempesta, come in un film di Hirokazu Kore'eda. Un padre, un pitbull, quattro fratelli contro la distruzione di un uragano che porta il nome di donna, in un microcosmo eppure declinato al maschile. Tutto è bellissimo, incantevole e terrificante come letto nelle recensioni venute prima della mia. Ho conosciuto i Batiste in ritardo, e adesso non me li scordo più.

3. Isola di Neve | Valentina D'Urbano
Siamo a Novembre: un'isola che non c'è. Siamo alla ricerca del concerto per violino di Andreas Von Borger: un musicista tedesco, in realtà, mai esistito. Eppure, sovrappensiero, ti viene da cercare su Google articoli che parlino di tutti loro. Solo per scoprire con un po' di amarezza e un po' di stupore che sono l'invenzione di una scrittrice forse qui al suo meglio.

2. Vincoli | Kent Haruf
Ritorni inaspettati in quel di Holt. Anche se non tutto è oro quel che luccica in campagne in cui l'eredità della terra, i legami di sangue ti vincolano vita natural durante. Quanto decoro però, quanta bellezza: a tal punto che ti viene da dire, Kent, grazie, mi fermo qui a leccarmi le ferite. Quasi quasi resto a Holt. 

1. Divorare il cielo | Paolo Giordano
Un grande romanzo o un romanzo grande? Nel dubbio, una straordinaria storia corale che contiene una generazione ribelle, perfino il cielo, grazie alla scrittura di un Giordano ufficialmente stanco della solitudine del suo primo successo. 


I PREMI COLLATERALI

Miglior thriller: Ellie all'improvviso Lisa Jewell
Miglior fantasy/distopico: Paesaggio con mano invisibile M.T. Anderson
Miglior young adult: Montpelier Parade Karl Geary
Miglior romanzo LGBT: Le ferite originali Eleonora C. Caruso 


Esordi memorabili: Guasti Giorgia Tribuiani
Graphic Novel, che scoperta: S. Gipi
Storie d'amore: Anonimo veneziano Giuseppe Berto
Romanzo kleenex: Eleanor Oliphant sta benissimo Gail Honeyman 


Memoir: Non mentirmi Philippe Besson
Tanto rumore per nulla: Vox Christina Dalcher
Guarda un po' chi si rivede (la sorpresa): Il sole è anche una stella Nicola Yoon
Be', dai, ci siamo visti (il flop): L'ultima volta che siamo stati bambini Fabio Bartolomei

giovedì 27 dicembre 2018

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Roma, Cold War, First Man

Lavare il battuto con acqua e sapone fino a farlo brillare. Svegliare i bambini e andare a prendere il minore a scuola. Rassettare, cucinare e la sera, per risparmiare sui consumi, fare un po' di ginnastica alla luce delle candele. Appendere i panni in terrazza, e da lì guardare gli aerei passare sempre alla stessa ora. Dove andranno? Deve domandarselo Cleo, vent'anni e un lavoro a tempo pieno: domestica in una famiglia alto-borghese in cui ci sono sempre esigenze, bambini che hanno sempre voglia di giocare. Se il papà medico è spesso assente con la scusa del lavoro, e va e viene soltanto per lamentarsi della casa non abbastanza pulita, delle cacche di cane sul vialetto, del parcheggio troppo stretto, la mamma è una donna sull'orlo di una crisi nervosa, che poco presta attenzione alla carrozzeria dell'auto e ai ruoli di potere, eppure sa mostrarsi insospettabilmente forte nei momenti di difficoltà. Alle prese con quattro bambini disobbedienti e una casa presto sprovvista della figura paterna, le due donne condividono abbandoni e segreti sulla maternità. Cleo, custode onnisciente dei loro fragili equilibri, resta incinta di un esibizionista che si sognava Bruce Lee: nello stesso mese perde la verginità e l'amore, piantata in asso in un cinema. La vediamo macinare chilometri a perdifiato, nonostante l'ingombro del pancione, in un Messico a soqquadro in cui si specchiano alla perfezione le gioie e i dolori di una famiglia che riconosciamo a colpo d'occhio come quella del premiatissimo Cuarón: sbaglio, o il piccolo di casa che fantasticava di altre vite già con il piglio dei narratori è proprio l'alter-ego di Alfonso, fresco di vittoria a Venezia? La macchina da presa spazia tra panoramiche e piani sequenza, ricercando dettagli vitali e scorci di impareggiabile manierismo in una vicenda altrimenti semplicissima. Stilisticamente straordinario, senza l'esigenza di alzare inutilmente la voce, il cineasta messicano ci regala sequenze memorabili – l'incendio dei proprietari terrieri a Capodanno, la ferocia della rivolta dove vita e morte corrono gomito a gomito, lo spettacolo sublime del mare aperto e il coraggio di sfidarlo petto in fuori con il rischio di annegare – e un album di ricordi in cui la settima arte si fa quanto mai questione privata. Boyhood è diventa la mia, però, mentre questa è rimasta quella di Alfonso: troppo distante da me nello spazio, nel tempo, ma ode alla tenacia delle donne, alla quiete delle case in ordine e alle infanzie da non rinnegare comunque abbacinante. Contro l'incostanza di maschi traditori, gli sconvolgimenti dell'esterno – terremoti, rivoluzioni o bande armate che siano – e le richieste di una Hollywood che di solito richiede storie sensazionali per sentirsi all'altezza. Gli ha dato carta bianca Netflix, nonostante la nostalgia della sala buia si faccia sentire, e la terra natìa gli ha suggerito tutto il resto. Il segreto di Pulcinella di quei piccoli grandi film che cercano con successo l'arte e la poesia dappertutto, e così facendo ne regalano un po' anche alla tua vita. Assieme alla bellezza di una nuova meta, una seconda Roma, in cui darsi appuntamento con la puntualità dei ricordi. (8)

