lunedì 31 luglio 2017

Recensione: Esche vive, di Fabio Genovesi

| Esche vive, Fabio Genovesi. Mondadori, € 11, 388 |


Se c'è una cosa che so, è che odio l'estate dal profondo del cuore. Bella per chi ha le ferie pagate e la fuga pianificata nel dettaglio. Bella per chi cambia aria, cambia facce, e non ha il mare a dieci minuti a piedi da casa – che sfizio c'è? Finisce la sessione e mi guardo attorno, smarrito. Perché senza la mia routine, senza una spinta, non so che farmene di questi pomeriggi di afa, ventilatore e siti streaming non agibili. Dal mio cattivo umore cerco di tenervi lontano, e spero di riuscire nell'impresa; di dissimulare bene. Oggi, abbiate pazienza, lasciatemi lamentare un po' in questo piccolo cappello introduttivo. Per dire che sarò nervoso, sarò irritabile, ma con Fabio Genovesi tutto passa. L'ho scoperto il mese di agosto dello scorso anno, con un altro malumore che mandava le onde a riva. Ho recuperato in quattro e quattr'otto il suo romanzo precedente e l'ho tenuto in libreria nei secoli fedeli. L'idea che fosse lì, a portata di mano, mi rassicurava.

O forse è solo che ognuno nel mondo si sente così speciale e unico e incomprensibile, ma invece alla fine siamo tutti uguali e passiamo gli stessi casini e abbiamo bisogno delle stesse cose.

Ho rispolverato Esche vive in una giornata storta. E leggevo su Anobii che manca di stile, che è chiassoso e volgare, ma oh, io ho riso forte dalla prima all'ultima pagina – come capita con quei romanzi energici, leggeri ma non troppo, di cui gli autori italiani conoscono i trucchi meglio di altri. Fabio Genovesi mi vede sempre al mio peggio, è destino – ebbene sì, c'è l'equivalente maschile del ciclo, dei capelli crespi e degli occhi struccati, del non ti azzardare a parlare o ti mando dritto dritto a quel paese. In quattrocento pagine, quest'uomo mi rassetta la testa. Al solito, la sua è una commedia corale. Al solito, si intrecciano le voci e le generazioni, e i toni virano dal pulp più sfrontato alla delicatezza del coming of age. Siamo in un paesello della Toscana. Bello, uno dice, ma invece l'estate fa schifo anche lì. Muglione è tutto acquitrini fetidi e andate senza ritorni. Si campa di pesca e ciclismo.

Perché il vuoto vero non è il niente, ma il niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa.

La vita di Fiorenzo, diciannove anni e un nome scemo, ruota attorno all'una e all'altra attività: sfrattato dalla sua stanza, dorme nel retro di un negozio di pesca; il padre, appesa la bicicletta al chiodo, si è improvvisato talent scout. Nella Regione che non esiste ha raccattato il piccolo Mirko (la stoffa dei campioni nel sangue) e l'ha portato via con sé: lo sommerge di speranze, attenzioni, pressioni, e il bambino – venerato dagli adulti, scansato dai coetanei – va malissimo a scuola e non ha anima viva a cui confessare che il ciclismo, forse, manco gli piace. Fiorenzo lo considera un ladro di padri, un usurpatore, e lo vessa con barbaro impegno: se non fosse che ha una mano sola, se non fosse che è il cantante solista di una rock band che non decolla, gliene diremmo di cotte e di crude (che non può fare il bullo con l'ultimo arrivato in città, ad esempio). Sarebbe come sparare sulla croce rossa però. Chi se la passa peggio tra il Campioncino e quell'adolescente orfano, monco, frustrato a morte? Forse Tiziana, terzo elemento da mettere in conto: brillante trentenne tornata dall'estero con la coda tra le gambe, a Muglione sperava di mettere su un Infogiovani e invece si è dovuta accontentare di una bisca di vecchi sospettosi. Attratta inspiegabilmente dall'impresentabile Fiorenzo e intenerita dal vulnerabile Mirko, che pende dalle labbra di quest'ultimo e, timoroso, lo chiama “Signore”.

Qua non c'è niente da pescare, Fiorenzo, e non c'è niente da sperare. Hai diciott'anni, quando lo vuoi capire?

Ci si prende, ci si lascia. Si scappa e si resta. I letti traballano, le amicizie si formano, vuoi o non vuoi. Perdere è un'arte da perfezionare col tempo. E la solitudine di questi ragazzi di provincia, spartita in tre, è un peso che non scoraggia più. La vita è un fiume o una pozzanghera? Scorre come in Eraclito, o va a impantanarsi nell'acqua sporca? Fabio Genovesi, malinconico e poetico a modo suo, descrive con falsa spensieratezza la calma stagnante di alcune realtà. Un limo indefinito in cui nessuno abbocca e nessuno osa spingersi al largo. In certi giorni, preso all'amo, può qualcosa soltanto un romanzo dei suoi. Dimentico che non ho le branchie, e associo l'abboccare alla mia salvezza.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Thegiornalisti – Tra la strada e le stelle

venerdì 28 luglio 2017

Celebrating King | Le paure con (e dopo) IT


Buongiorno, amici. Come state? Oggi post diverso dal solito – una tappa di un blog tour, anche se ai blog tour sapete che poco sto appresso. L'eccezione: Stephen King. L'autore che mi ha iniziato alla lettura, una dozzina di anni fa, torna in libreria con la preziosa ristampa di IT. Sono passati trent'anni dalla sua pubblicazione e a ottobre, dopo la mediocre miniserie diventata in fretta cult, è atteso in sala il primo capitolo della duologia di Andrés Muschietti. La rilettura s'ha da fare: è nell'aria da un po'. Oggi, dopo ClarissaElisa Luigi, è il mio turno di parlarvi di Pennywise. Si parla di paura, in particolare, e della paura dopo IT. Sulla scia del pagliaccio assassino, ombra minacciosa sullo sfondo del più straordinario dei coming of age, chi ha provato a farci saltare dalla poltrona? Chi ha reso inquietanti i bambini, le donne velate, i programmi per l'infanzia e la sindrome da abbandono? Vi accompagno perciò in una veloce carrellata, tra must, prodotti di un piccolo schermo mai così grande, giovani leve e film festivalieri. Vi do, in questa estate noiosissima, qualche scusa buona per non uscire di casa e, magari, darsi ai recuperi. Galleggiate con me?