Paese che vai, melodramma che trovi. Di quelli con le panchine all'alba, dico, le passeggiate seguite da carrellate da maestro e finali irrimediabilmente dolce-amari. Possono cambiare il contesto (la Guerra fredda) e il formato (4:3), gli sfondi (la Polonia degli anni Cinquanta) e le intenzioni (rendere omaggio ai genitori del regista stesso), e perfino strutture narrative che quell'amore già così sofferto decidono di dilatarlo e frantumarlo in novanta minuti di visione. Siamo in territorio comunista, si cercano talenti cari al regime: lei ha la frangia bionda, una voce da usignolo, un passato losco; lui la accompagna prima con il pianoforte, infine nel sogno della fuga. Durante una tappa a Berlino si danno infatti appuntamento per scappare in Francia: non parlano bene il francese, ma si piacciono e confidano che l'amore basterà. Zula non lo segue, non subito. Abbiamo protagonisti con cui è difficile simpatizzare, poiché incapaci di scendere a compromessi; la regia tutta geometrie interne e bianchi e neri sopraffini di un Pawel Pawlikowski in cerca di un secondo Oscar dopo Ida; una freddezza che non si limita soltanto al titolo, no, ma viene ammorbidita dal jazz in sottofondo e dalle braccia degli amanti. Sono apolidi, innamorati a tratti come in Like Crazy, e non hanno che l'uno e l'altra come bussola. Ma lui, attratto dal mondo del cinema e dai guadi impossibili, è troppo egoista per la condivisione. Ma lei, adolescente accusata di parricidio e donna alticcia in pista da ballo, si accorge che fama e notorietà non si sposano bene se nella lontananza ci si è scoperti altro da quel che si era. Si daranno appuntamenti saltuari negli anni, nei locali fumosi delle capitali. Si inseguiranno da un capo all'altro di linee inviolabili, nonostante non ci sia perdono per i disertori – tanto dei confini familiari quanto dei sentimenti negati. Vivranno insieme per un po', ma mancherà loro il brivido del pericolo, quella casa in cui non sono più i benvenuti. Si trovano così a combattere un'altra guerra fredda, ma fra di loro. Minacciati dalla routine, dalle gelosie verso gli uomini e le donne avuti nel frattempo, dalla perdita d'ispirazione come in A Star is Born. All'inizio li accompagnava la schiettezza dei canti folkloristici, poi sono arrivati quelli di propaganda, infine le impalpabili ballate parigine. Hanno perso la voglia e le parole giuste per cantare d'amore. E noi perdiamo il conto dei viavai, degli sbalzi d'umore, del passare del tempo. Provati dall'incessante andirivieni e dalle brusche dissolvenze in nero, ma coinvolti in un'epopea tragica in cui la vista è bellissima e l'avventatezza della nostalgia può mettere seriamente in pericolo. Commossi da una guerra, e da un amore, le cui sentinelle non abbandonano mai la retroguardia di un passato romantico alla mercé degli avversari. (7)