Instant cult.
Gli anni '80 e '90. I più rimpianti e vagheggiati. Tra le altre cose, la miniera d'oro del cinema horror. Il Michael Myers di John Carpenter, una maschera inespressiva e il coltello affilatissimo, colpiva già un decennio prima: un'infanzia in cui si nascondono le prime turbe, l'ossessione di una sorella da braccare, una natura a metà tra l'umano e il bestiale. L'incubo, semmai è finito, arriva fino ai giorni nostri – Rob Zombie, qualche anno fa, ne ha dato una rilettura personale e scabrosa, in due capitoli non troppo apprezzati. Un'altra icona a cavallo degli anni e delle generazioni, un altro mostro destinato a spauracchi e remake: Robert Englund è Freddy Krueger. Giardiniere dal maglione a righe, arso vivo dalla vendetta di un gruppo di genitori addolorati. Ha ironia da vendere, artigli aguzzi, colpisce negli incubi: perdere il sonno è la via. Non ci si sposta dal ricordo dell'indimenticato Wes Craven, spaventoso con ironia. E la saga di Scream, che ha ispirato una felicissima reunion e una blanda serie targata MTV, ora celebrata e ora parodiata, sta a Hallowen – e, in generale, alle visioni a tema – come il panettone a Natale.


Dall'oriente con terrore.
Qualche fantasma viene da lontano. Ha gli occhi a mandorla, parla giapponese. Vedasi la presenza che infesta The Ring, classico orientale che ha ceduto – e non a torto – alla tentazione della lingua inglese. Raccontata nei romanzi di Koji Suzuki, Samara è un mistero nascosto dietro una cortina di capelli nerissimi: bambina infelice, tacciata di crudeltà, è stata destinata alla peggiore delle morti. Sigillata in un pozzo, al centro di un bosco. La sua vendetta viaggia sulle VHS e attraversa i vecchi tubi catodici. Chiunque abbia una televisione, nei primi anni Duemila, trema. 


La paura a puntate.
Incontrarla, la paura, facendo zapping. Da bambino erano gli appuntamenti fissi con Piccoli brividi, da grande le maratone di American Horror Story, l'attesa del nuovo Stranger Things, l'occhio curioso verso il sottovalutato Channel Zero. La serie antologica di Ryan Murphy, quest'anno, compie sette anni: quale sarà il tema, ci si domanda, se abbiamo avuto le ville infestate, i manicomi confinanti con l'Area 51, le streghe di New Orleans, il freak show, gli hotel assiepati di vampiri glamour, il mistero della colonia scomparsa di Roanoke? Eleven, erede segreta delle migliori bambine prodigio di King, fuggirà dal Sottosopra e si scontrerà con qualcosa di peggiore del passato Demogorgone? Infine, tornate sui vostri passi e concedete una possibilità alla prima stagione di Channel Zero: una serie, per quanto imperfetta, capace di una profonda suggestione. Si attinge ai creepypasta, i penny dreadful nell'era del digitale. Uno scrittore torna a casa, e qui fa i conti con la morte del fratello gemello, omicidi che riprendono da dove si erano interrotti e, soprattutto, un misterioso programma per bambini (fanno paura i pagliacci, ma non sottovalutate le marionette) che è l'ultima cosa che incrocerai, se un mostro fatto di denti umani bussa alla porta.


A casa di James Wan.
James Wan è la promessa indiscussa di un genere che non osa più. Giovanissimo, ha una mano riconoscibile – i film diretti da lui si indovinano a mille miglia: quanta cura, quanta eleganza nel rimaneggiare i cliché – e un intero mondo cinematografico in costruzione. I suoi film, le sue creature, si parlano tra loro. In The Conjuring, i coniugi Warren (cacciatori di misteri tra l'altro realmente esistiti) si imbattono prima in Annabelle, inquietante bambola di ceramica, poi nell'orrida suora di cui al momento poco si sa. Prequel e spin-off sono alle porte. Si chiama Lipstick Face, invece, il diavolo che tortura il bambino di Insidious, rimasto intrappolato in un viaggio astrale. Maestro dei sobbalzi, delle entrate in scena a sorpresa, si nasconde dietro una porta rossa, anticipato dall'inquietante Tiptoe Through The Tulips – canzone degli anni '20 con un motivetto innocuo e, tra le righe, cenni ributtanti agli abusi infantili.


Tra le righe, e negli armadi, del cinema indie.
Le sorprese più grandi, i messaggi più profondi, vengono dal circuito indipendente. Dove i mostri nell'armadio sono metafora di qualcos'altro, di mali autentici. Dove, in un insolito clima festivaliero, l'horror si scopre impegnato. E' il caso di The Babadook e Under the Shadow, in cui i mostri sono metafore da interpretare. Il primo, film d'esordio dell'australiana Jennifer Kent, salta fuori da un libro per bambini balbettando ossessivamente null'altro che il suo nome. Ha un cappello a cilindro, le mani lunghissime, una bocca grande per inghiottirti meglio. Terrificante, e protagonista forse del film di genere più bello degli ultimi anni, bracca una vedova e il suo unico figlio. Ricorda loro l'assenza della figura maschile, il peso del dolore: se non condiviso, se non nutrito, si mangia te. E quello che ti rende buono. Viene dall'Iran, invece, una storia di bombardamenti e case mal sicure. Un'altra mamma, un altro figlio: un'altra presenza che non è quello che sembra. I fantasmi non indossano più lenzuola con i buchi per occhi, ma il burqa. E fanno un ritratto originale e doloroso, per quanto non sempre fruibile, dell'essere donne – e ribelli – nella Tehran sotto assedio.

mercoledì 26 luglio 2017

Recensione: Accabadora, di Michela Murgia

Accabadora, Michela Murgia. Einaudi, € 11, pp. 164 |


Leggere per la prima volta un'autrice e stimarla a prescindere: si può? Esempio inequivocabile di eleganza, umorismo e sagacia, Michela Murgia è una delle persone che mi piacerebbe diventare da grande. Scrittrice che non ha bisogno di presentazioni, su Quante Storie è solita dispensare stroncature secche e consigli spassionati. Si è meritata un posto d'eccezione sulla poltrona di Corrado Augias, nei pomeriggi di Rai Tre, e l'accento e la postura hanno ispirato in fretta un'imitazione divertentissima di Virginia Raffaele – Dante, Collodi e Manzoni, perciò, vengono sconsigliati in sketch lampo tanto quanto l'ultima fatica editoriale di Fabio Volo. Mi mancava un tassello non da poco. Mi mancava scoprire com'è, fuori onda: nel suo. Accabadora, vincitore del premio Campiello e oggetto di un libero adattamento cinematografico, è la storia della seconda vita della piccola Maria.

Ci volle qualche minuto per ricordarsi chi e cosa era, che riemergere da sé stessi è tanto più difficile quanto più si è profondi.

Quarta figlia femmina di una vedova indigente, nella Sardegna del secondo dopoguerra, viene riscattata dalla pietà di Tzia Bonaria. Una sarta vestita sempre a lutto, forse mai stata giovane, che piange il promesso sposo perso in guerra, si prende cura delle bambine abbandonate in un angolo e, nottetempo, indossa il suo scialle nero e bussa a qualche porta. Cosa fa la sua seconda mamma, si domanda la bambina, mentre il paese dorme? Cos'ha visto in lei, tratta in salvo da un avvenire di scarti e occhiate di sufficienza? Una smania birichina, una scintilla: un potenziale da educare con le buone o con le cattive, anche a costo di spezzarle il cuore. A Soreni tutti ricoprono un ruolo. Quello di Bonaria è tabù, eppure appare necessario: l'accabadora è il contrario di una levatrice. C'è chi ti guida verso la vita e c'è chi, come lei, ti conduce a una morte dolce. Alla faccia di chi fa gli scongiuri. Alla faccia di chi nega a un'anima la dignità di andarsene via a modo suo. Come Vanessa Roggeri, amica di lunga data del blog, Michela Murgia rievoca una Sardegna brulla, antichissima, lontana dal tremolare del mare. In contrapposizione: una Torino fredda e schematica, in quel continente lontano un passo di troppo dalle maglie del destino.

Nell'ora della debolezza alcuni preferiscono diventare credenti piuttosto che forti.

Storia breve di arrivi e partenze, di eredità, affascina raccontando l'arte del cucito e dell'assassinio. Essendo passato qualche tempo dalla pubblicazione e avendone letto un po' qui e un po' lì, posso dirmi tante cose ma non sorpreso. Se la storia, di cui perfino la quarta di copertina svela troppo, non è una rivelazione, lo stesso non vale per uno stile bello in maniera clamorosa: semplice e scorrevole, eppure sorretto da una perfezione matematica che fa una conta esatta delle parole, delle sillabe, delle pagine. Lirica ma oculata, brusca neanche per un attimo, l'autrice sa quando mettere e quando togliere; sa quando dire e quando non dire. La suggestione e l'inquietudine di cui il realismo magico è capace, qui, ne escono al loro meglio. Crescere è realizzare che tra giusto e sbagliato c'è un confine invisibile, protetto da una fattura che né la razionalità né la fuga per mare possono sciogliere. Accabadora è la presa di coscienza di Maria, che si fa donna e saggia in duecento pagine da centellinare. Un'educazione morale e sentimentale dal taglio classico, con posti e liturgie d'altri tempi. Amore e morte hanno la stessa radice. Lasciarsi morire, lasciarsi uccidere, a volte è l'atto di fiducia più grande. Un debito da estinguere. O un dono, meglio, al pari di certe prose.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Hozier – Work Song

lunedì 24 luglio 2017

Recensione: Il giovane Holden, di J.D. Salinger


Il giovane Holden, J.D. Salinger. Einaudi, € 12, pp. 248 |

Parlare di un classico della letteratura mette in crisi. Se piace, sembra fatica persa cercare nuovi aggettivi. Se piace così così, scriverne può aiutare a vederci chiaro. Se non piace, be', dilemma: il commentatore anonimo che ti dice che non ci hai capito niente è già lì che si sfrega le mani. Il giovane Holden non mi è piaciuto, infatti, ma per quanto lo si possa dire di un intoccabile must generazionale con un protagonista, a tratti, esasperante e vicinissimo a me. Charlie, voce narrante di Noi siamo infinito nonché mio migliore amico immaginario, su Holden scriveva saggi su saggi – più di qualche lettore, tra l'altro, mi diceva che i due si somigliano un po'. Nella seconda stagione di BoJack Horseman, all'apice di un climax di genialità e insensatezza, J.D. Salinger in persona – vivo e vegeto, e desideroso di scrollarsi da dosso l'ombra del suo indimenticato eroe ribelle – si reinventava sceneggiando quiz a premi. Il giovane Holden lo citano le scuole di scrittura e i titoli delle ultime novità in libreria, lo prendono in giro e lo omaggiano in tivù: sembravano parlarmene tutti, ininterrottamente. Ma di cosa parlava, poi? E da cosa, dopo sessant'anni, ci si lasciava ispirare?

Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare.

Il protagonista eponimo è un liceale che a scuola non brilla. Sveglio, direbbe qualcuno, peccato non si applichi. Ha sedici anni, una famiglia altolocata e l'ennesima porta sbattuta in faccia. Espulso per la sua media disastrosa, ha fatto i bagagli e preso un treno fino a New York. Da qualche parte nell'Upper East Side c'è casa sua. Non vuole tornare. Fa il giro lungo, si attarda in strada. Mancano pochi giorni a Natale, e i suoi genitori non sanno ancora che, dopo le vacanze, non tornerà in collegio. Meglio rimandare a domani la sconfitta di deluderli di nuovo. Meglio vagare senza meta, alticcio, con un berretto rosso in testa. Vagamente, so cosa si prova: c'è questa scena di me, che temporeggio sul pianerottolo prima di inserire la chiave nella toppa. Lucidamente io l'ho capito sì, questo stangone bugiardo, amareggiato e suscettibile, che insieme cerca la solitudine più assoluta (la tentazione di fingersi sordumuto per evitare chiacchiere vuote; una cascina sul cucuzzolo della montagna per il futuro) e la compagnia più rumorosa (squillo e papponi, ragazze in pista da ballo, prof dalle mani lunghe, jazz all night long). Di autentico, l'affetto per la sorella minore e per un fratello morto di leucemia; l'attrazione per una coetanea che gli preferisce il popolare compagno di stanza; il ricordo di un amico che ha avuto il fegato di farla finita. C'è una regola che dice che ci si debba per forza prendere a cuore il personaggio principale? Tutti possono forse percepire tutti alla stessa maniera? Si è indecisi tra volergli bene e prenderlo a botte, Holden. Leggendo facevo: ti capisco, però parla meglio, conta fino a dieci e, soprattutto, sta' un po' zitto. Holden parla con la bocca piena, mentre aspira il fumo delle sue sigarette; Holden parla come un sedicenne incolto – ripetizioni, iperboli, imprecazioni snervanti (fate una conta dei “vita schifa”, “andare in sollucchero”, “ad ogni modo”, “vattelapesca”, “compagnia bella”) – e odia i libri di testo, il cinema, i buona fortuna, tutto quanto. Mi ha innervosito spesso. Mi ha irritato quel fingere di voler prendere aria, per poi tornare sempre e comunque a ripiegarsi su se stesso. 