Houston, abbiamo un problema. Questione di aspettative disattese, di momenti giusti o sbagliati, di film diversi da come ti aspettavi. Quelli che su carta non promettevano niente di buono, soprattutto a te che poco apprezzi il patriottismo a stelle e strisce e gli effetti speciali, ma che a sorpresa ti prendono per la gola. È il caso di First Man: accolto tiepidamente a Venezia, bocciato da blogger con cui ho condiviso il grande amore per La La Land, frainteso dagli spettatori che in sala si aspettavano avventure o forti emozioni. Lontano tanto dall'agiografia quanto dal classico sensazionalismo del cinema di genere – eppure qualcuno lo paragona a torto ai biopic di Steven Spielberg o Ron Howard –, l'ultima fatica del prodigioso Chazelle è una ricostruzione inconsueta perché capace di dividere. Chi se lo sarebbe aspettato, parlandosi di un eroe americano già canonizzato? Il granitico Neil Armstrong, interpretato da un Ryan Gosling che sceglie con intelligenza estrema i propri ruoli – l'espressività non è il forte dell'attore canadese, ed ecco che gli viene in soccorso un uomo dai sorrisi rari, di poche parole –, è un fuggitivo. Scappa a ogni occasione dalla routine, dagli effetti collaterali dei sentimenti, dal dolore inespresso per la morte della minore delle figlie. Non trova pace su questa sera e, da bravo codardo, preferisce puntare al cielo. La moglie Claire Foy pietrificata davanti alla radio – gli occhi lucidi, le mani da tormentarsi senza pace – intanto onora le regole di buon vicinato, si prende cura di ciò che resta della famiglia, lo aspetta. Suo marito, che da giovane aveva il pallino per il musical e un'aria mite, si è reso il principale protagonista di una corsa allo spazio che contrappone da un lato gli Stati Uniti, dall'altro la Russia. I piloti morivano come mosche ancora prima di decollare, e i contribuenti cominciavano a mormorare preoccupati; bisognava sfidare costantamente il vomito, la claustrofobia, la paura delle vertigini; i giornalisti incalzavano con domande incapaci di scalfire la tuta bianca di Armstrong. Cosa dirà calpestando il suolo lunare, cosa porterà con sé? Dimenticatevi i volteggi manieristici, i brani memorabili e i colori pastello del musical con Emma Stone: qui hanno la meglio i primissimi piani, i silenzi sacrali, le sequenze contemplative, le angosciose soggettive attraverso il vetro di un oblò. Per oltre due ore, complice una visione lenta e immersiva, è come essere lì con lui, che parlava troppo di lavoro e poco di sentimenti. Nel terrore, nello splendore. La terra vista da lontano è uno spettacolo che all'improvviso reclama a sé la colonna sonora da brividi di Justin Hurwitz e bastano la musica che finalmente fa capolino, la visione struggente di braccialetto che scivola a terra piano, a contrastare la freddezza siderale del mondo di Neil Armstrong senza mai snaturarne l'indole. Come capitò anche ad Astolfo, il cavaliere dell'Orlando Furioso in cerca del senno perduto a cavallo di un ippogrifo, non restava che puntare in alto per recuperare l'umanità. Prima la consapevolezza, poi la meraviglia della passeggiata, valgono un mese di quarantena; una visione ostica ma segnante. L'anno scorso ci ha dato le stelle, adesso non chiedetegli anche la luna. (7,5)

lunedì 24 dicembre 2018

I ♥ Telefilm: L'amica geniale | Kidding | Daredevil S03

Le abbiamo lette, le abbiamo supportate, le abbiamo immaginate. Perfino io, fermo per ragioni sconosciute al primo romanzo. E le abbiamo riconosciute a colpo d'occhio con commozione nella serie che doveva farcele conoscere in carne e ossa e che, tiriamo un sospiro di sollievo, non ha deluso le attese. Sono nate in un rione alle porte di Napoli. Non parlavano italiano fluentemente, solo dialetto stretto. Erano scapigliate, vestite di poco e ambizione: a volte amiche del cuore, altre nemiche giurate. Quanta strada hanno fatto. Prima nelle librerie di tutto il mondo, poi in anteprima a Venezia: ora sul piccolo schermo di casa nostra, e con cifre record, nell'evento televisivo che ha compiuto il miracolo. Dare loro un volto, un passo spedito, riuscendo a rendere giustizia tanto alla nostra immaginazione quanto alla loro grandezza. Siamo nella Napoli del secondo dopoguerra, la stessa di De Filippo: i Solara e i Carracci si fanno guerra; le donne abbandonate lanciano stoviglie come la sceneggiata comanda; i padri padroni picchiano, i giovani sparano, le ragazze accettano a malincuore il destino di angeli del focolare. In queste atmosfere violente, rischiarate a sprazzi dai bagliori di una striscia blu all'orizzonte o dalle ripetizioni di Latino sui gradini polverosi, si muovono tra l'infanzia e l'adolescenza Lenù e Lila: la prima contemplatrice che poco si sbottona, ma che eppure ha uno sguardo talmente parlante da rendere superflua la voce narrante di Alba Rohrwacher; l'altra, invece, coetanea sfortunata ma prodigiosa – nell'impossibilità di diventare la nuova Jo March si reinventa infatti imprenditrice – che da piccola prende a sassate i maschi, da adulta li fa capitombolare con lo sguardo di chi non dà soddisfazioni. Dirige Costanzo, producono Rai e HBO, e l'ardimento è di casa. Al pari dell'ultimo Cuaròn, la serie è un tranche de vie senza apparenti guizzi che, con la scusa di un'amicizia da rivangare, racconta uno spaccato di Italia a metà tra i coming of age e le cronache agrodolci delle nostre nonne. Abbonderanno dunque i silenzi, gli sguardi profondi – le esordienti Margherita Mazzucco e Gaia Girace, senza scordarci delle controparti infantili Elisa del Genio e Ludovica Nasti, sono meravigliose –, assieme a sequenze censurate poiché di una franchezza scomoda e di una poesia a cui il pubblico generalista è disabituato. Il dialetto regala immediatezza, la colonna sonora di Max Richter i brividi consueti, e la messa in scena – con tanto di citazioni a Rossellini o ai languori di Guadagnino – presenta gli scorci spigolosi di una tela di De Chirico. Si parla di ruoli: quanto contano il genere, l'istruzione e la buona sorte? A volte il talento non basta. Serve fortuna, e conquistarla richiede compromessi inammissibili per uno spirito orgoglioso. A volte non basta nemmeno la fama, se vivere di rendita non aggrada. Elena Ferrante ha tutto: la fiducia dei migliori addetti ai lavori e una schiera fittissima di affezionati. Già al cinema grazie a Martone, Faenza e prossimamente Maggie Gyllenhaal, la scrittrice del mistero conferma in otto episodi la sua energia vitale e il fascino di un microcosmo che voleva farsi costruire tassello per tassello, filmare da un regista d'eccezione, per renderci prigionieri di un quartiere – di una dipendenza nuova – senza vie di fuga. Storia del nuovo cognome è già sul mio comodino. (8)