Sento un po' la mancanza di tutti quelli di cui ho parlato. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.

Però, la sua, è la storia di uno di quei ragazzi contro che mi sanno trovare solidale. Chi lo aiuta a cercare il suo posto nel mondo? Averlo incrociato lascia un bella sensazione, con il senno di poi, ma il mal di testa durante. Rattrista saperlo triste, e sapere che vorrebbe urlare di gioia, al pensiero delle giostre coi cavalli o della meta segreta delle anatre di Central Park, contagia con un mezzo sorriso. 
Il Natale è vicino, e sempre indesiderato resta. I genitori, sempre, continuano a non sapere.
Però la tentazione di gridare, che significa liberarsi e chiedere aiuto insieme, interrompe le noie del flusso di coscienza e rompe la lista di quelle cose non per forza sempre uguali; non più.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: David Bowie - Space Oddity 


venerdì 21 luglio 2017

Recensione: Una più del Diavolo, di Lorenzo Vargas

|Una più del Diavolo, Lorenzo Vargas. Las Vegas edizioni, € 15, pp. 280|


Vivendo in una città di provincia, con librerie scarsamente fornite che per forza di cose tagliano fuori i piccoli editori, ho scoperto Las Vegas edizioni soltanto lo scorso inverno. Quando un'amica già citata sul blog, la solita Elisabetta, mi parlava di Carlotta Borasio e Andrea Malabaila – moglie e marito con un progetto editoriale comune e una figlia in arrivo – e mi consigliava di dare uno sguardo al sito della loro casa editrice. Dopo il post dedicato alla gradevolissima scoperta di Green Park Serenade, il suo autore – lo stesso Malabaila, appunto – ha suggerito a Carlotta di inserirmi nella newsletter. Ormai qualche tempo fa, mi sono arrivati due romanzi del catalogo. Ho sperimentato così la piacevolezza della loro brossura e gli autori sui quali hanno scommesso. Uno di questi, il giovane Lorenzo Vargas, lo conoscevo già di vista: della prima e unica edizione del talent Masterpiece, infatti, ricordavo l'antipatia viscerale per il giudice De Carlo e, grossomodo, lui. Una più del Diavolo è il suo secondo romanzo e lo scopro qui, con una commedia nera di divinità e mostri, ambientata tra i locali underground di Napoli e l'inferno dantesco. Dalle parti di Dogma e Preacher, la storia segue le disavventure di Giovanni Archei: musicista trentenne senza arte né parte, che fa i conti con il tradimento della fidanzata storica, una rock band che le etichette discografiche ignorano placidamente e, dulcis in fundo, una missione divina. Gli si parano davanti Raziel, l'arcangelo dei segreti, e un tribolato collaboratore dai boccoli biondi. Siamo in missione per conto di Dio, gli dicono, e gli amanti dei Blues Brothers fanno già la ola. Peccato che loro, con il vestiario di due agenti segreti e i genitali del marito di Barbie, siano davvero chi dicono di essere: pennuti portavoce. 


Si era preso finalmente qualche responsabilità. Certo, salvare il mondo poteva semprare un po' esagerato, ma comunque era un inizio.

Il Diavolo è fuggito, Dio sbarella (ha raso al suolo piazza San Pietro, in un momento no) e tocca agli uomini, gli unici a disporre del libero arbitrio, ripristinare l'equilibrio. Senza il Male (che ha le fattezze di un gatto persiano: insomma, sono dalla sua parte a prescindere), l'anarchia è un contagio. I demoni gozzovigliano in giro e al Grande Capo, che comunque non ha tutti i torti, stiamo antipatici a morte: propende per l'estinzione. Quello che in principio divertiva, purtroppo, stanca un po' nella seconda parte. Sempre divertente, ma pasticciata. Il romanzo umoristico, il fantasy, piace quando dura poco. E per me, che com'è noto sono di una specie assai annoiabile, duecento pagine e passa sono parse forse troppe. Ci sono lo stile, i comprimari irresistibili (un papa elettricista, letteralmente folgorato sulla via di Damasco; un romantico travestito come padrone di casa) ma manca la napoletanità nel linguaggio e, nella seconda parte, uno svolgimento all'altezza del bizzarro spunto di partenza. Esperimento arguto sì, ma non dissacrante come vorrebbe: perché il sorriso, materia deperibile, non dura. Archei si imbarca in un viaggio ultramondano, alla ricerca dei segreti della Creazione e della rima che manca alla sua ultima canzone. Deve trovare il villain per antonomasia e, a tu per tu, scongiurarlo di riprendersi il soglio vacante. Documenti da scartabellare e cavilli tecnici. L'immortalità sfida la furbizia tutta partenopea, e chi vincerà? Occhio alle clausole minute, all'inghippo. Apprezzabile per la grande inventiva e l'energia della scrittura, Una più del Diavolo resta una riflessione sull'importanza degli opposti e la scaltrezza dei nostri simili. Cosa possono l'immortalità e la creazione del cosmo da un pugno di polvere, se qui tocca far i conti tutti i giorni con i sentimenti, i sogni infranti, i meteoriti in rotta di collisione e il dopo sbronza?
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Bluvertigo – Iodio