Ogni mito d'infanzia nasconde degli scheletri nell'armadio. Pensate ad esempio a Michael Jackson o Bill Cosby. Ai sospetti, alle accuse, alla fine del sogno. Purtroppo o per fortuna sulla reputazione di Mr. Pickles – Tonio Cartonio, ma con marionette annesse – non c'è la macchia dello scandalo. È stato vittima di un incidente nemmeno dipeso da lui, che era perfettamente presente a sé stesso, ancorato alla cintura di sicurezza, in regola col bollo e l'assicurazione: chi gli viaggiava accanto, però, non ce l'ha fatta. Suo figlio è morto. Come sentirsi ancora il papà d'America senza? Come fingere l'allegria quando i brutti pensieri abbondano? Jeff ha un altro figlio, finito nel tunnel della dipendenza a soli dodici anni; una Judy Greer fedifraga che d'un tratto vuole andare a convivere con l'amante; la sorella artista Catherine Keener con un marito omosessuale in odore di outing; il papà-socio Frank Langella con programmi alternativi per il loro show. Nel momento del bisogno, così, tutti si reinventano per dimenticare; tutti vogliono rimpiazzare un conduttore sprovvisto della verve di un tempo. Non sarebbe l'ora di aprire gli occhi ai bambini sulle delusioni in agguato, i miracoli dell'ascolto, i qui pro quo del sesso? Se lo chiede disperatamente un Jim Carrey di nuovo in forma smagliante: torna sulle scene in un ruolo che ha tanto di autobiografico, buffo e vulnerabile come solo lui sa, e rinnova su Showtime il vincente sodalizio con Michel Gondry. Il regista francese, qui principalmente impegnato come produttore, ci mette l'intensità del cinema indie, un po' di stop-motion, la malinconia degli ultimi sognatori. Le leggi della messa in onda vogliono rubare al protagonista i sentimenti, perfino l'identità: spersonalizzato, trasformato ora in un videogioco, ora in un giocattolo parlante, Carrey è sull'orlo del collasso. Innamorarsi nel mentre di una malata terminale, nutrire un'amicizia epistolare con un condannato a morte, elargire consigli e donazioni anche all'automobilista incrimianto non sono un'idea troppo brillante. La furia omicida o la rivalsa di chi infine riprende in mano le redini sono nell'aria. Il precipizio è lì, a un passo, ma Mr. Pickles insegna che giù dalla cascata si apre spesso un miracoloso paracadute. Quanto deve durare l'illusione? Soprattutto, quand'è che lo spettacolo deve continuare? Non sono tematiche queste, non sono serie TV – per qualità e impegno –, con cui scherzare. (7)