mercoledì 19 luglio 2017

Mr. Ciak: Metti una sera su Netflix #1

Chi mangia troppo, chi mangia troppo poco. Chi ha appeso un sogno al chiodo. Chi aspetta un bambino. Nella clinica gestita dal dottor Keanu Reeves fa il suo ingresso una Lily Collins sempre più brava, sempre più bella, costretta a fronteggiare quei demoni conosciuti in prima persona. Magra come un chiodo, incazzata con il mondo, sta perseguendo questo folle progetto: lasciarsi morire. Si va di psicologia spicciola, si procede con le belle parole (tutto passa, vedrai). Fino all'osso, leggero ma brutale, è un ricovero coatto in una casa piena di altri casi umani, quando le ipotesi e le promesse di pronta guarigione non sortiscono effetto. Sarà che mal comune è davvero mezzo gaudio. Sarà che ci si salva da soli, sì, ma le attenzioni di un eccentrico inglese che pretende baci e fiducia aiutano a fare pace con il proprio riflesso. Il disagio della protagonista parte da lontano. Lo stomaco, così, ha assecondato la lista delle sue mancanze. I suoi compagni, tra bugie e colpi di testa, ispirano orrore e simpatia. Trovano continui mezzi per farsi male – correre in cerchio nella stanza, stancarsi a furia di addominali – ma, per tutto il tempo, cercano una buona ragione per sopravvivere. E qualcuno ce la fa, qualcuno no. Nello stile di It's a Kind of Funny Story e Altruisti si diventa, Fino all'osso diverte e colpisce forte con un zoom sull'anoressia che non trascura gli occhi lividi, le costole sporgenti, il peggio di un corpo allo stremo. Messo allo stecchetto ma affamato di emozioni, è di un già visto che è necessario rivedere – soprattutto con questi toni sardonici, con questo cast ricchissimo. Lascia un angolino a fine pasto per la speranza. Voglia di abbuffarsi con queste storie qui, di adorabili ragazzi interrotti, e di imparare a respirare daccapo. L'adolescenza tira in dentro la pancia, si vede brutta, schiva la bilancia. Pesa. (7)

Sarah è una donna sull'orlo di una crisi di pianto: depressa, deve sobbarcarsi interamente il mestiere di madre. Mandy ha uno spirito anticonformista e i capelli che cambiano colore seguendo gli stati d'animo. Parlandovi di loro, dovrei aggiungere che a un certo punto si incontrano: mentirei. Le protagoniste di Lovesong si conoscono da tutta la vita. Lontane ma presenti, complice l'alcol e un bacio strappato, non sono soltanto migliori amiche. Rivedersi tre anni dopo per il matrimonio di Mandy. E, tra dubbi e ripensamenti, fare chiarezza. Ci si può amare senza ammetterlo? Dare in affitto il cuore ma lasciare il posto vacante per un'ospite, significa tradire? Lovesong è una canzone improvvisata, che non ha picchi e non ha ritornelli. Indefinibile, misteriosa, e per questo mai banale. Sulla persistenza dei sentimenti umani, e la loro assoluta vaghezza. Dramma liminare e sommesso, non vuole raccontare un altro amore omosessuale senza inizio e senza fine. Bensì qualcosa di meno e qualcosa di più. Travalica con discrezione il confine dell'amicizia, ma non oltrepassa i limiti. Timidamente, Jena Malone e Riley Keough se ne stanno sulla soglia per tutto il tempo – la prima nella sua comfort zone, l'altra di una maturità interpretativa straordinaria. Si incontrano in una parentesi, di tanto in tanto. E richiede più tempo studiarsi, vincere la ritrosia, che darsi. Ci sono, di mezzo, la lentezza di un certo cinema, silenzi parlanti, l'attrazione incontrovertibile travestita da simpatia. Gli sguardi lunghissimi, significativi, belli, che ti fanno venir voglia di urlare, in cima alle montagne russe. (7)

L'hotel che ospita il ballo di fine anno. Due coppie, una notte. La prima è in crisi matrimoniale. La seconda, di diciottenni alle prese con l'estate delle grandi scelte, si è composta per caso al termine di un prom al di sotto delle aspettative. Da un lato un sentimento che finisce, dall'altro uno che nasce da una serata di pugni sul naso e pessimi cocktail. 1 Night piace a prescindere per il poster e il quartetto di protagonisti – Anna Camp e Justin Chatwin, Isabelle Fuhrmann e, direttamente dal fiacco The Path, Kyle Allen. Belli, diversissimi per aspetto ed età, ma uniti dalle magiche simmetrie di certe sceneggiature e di dialoghi così, che san proprio di vero. 1 Night, in un'ora e un po', confronta generazioni e relazioni. Quanto è facile darsi per scontati? Possibile usare una coppia ai primi passi a mo' di promemoria? L'amore, in fondo, è una macchina del tempo. Sulla scia dei ricordi felici e della surreale “cometa” di Sam Esmail, viene fuori un film allo specchio: meno bizzarro e meno memorabile di quanto ci si aspetterebbe, ma per fortuna non meno godibile. Ci sono i bagni in piscina e i soffitti da contemplare nelle stanze d'albergo, la nostalgia e le farfalle. Cinquanta percento teen comedy, cinquanta percento dramma matrimoniale. Il tutto, rigorosamente indie. E, in certe sere, basta. (6,5)

Il primo ragazzino nato su Marte torna sulla Terra. Nessuno sa di lui, se non una coetanea con cui ha stretto una fitta corrispondenza online. Come comportarsi senza sembrare un alieno appena sbarcato dall'astronave, letteralmente? The Space Between Us è il racconto di un'adolescenza in orbita. Se fosse un romanzo, sarebbe uno di quei young adult che incastro volentieri tra una cosa e l'altra. Da Marte, infatti, non arriva soltanto la subdola creatura del mediocre Life, ma anche un visitatore che somiglia a Asa Butterfield – è cresciuto, Hugo Cabret, ma la faccia da eterno bambino e il poco carisma non aiutano. Sua dolce metà, quella Britt Robertson che fa sempre piacere rincontrare. In fuga da Gary Oldman, i due ragazzi si danno a un viaggio in macchina in cerca del padre di lui e dell'amore. Seguendo la pioggia e l'oceano. Ma l'atmosfera, purtroppo, rischia di schiacciare chi (in preda all'euforia) ha scordato la propria natura. Il film cita Il cielo sopra Berlino, ma ricorda più Bubble Boy o Sbucato dal passato. Quelle commedie degli anni Novanta con una resa più che discreta e una scrittura televisiva; un'idea originale, ma un po' buttata via. Tenero, prevedibile e di buon cuore, però, regala due ore senza peso che non pretenderei indietro. (6)