Troppo con i piedi per terra per prestar fede ai supereroi, mi piace però credere nelle eccezioni alla regola e nelle buone intenzioni. Nell'arco di un paio di stagioni ho creduto al trionfo e alla caduta di un giustiziere con il mondo contro: folle – anzi, cieco –, e per quello amatissimo da pubblico e critica. Meno da Netflix, che dall'oggi al domani ha deciso di non rinnovarlo nelle proteste generali. Riapprocciarlo allora in ritardo, con parsimonia, e a sorpresa trovarsi davanti una stagione senza sbavature né parentesi da sciogliere. Che fine ha fatto Matt Murdock, avvocato di giorno e paladino di notte? Non è in un'aula di tribunale né nel suo appartamento sfitto. Il suo studio ha chiuso i battenti e, in tredici episodi, non indosserà mai la tuta rossa. Prima creduto morto, poi etichettato come nemico pubblico, si conferma un vigilante atipico perché dolente e umano: l'eroe che piace a chi non apprezza l'universo Marvel. In crisi d'identità, si muove nel sospetto come il Cavaliere di Nolan. Ci sono cose della sua infanzia che non sospetta. Ci sono torti, crimini, che vanno scontati ammazzando e non davanti a un giudice. La fede nel Diritto lo ha tradito, lo ha tradito anche Dio. Mentre il collega Foggy ambisce alla carica di procuratore e Karen fa i conti con mani macchiate di sangue, il potente Fisk ha trovato l'ennesima scappatoia dalla galera. Agli arresti domiciliari in una safe house che ha tutta l'aria di un hotel a cinque stelle, tiene in scacco a suon di ricatti e vendette perfino l'FBI: tutti sono corruttibili – soprattutto Nadeem, agente con famiglia a carico, e Bullseye, nemesi dalla mira perfetta. Sfiduciato, ateo all'improvviso, Daredevil frequenza le chiese – a curarlo è una suora con un segreto scomodo – e si interroga sui passi fatti, su quelli da fare. Uccidere per la prima volta un uomo, o rimetterlo in manette con il rischio che di lì a poco s'imbatta in un altro secondino da assoldare? La serie di Goddard conferma di non avere né effetti speciali né prodigi mirabolanti. Non ha i superpoteri – sanguina, sfoggia i lividi e i punti di sutura –, ma è super. Una granitica crime story che lascia da parte la lentezza della stagione introduttiva, gli affollamenti della seconda, e trova con successo una dimensione noir assolutamente atipica per il genere. Così come atipiche continuano a essere le scazzottate in piano sequenza, l'intensità di Cox e D'Onofrio nei ruoli della vita – sorprendente il villain di Wilson Bethel, bello che non ballava in Hearts of Dixie –, le polemiche per la cancellazione immerita. Sì, perché Daredevil purtroppo si chiude qui. Con il numero perfetto, il tre, e il migliore dei congedi: giù la maschera, fino a svelarci il suo volto più tormentato. E per questo più autentico. (8)

venerdì 21 dicembre 2018

Recensione: Ellie all'improvviso, di Lisa Jewell

| Ellie all'improvviso, di Lisa Jewell. Neri Pozza, € 18, pp. 304 |

Qual è il vademecum per il thriller perfetto? Personaggi pieni di ombre, intrighi imprevedibili, colpi di scena spiazzanti in vista del gran finale. Quale, ancora, quello per superare stadio dopo stadio il peggiore dei dolori: seppellire una figlia in un'uggiosa mattina londinese? Autocommiserarsi a piccole dosi, perdonarsi giacché umani e frangibili, stringersi nell'abbraccio dei restanti membri della famiglia. 
Nel primo romanzo che leggo della prolifica Lisa Jewell – giallista, ma in passato anche autrice di narrativa rosa –, a sorpresa nessuna di queste voci viene rispettata. A partire dalla protagonista femminile, mamma affranta che a dieci anni dalla scomparsa della bambina prediletta si è allontanata suo malgrado dai figli maggiori e da un ex marito troppo accomodante, fino a includere un intreccio che non ha sostanziali misteri per il lettore navigato: i legami tra i personaggi saranno presto intuiti, infatti, e la verità è immaginata a cento pagine dall'epilogo. Potremmo rimproverargli prevedibilità e pressappochismo, una protagonista affatto simpatica di primo acchito e un finale tirato per le lunghe: che senso ha prendersi il tempo necessario per chiamare i proverbiali nodi al pettine quando le spiegazioni sui meccanismi di causa-effetto appaiono quasi superflue? L'ultimo romanzo Neri Pozza, editore che non sbaglia mai, è un dramma fosco e introspettivo che nel suo piccolo travalica generi e convinzioni. Che fine ha fatto Ellie, ci si domanda da sinossi?

Da tre anni cercava di non pensare a Ellie. Si era imposta una nuova routine, impegnativa, dura come una camicia di forza. Da tre anni, si teneva dentro la propria follia e non ne parlava con nessuno. Di colpo, però, la follia aveva ripreso il sopravvento.

L'adolescente tutta pepe e sorrisi aveva nella lista dei buoni propositi un giro in deltaplano, perdere la verginità con il fidanzatino di sempre e, a un passo dagli esami finali, vantare una media migliore in matematica – l'insufficienza, suo unico cruccio tralasciando il mancato acquisto di un adorabile criceto da bambina, è da fronteggiare grazie alle ripetizioni di un'insegnante irlandese che puzza di patatine fritte e certi giorni è in vena di confessioni. Sono passati dieci anni dalla sua scomparsa: oggi, all'incirca mia coetanea, ne avrebbe venticinque. Lì per lì si è pensato a un rapimento: in seguito a un furto nella ridente casa Mack sono stati sottratti candelabri di discreto valore, il passaporto e qualche vestito della minore, una torta al cioccolato appena sfornata. Voleva partire per la Francia, suppongono le autorità, e così testimonierebbero le sue ossa: trovate infine sulle scogliere di Dover. 
A poche pagine dall'inizio abbiamo il cadavere e i funerali, e abbiamo l'ingresso di Floyd: matematico fascinoso e benestante, per fortuna troppo umano per incarnare il prototipo del bel tenebroso che non deve chiedere mai, che in un caffè del centro propone una forchettata di torta a una Laurel in via di guarigione. 
La mamma della vittima, cinquantacinquenne fresca di parrucchiere anaffettiva per legittima difesa, ha chiesto il divorzio da un marito di cui ha imparato ad apprezzare tardi l'ottimismo e l'indiscriminata bontà; ha rapporti distesi ma infrequenti con gli altri figli, diventati grandi nonostante Ellie, dei quali ricerca il contatto con la scusa delle pulizie o di una chiamata di cortesia. Laurel e Floyd sono attraenti, eleganti, di mezza età, e il loro colpo di fulmine dalla malinconia post-adolescenziale mi ha ricordato più le modalità di L'età ingrata o di Noi due e gli altri che gli amori bugiardi di Gillian Flynn o le stranezze delle pendolari di Paula Howkins. Il brivido a fior di pelle è comunque dietro l'angolo: indossa vestiti da bambolina da film horror, studia privatamente, rifugge la compagnia dei coetanei e a nove anni legge Donna Tartt, atteggiandosi con arie teatrali. È Poppy, figlia di Floyd, nata dopo la ribelle Sara-Jade: come spiegarsi la somiglianza impressionante tra la bambina prodigio e quella Ellie sepolta da poco, eppure difficile da scordare?

Le storie sono l'unica cosa reale al mondo. Tutto il resto è sogno.

Se i dettagli più torbidi sulla triste sorte della giovane scomparsa non ci vengono risparmiati, al punto da far sorgere spontaneamente il paragone fra Ellie e l'indimenticata Susie di Amabili Resti, a rendere la lettura un'eccezione alla regola è stata la sensibilità tutta femminile dell'autrice: amante dei particolari eleganti e delle atmosfere borghesi, dei personaggi inquieti e sfaccettati, delle seconde opportunità. A pochi passi da dove viveva un tempo, quando era parte di un nucleo felice, Laurel cerca di costruire così una famiglia allargata, speculare, ignorando volutamente e non segni allarmanti – l'aura del suo compagno è oscura, le giura la cognata al telefono, e qualche conoscenza in comune proprio non torna. Fino a che punto spingersi per il folle sogno di tornare a essere donne desiderate, ancora madri? Si fanno largo ben presto nuovi e strazianti punti di vista: quello di Ellie e, in prima persona, quello di chi deve averla tenuta sottochiave per un po'. Vengono messi da parte prospettive che ritenevamo all'inizio cruciali. Abbondano gli esami di coscienza e le riflessioni sul perdonare, sul perdonarsi, quando la presunta infallibilità di un genitore alza bandiera bianca davanti alla tragedia ordita da una mente criminale. In apertura si parlava delle regole del giallo, dell'importanza dei colpi di teatro e degli incastri che sfuggono. 
Non solo di quello vivono i thriller. Non solo di quello, soprattutto, vivono le storie ben raccontate. I romanzi belli all'improvviso.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Sia – Alive

mercoledì 19 dicembre 2018

Recensione: L'ultima volta che siamo stati bambini, di Fabio Bartolomei

| L'ultima volta che siamo stati bambini, di Fabio Bartolomei. Edizioni e/o, € 16, pp. 205 |

Sono quattro e inseparabili. Hanno dieci anni e non conoscono ancora il pregiudizio, la paura, la differenza tra i sessi. È per questo che nelle loro fila contano un'orfana e un ebreo, in un periodo storico – quello fascista – in cui donne e minoranze non erano ben viste. I protagonisti se ne infischiano. Per loro è tutto un gioco e il mondo, in quegli anni in ginocchio per l'ennesimo conflitto armato, non supera i confini del cortile in cui è bello riunirsi. Fino a quando una cosa peggiore dei bombardamenti, delle restrizioni delle famiglie in allerta, non costringe il quartetto – all'improvviso diventato trio – a crescere in fretta. Riccardo è scomparso. Aveva una merceria nel ghetto e, generoso e cordiale, si era meritato il singolare soprannome di Maremmano: come il cane pastore, infatti, era una guida indispensabile. Quello che si arrampicava sugli alberi soltanto per bussare alla tua finestra chiusa, che ti passava un po' di salsiccia secca quando per punizione il nonno ti segregava in cantina, che ti consolava quando una bambina di città sfoggiava un vestito migliore del tuo. Cosa farebbe lui, complice e collante per eccellenza, a ruoli inversi? Dove lo hanno portato i tedeschi, rastrellando il suo quartiere a tappeto? Gli indizi sono pochi: un treno strapieno diretto chissà in quale direzione; il disegno di un cupo casermone che riconosceremo subito come Auschwitz. I protagonisti non immaginano che il campo di lavoro sia lontanissimo da Roma, né che Riccardo e gli altri deportati non faranno mai ritorno.