Sandra Oh e Anne Hache, brave come non mai, sono ex compagne di college che si danno da sempre sui nervi. La prima, moglie trofeo; l'altra, artista che sbarca il lunario come cameriera. Sullo sfondo, New York: una città abbastanza grande per evitarsi. Mettile insieme una sera, durante la stessa cena. Rissa inevitabile nell'androne. Capelli strappati, calci e pugni. In mezzo c'è il non detto, un'antipatia viscerale che fa ridere e preoccupa. Qualcosa va male. In momenti diversi, nell'arco del bizzarro Catfight, entrambe saranno destinate a un colpo in testa e a un coma lunghissimo. Cosa si sono perse nel mentre? La commedia nera di Onur Tuker fa sì che le loro sorti si alternino: la ricca diventa domestica; la povera, pittrice affermata e in dolce attesa. In TV passano le notizie di un conflitto fittizio in Medio Oriente (colpa di Trump?), con tanto di ritorno alla leva obbligatoria. Pur di non pensarci su, le due si aggrappano all'unica certezza che resta: odiarsi. Film di botte da orbi e dialoghi implacabili, sarcastico e non troppo demenziale, Catfight riflette sui corsi e i ricorsi storici; la fugacità dell'amore; la persistenza dell'antipatia; la paura del futuro. Mette al tappeto, ma la riflessione scatta a scoppio ritardato. Con un po' di sforzo. Quando ricerci il senso di quello che hai visto, a fine visione, e lo trovi, ma con l'intoppo. Lascia un sorriso amaro, un po' di disturbo, qualche escoriazione. (5,5)

Una camera d'albergo. Una donna riversa in una pozza di sangue. La porta chiusa dall'interno. Com'è entrato l'assassino? Soprattutto, com'è uscito? L'odissea di Adriàn e Laura è iniziata così: un contrattempo, e un giovane uomo d'affari imbocca una strada secondaria. La proverbiale strada nuova preferita a quella vecchia lo porta a scontrarsi con un automobilista: il ragazzo muore. Denunciare il delitto ed esporsi mediaticamente? I due amanti diabolici fanno sparire il corpo. Cosa collega i due crimini, le due morti, a parte la presenza del sospetto Adriàn? Gli spagnoli e la suspance fanno faville. Oriol Paulo, già autore degli ottimi El Cuerpo e Con gli occhi dell'assassino, confeziona con Contratiempo un giallo hitchcockiano che non lascia scampo. All'immagine di apertura, brillante, risponde una trama di sottili cambi prospettici, ipotesi, slittamenti che sconvolgono le carte in tavola. Contratiempo è serrato e intricatissimo. Il trucco c'è ma non si vede. Nella sua voglia di sorprendere a ogni costo, qui e lì, la verosimiglianza si perde. I piani machiavellici di Paulo, i suoi collaudati colpi di scena, sembrano improbabili. Però Contratiempo è un film di genere che, costi quel che costi, tiene alta la guarda e dà quello che promette: cosa non da poco, ti sorprende. E l'essere preso in contropiede, quell'esclamazione di meraviglia che ti strappa di bocca, conta più di qualche passaggio frettoloso o di risvolti troppo eclatanti per essere veri. I tasselli si incastrano, basta aspettare. Basta non toccarli. Perché l'equilibrio, forse, non è che un'altra illusione. (7+)

lunedì 17 luglio 2017

Recensione: Non ti faccio niente, di Paola Barbato

|Non ti faccio niente, Paola Barbato. Piemme, € 17,50, pp. 420|


Non accettare caramelle, passaggi o carezze dagli sconosciuti. Non disobbedire a mamma e papà. Non resta che perdersi e ribellarsi, però, quando la tua infanzia non è. L'ultimo romanzo di Paola Barbato, firma storica di Dylan Dog, parla di uno strano male a fin di bene. A volte, meglio abbandonare casa e seguire l'orco: ti prende, ti porta via, non ti torce un capello. Rincontrarlo, anzi, è il sogno di tutta una vita. Rivederlo spinge alla commozione, agli abbracci inaspettati. A modo suo, il forestiero che negli anni Ottanta rapì trentadue bambini – bello come il Gesù disegnato sui libri del catechismo – li ha salvati. Ha regalato loro tre giorni felici e genitori finalmente vigili, finalmente responsabili. Esiste una paura buona, infatti. Quella di perdere per sempre un bambino ha reso gli adulti presenti e grandi i traguardi. Decenni dopo, la storia si ripete ma cambia il finale: i bambini tornano a casa ammazzati. Sono i figli dei sopravvissuti, dei piccoli disgraziati rapiti una generazione prima, ma la polizia ancora non lo sa. Mancano i collegamenti, le prove. L'assassino guida da un capo all'altro dello Stivale, sembra procedere alla cieca.

Basta avere paura una volta sola per averla tutta la vita, io lo so.

C'è, però, chi sa leggere il suo schema. A questo punto si incrociano strade parallele, le indagini collimano, i flashback e le digressioni incalzano. Intervengono personaggi innumerevoli, ma non si fa mai confusione coi nomi e coi ruoli. Contro hanno la polizia, il tempo, un mandante che rimane nell'ombra. Si considerano fratelli. Sono i soli senza figli dei trentadue bambini rapiti – per questo, o così credono, gli unici a non essere nel mirino del killer. Poche pagine, e ti si rivela la prima di tante verità: passato e presente non hanno lo stesso colpevole. Perché Vincenzo, giustiziere obeso e misantropo, chiuso in una cascina in Umbria tra il cantare dei grilli e i gatti randagi, è colui che i protagonisti hanno inseguito per tutta la vita, grati, ma non un assassino seriale. Lo tiene d'occhio la Nives, migliore amica adorabile e amante tastarda, che sa maneggiare ad arte una doppietta e si fida delle parole di quel gigante gentile che di male, ora come allora, non voleva farne. Gli omicidi sono una provocazione, un trucco sporco per spingerlo a uscire allo scoperto. E giovani e vecchi si incrociano, così, in un'indagine tenera e inconsueta. L'innesco: la rabbia di un “se”, una vendetta irragionevole. Ma quali ragioni vuole sapere, poi, la sofferenza.

Sai, se anche tu fossi cattivo a me non importerebbe. Se adesso mi ammazzi o fai una di quelle cose che non si possono dire o pensare, a me andrebbe bene.”