Aveva detto domani alla solita ora, ma la solita ora è passata da un pezzo. Non si fa così. A dieci anni le promesse sono cose serie, roba da croce sul cuore e “se non mantengo la promessa che io possa morire”.

L'ultima volta che siamo stati bambini, atteso ritorno in libreria di Fabio Bartolomei, lascia da parte i toni da commedia all'italiana dell'apprezzatissimo Giulia 1300 e altri miracoli e a un mese dal Giorno della Memoria sceglie di sussurrare alle nostre coscienze, alla nostra fantasia, una tragedia di cui si è parlato ora con la falsa leggerezza di Benigni, ora con la visione struggente dei pigiami a righe di Boyne, ora con la gravità del cinema di Spielberg. Questa volta siamo dalle parti del nostro regista premio Oscar, anche se le avventure degli eroi di Fabio sanno portare a tratti più lontano ancora: direttamente ai buoni sentimenti e ai gesti straordinari dei classici per l'infanzia, a Cuore o ai Ragazzi della via Pal
Ci sono Cosimo (che teme il pugno di ferro del nonno), Italo (con l'ottusa convinzione di non essere all'altezza del fratello reduce) e Vanda (non abbastanza graziosa per sperare ancora nell'adozione), e tra loro e un impossibile lieto fine una ferrovia di cui seguire le curve e i pericoli come nell'intramontabile Stand By Me. Portano con sé una torcia, pochi viveri, mutande e calzini di ricambio, e due segugi che non si aspettano: sempre un passo indietro, preoccupati per i rischi della folle impresa dei ragazzini, ecco una suora e un militare in congedo: lei sarcastica timorata di Dio, lui fascista vanaglorioso, a sorpresa collaborano in nome delle giuste intuizioni e si studiano con terrena curiosità. 
Cosimo e gli altri sognano di fare dietrofront sanguinanti ma gloriosi, di prendere schiaffi in faccia e altrettante medaglie al valore. Incontreranno una natura dal volto di matrigna – pioggia, freddo, febbri alte –, soldati allo sbaraglio, rovine e presagi funesti. Fra galline trattate come animali domestici, sfottò in amicizia e immancabili sacrifici di sangue, non c'è davvero nulla che sia al posto sbagliato: che male c'è a scrivere un romanzo per grandi e piccini, infatti, con tutte la carte in regola per far facilmente breccia?

Fa paura lasciare la propria casa, eppure passo dopo passo Cosimo si distacca da quel turbamento, forte di una consapevolezza nuova. Non trova le parole giuste come farebbe Riccardo, però sente che è come se non fossero necessari muri, porte e finestre. Anche tre amici insieme sono una casa.

Le mille accortezze del delicato Bartolomei funzionano meno del previsto. Se il collega Marco Balzano, a cui eppure rimproveravo la stessa furbizia a fin di bene, vinceva facile con una storia al femminile che sempre di guerra da nuove prospettive trattava, in Bartolomei non tutto incanta, non tutto conquista come ci si aspetterebbe. Mentre l'emozionante flashforward conclusivo ribadisce come l'essenziale non sia la meta, bensì il viaggio, si fa invece fatica a perdonare situazioni affrettate e comprimari in definitiva poco indispensabili (Vittorio e Agnese, a un certo punto proprio abbandonati a loro stessi); a lasciarsi andare a una sincera commozione, in un romanzo dove l'olocausto è un affare per piccoli esploratori a cui tuttavia manca il tocco personale dei grandi autori. Resta la voglia di smettere di crescere seduta stante e, soprattutto, di cominciare a correre: non per le bombe, non per la minaccia delle punizioni corporali, non per gli spari. All'orizzonte si staglia un prato sterminato come non se ne incontrano in città, una storia sull'infanzia come non se ne incontrano in libreria, e quanta voglia di mangiarsi chilometri a perdifiato fino a sentire male alla milza. Di buttarsi a terra, nell'erba alta, alzando lo sguardo verso un cielo senza aerei. Ma con i contro, sì, di qualche nuvola di troppo.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Tricarico – Io sono Francesco

lunedì 17 dicembre 2018

Recensione: S., di Gipi

| S., Gipi. Coconino Press, € 10, pp. 110 |

Dopo La terra dei figli si comincia con le immagini di un'altra guerra. Questa volta non di fantasia. Su Pisa piovevano le bombe degli americani e i feriti, con i morti che si aggiravano attorno ai cinquemila, brancolavano fra le macerie come i mostri deformi di una distopia post-apocalittica. Ci sono ancora uno scenario desolante, ancora un figlio maschio con un'eredità di sofferenze e memorie per le mani. Questa volta non è invenzione, non completamente. Il mio secondo Gipi, sempre in edicola, sempre con un graffio da poeta contemporaneo, racconta infatti se stesso e i ricordi del padre scomparso.