Qualche post fa si parlava di thriller che volano sotto l'ombrellone, di pagine che sono tante ma non sembra: quelle della Barbato, con i suoi periodi densi e spruzzati di virgole, hanno un peso importante e forse qualche spiegazione di troppo nell'ultima parte. Comunque, un'umanità straordinaria. Si vede che l'autrice è una mamma (una curiosità: è la compagna di Matteo Bussola, disegnatore che sempre di genitori e figli scrive). Si vede quanta gavetta ha alle spalle. Pochi capitoli, e già consigliavo in giro questo suo thriller on the road – impreziosito da una scrittura che resta, da personaggi che si imprimono a fuoco. Un'avventura implacabile e delicata, dalle sfumature kinghiane, su una squadra di sconosciuti male in arnese, ai ferri corti con la malinconia, che si aggregano per giocare ai detective. A loro rischio e pericolo. Cos'hanno da perdere? Da guadagnare, quattrocento pagine in cui ci si conosce e ci si scopre, magari, più forti stando insieme. Contate le papere gialle con me. Scoprite chi le ha lasciate a bordo strada. A dispetto della bugia del titolo, farà male.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Quando mi vieni a prendere – Luciano Ligabue

venerdì 14 luglio 2017

I ♥ Telefilm: BoJack Horseman | Gypsy | Glow

L'idea di BoJack Horseman non mi ha mai tentato. L'animazione non fa più breccia da un po' e ho sempre considerato I Simpson, I Griffin e Futurama una compagnia come un'altra quando mangio da solo. Di sedermi in poltrona e seguirli per bene, insomma, non ci pensavo. Se fosse stata trasmessa in chiaro, la creazione di Raphael Bob-Waksberg avrebbe subito un trattamento simile. Invece è solo su Netflix (e dura ormai da tre stagioni) e, a fare da ago della bilancia, il consiglio dell'amico giusto al momento giusto (sì, ciao a te). Era amarissimo, mi assicurava, e a vederlo in certi giorni ci si sentiva meno soli. In quelli che al momento sono trentasei episodi, assistiamo alla disfatta di una star degli anni '90. Celebre per una sitcom generazionale, il protagonista è rimasto intrappolato in un passato che gli permette di vivere di rendita. A vent'anni dal successo, cinquantenne, è un parvenu nella sua villetta con piscina – va a letto con chi capita, beve fino al vomito, rosola a fuoco lento nei sensi di colpa e a centro pista. Ospita sul divano un giovane senza arte né parte e, nella prima stagione, viene braccato da una biografa che vuole scavare nella sua vita. Pensa di amarla, ma lei gli preferisce la fedeltà del suo storico rivale. Pensa di essere amato dalla sua agente, ma lei preferisce ignorare l'orologio biologico e trovargli il miglior copione su piazza. L'attore fallito è in cerca di se stesso, ma nel mentre trova una parte che gli srotola il Red Carpet: le luci dei riflettori, il ritorno in carreggiata e megari l'Oscar, aiutano a star meglio? BoJack Horseman, come il recente Feud, è una riflessione su uno star system che non perdona – porte chiuse per attori di mezza età, l'oblio per lo sceneggiatore gay di un programma per famiglie, autodistruzione ed esibizionismo per le Hannah Montana cresciute e, neanche a farlo apposta, un presagio di quel La La Land premiato per errore. Soprattutto, è l'esame di coscienza di una persona in crisi di identità che si sente male da sola e peggio in compagnia. Identica a me, a tratti, nel percepirsi un collezionista di sbagli; mai abbastanza. Ah, sì. Per tutto il tempo ho parlato di un cavallo un po' patetico, che indossa Converse rosse e un pigiama con le mele. Sorprende ritrovarsi nelle massime filosofiche di un quadrupede parlante, infatti. Sorprende scoprire che si ride tanto (i cameo di attori noti, le canzoncine assillanti e gli oggetti d'arredo hanno del geniale), ma che si ride di lui, non con lui. Chi dice che BoJack Horseman è divertente, in fondo, non ha capito niente. Chi dice che la vita è un appuntamento con gli applausi preregistrati di Horsin' Around dovrebbe sapere che somigliamo più a questo disastro qui. Con la stonatura dei colori pastello. Con i cavalli tragicomici che come te e me, in fondo, sempre niente c'hanno capito. (8)

Jean, psicoterapeuta newyorkese, si divide tra casa e lavoro. Ha un marito avvocato, che flirta con la giovane segretaria, e una figlia ribelle. Il suo matrimonio non è così solido, la sua casa scricchiola. E lei, lucida e saggia, in realtà nasconde sotto gli abiti eleganti un animo gitano. Gypsy, anticipato da una serie di foto promozionali che ammiccavano ai baci saffici di Mullholland Drive, parla di una coppia in crisi che la gelosia potrebbe o separare o rinsaldare. Protagonista sensuale ma misurata, una Naomi Watts in ruolo coraggioso per un'attrice matura – al contrario dell'amica Nicole Kidman, colei che a malincuore è l'unico pregio dell'ultima serie Netflix (bene anche Crudup, un altro a cui invecchiare porta bene) non ha ceduto alle tentazioni della chirurgia plastica. Il suo personaggio, mosso da un segreto desiderio di onnipotenza, si intromette nella vita dei pazienti: una giovane tossicodipendente, una mamma messa da parte, un uomo tormentato da una vecchia relazione (come in Love, anche qui Karl Glusman è innamorato pazzo). Le prime due pazienti portano Jean a riallacciare i rapporti con la figura materna; l'ex ragazza dell'ultimo, invece, diventa la sua ossessione amorosa. La situazione le sfuggirà di mano. Psicothriller al femminile, di Gypsy sfuggono il senso e gli alibi. Cos'è: un Closer dalla scrittura non all'altezza? Un In Treatment che viola il codice deontologico? Blando, sbrodolato, senza appeal, appare intimidito dal sesso – tocca aspettare otto episodi per un bacio appassionato, e il resto sono amplessi brutti e interrotti da tagli da boia: il pilot diretto da Sam Taylor-Johnson prometteva l'erotismo, eppure, per quanto patinato – e irrisolto. Finisce in sospeso, con un passato confusionario e un futuro in forse. La presenza della Watts costa, di potenziale inespresso non se ne vede. Lo scorso anno, lo stesso avvenne con The Path: grandi nomi, un'idea interessante su carta, e poi? Gypsy è un viaggio ai confini della sessualità e dei suoi misteri. Se non sei Ozon, rischi di smarrirti. (5)