La fidanzata di S. è coperta di polvere. Non è ferita. Non ha niente. Solo la punta di un gomito sbucciata ed un principio di odio verso il mondo che potrebbe non guarire mai.

Il fumettista toscano si disegna, si svela, con nel titolo un'iniziale puntata che si addice alla figura di un genitore al tempo stesso assente e presente fra le pagine: Sergio, che nei tamponamenti in autostrada evitava saggiamente conflitti con gli automobilisti battaglieri; che faceva ridere tutti citando i versi più pruriginosi della Divina Commedia – si teneva invece per sé quelli romantici, sull'amore di Paolo e Francesca – e usando culo come imprecazione; che amava rivangare il passato anche a costo di aprire vecchie ferite, anche a costo di ripetersi come un disco rotto. È morto quando l'autore era già adulto, ma non si è mai abbastanza grandi per scoprirsi orfani. Non è accaduto all'improvviso: una diminuzione progressiva della vista e la stanchezza di chi è stanco di combattere i mulini a vento della terza età. La notizia raggiunge Gipi mentre giocava a uno sparatutto online. E si sente in colpa, e si sente dalla parte del torto: un padre con una vita consacrata alla sensibilizzione – epocale la lite per quegli anfibi tedeschi acquistati da un robivecchi con simpatie naziste, con tanto di fuga lontano da casa –, ed ecco il figlio che ammazzava. Anche se per finta. La consapevolezza comporta un'elaborazione particolarissima: l'autore porta il lutto nel cuore, e sulle sue tavole racconta la Seconda guerra mondiale, un'inquietante avventura su un'isoletta chiusa al pubblico, un funerale all'insegna dell'ultima volontà del morto. Il pretesto: una gita a quattro in barca – con Gipi anche lo zio Piero e il cugino Luca –, in cui un aneddoto tira l'altro e un piccolo pericolo è in agguato.

In mare, con le lenzuola e il materasso, cominciamo a ridere tanto da rischiare di affogare. E continueremo a ridere per anni, tutte le volte che questa scena ci tornerà alla mente. Rideremo come gli scemi che siamo. Rischiando di affogare più volte, pure sulla terraferma.

Manca un filo conduttore. Manca un senso. Manca un ordine prestabilito. Si salta di palo in frasca, si passa da abbozzati schizzi a matita alla bellezza degli acquerelli degli impressionisti francesi, si seguono le sequenze di un flusso di coscienza che porta alla deriva. Lasciarsi andare per fortuna ha del poetico, ha del liberatorio. In una lettura che insegna a pescare, a diffidare da chi ti dice che commuovere è far bene, a perdonare gli sbagli delle famiglie imperfette. La sapevi quella volta in cui Sergio e Piero trattennero il fiato sotto le assi del pavimento per sfuggire ai soldati, o quella in cui fu proprio un crucco a salvare la madre dell'autore dal crollo della conigliera in cui si era riparata? Le pernacchie ad Andreotti in tivù, un matrimonio salvifico forse difficile da capire, il desiderio di tornare morendo polvere alla polvere? Ricordi la storia dei due disertori tedeschi, che volevano guadare un corso d'acqua nonostante non sapessero nuotare?

Dovevano apparirgli come puntini nell'acqua. Puntini biondi che cercavano di attraversare il fiume. E tanto bastava. C'era la guerra.

Resta il fatto che Sergio si facesse pestare dagli americani, suo figlio dagli spacciatori del quartiere. Resta, ancora, un'urna da trafugare come in un film per liberarne i resti in mare: le ceneri sono brace viva, emanano calore. I bravi padri scaldano sempre, come quanto ti sfregavano i piedi intirizziti in settimana bianca. Ce ne accorgiamo in un volume scritto in brutta grafia, con tanto di cancellature a penna, che commuove per onestà e asciuttezza: S. non vive semplicemente in memoria di. È la confessione piuttosto di uomo colto in contropiede da una perdita da cui non c'è scampo. E nello spoglio di questo testamento morale – in presenza del notaio di fiducia, e di lettori sempre più affezionati – scopre che in eredità gli son toccate la stempiatura e l'abilità di raccontare ad arte, a volte calcando la mano e a volte preferendo l'insostenibile leggerezza dell'essere (affranti), storie e bugie.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Johnny Cash feat. Fiona Apple - Father And Son