Il wrestling è sempre stato un momento di coesione tra fratelli. Don't try this at home, dicevano, ma nessuno badava alle avvertenze. I videogiochi a tema, i giocattoli con tanto di ring e la raccolta di figurine, i Funko Pop dei lottatori. Sui canali italiani lo si incrocia meno, ma mio fratello fa le ore piccole seguendo Royal Rumble e compagnia bella, così come io seguo, a febbraio, la notte degli Oscar. L'ennesima produzione Netflix, Glow, è la storia vera di una manciata di donne alle corde. Siamo negli anni Ottanta di Red Oaks, fluorescenti e inflazionati fino alla noia. La protagonista, una bravissima Alison Brie, è un'attrice che non riesce a sfondare: tutt'altro che amabile, è pronta a tradire e tradirsi. Perde la sua migliore amica, dopo essere finita (due volte) a letto col marito, ma trova un ruolo che non aspettava: apprendista lottatrice in uno show di wrestling al femminile. Glow si vede in pochissimo, e nel mentre si ride di gusto. Non ha grandi pro né grandi contro. Netflix si è data alle cancellazioni bastarde e, onestamente, ho cercado di seguirla senza affezionarmici troppo. La serie delle produttrici di Orange is the new black mostra l'allenamento semiserio, la graduale formazione di una squadra affiatata, la ricerca dei costumi sfavillanti e dei personaggi vincenti. Il pubblico deve schierarsi. Il pubblico deve lottare con loro, pur sapendo che ci si picchia, ma per finta – le lottatrici raccontano coi loro corpi le tensioni della guerra fredda, l'amor di patria, la lotta al terrorismo. Non lo sai che è tutto finto? Non lo sai che in camerino hanno una sceneggiatura da sfogliare? Saperlo, da bambino, è stato come scoprire che Babbo Natale non esisteva. Ho iniziato a farci caso un giorno: ai pugni che non centravano il bersaglio, ai rumori dei cazzotti simulati battendo forte i piedi, ai ruoli scritti troppo e male. Con Glow, che eppure svela trucchi e retroscena, qui e lì ho ricreduto a Babbo Natale. (6,5)

mercoledì 12 luglio 2017

Recensione: Dente per dente, di Francesco Muzzopappa

| Dente per dente, Francesco Muzzopappa. Fazi, € 15, pp. 218 |


La vendetta è un piatto da servire freddo. Le donne, che hanno la memoria lunga e dita abbastanza affusolate per legarci ben bene tutti i torti subiti, sono segretamente più abili con il revanscismo e i piani criminosi. L'ira funesta di Rosamund Pike, moglie trofeo con troppo tempo libero, adduceva infiniti lutti al povero Ben Affleck. Uma Thurman, invece, imbrattava di sangue e frattaglie l'abito d'organza e la tutina gialla, a caccia del suo famigerato Bill. Occorrono anni di dissimulazione, una meticolosa lista per punti, inventiva e rancore quanto bastano: farla pagare a qualcuno è una cosa seria. A Leonardo, ventottenne varesino, mancano due falangi e un piano. Il cinema e la letteratura sono pieni di vendette esemplari, infatti, ma non è questo il caso.

Non sono cattivo. Non lo sono mai stato. Ma questo vuol dire che ho molti arretrati. E ora intendo giocarmeli. Tutti.

Guardiano in un museo che esponendo il peggio dell'arte contemporanea si è meritato a pieno diritto l'acronimo MU.CO, il protagonista ha un debole per le donne e i motori. Se su un blog recensisce automobili che non ha mai guidato, in quanto a donne – benché magrolino, introverso, bello neanche agli occhi di una nonna – non si può lamentare. Sta da due anni con la capricciosa Andrea: brillante matematica, figlia di un politico religioso e intollerante, con il corpo da indossatrice e la condotta di una carmelitana scalza. Ci si sbaciucchia sì, ci si va vicino, ma il sesso è off-limits: solo da sposati. In nome dell'amore e delle palle blu, così, Leonardo compra un anello da poco, una torta al cioccolato e le fa una sorpresa: Andrea, a cavalcioni sulle zone erogene del vicino di casa fotomodello, gliene farà una ben più grande. In Dente per dente si reagisce al cuore infranto con maturità e aplomb. Dopo una settimana di ferie per piangere e strozzarsi col proprio vomito, tocca rimboccarsi le maniche. Reagire come farebbe un adulto. Consulente barra spalla su cui piangere, Ivan: collega comunista e dai dubbi gusti sessuali, che da grande vorrebbe diventare Vasco Brodi o Karl Marx. Se le cinque tappe dell'elaborazione sono una via crucis insostenibile, meglio ripiegare sui dieci comandamenti. E infrangerli – tra bestemmie scarabocchiate sui muri e piselli a matita sulla foto con alti prelati, sesso per ripicca, hamburger di Venerdì Santo e incendi dolosi – uno per uno. Andrea, traditrice impenitente che non sei altro: dov'è il tuo Dio adesso? Ci aspetterebbe la redenzione, le spade rinfoderate. Una morale che cala dall'alto dei cieli e fa: porgi l'altra guancia, figliolo; la legge del taglione è rétro. L'autore, in ringraziamenti che sono più che altro quattro pagine fitte di scuse, scongiura la clemenza degli animalisti, della Guardia Forestale, di Ronald McDonald e papa Bergoglio, delle lettrici suscettibili.

La sfiga, come un diamante, è per sempre.

Muzzopappa, che fa ridere sin dal cognome, non commette atti impuri: è soltanto un gran bravo ragazzo, qui al suo terzo romanzo. Dopo le promesse del Centro Sperimentale votate al mondo del porno e le aristocratiche decadute, temi di titoli precedenti che non vedo l'ora di recuperare, quest'estate propone le diseducative scorribande di un terrorista sentimentale. La trama è idiozia pura e semplice (sempre senza offesa: di Muzzopappa, a cui voglio bene a prescindere, si è già beffato l'anagrafe). Ma sarà che la solidarietà maschile esiste, sarà che divertire su carta è una faticaccia, sarà che ho una collezione segreta di meme blasfemi su WhatsApp, Dente per dente mi ha fatto ridere per la bellezza di 218 pagine. Alla faccia dei vicini d'ombrellone disturbati dal mio ragliare, di una narrativa che si crede convincente solo se indigesta, della lobby della tristezza. Vendicarsi è sconsigliabile, ma vuoi mettere la soddisfazione? Ridere, il supremo schiaffo morale.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The All-American Rejects – Gives You Hell

lunedì 10 luglio 2017

Recensione: Conta fino a dieci, di Paolo Cammilli

|Conta fino a dieci, Paolo Cammilli. Sperling & Kupfer, € 16,90, pp. 302|


L'esordio per Newton Compton si chiamava Maledetta primavera. L'ho letto per la prima volta lo scorso inverno però, con Io non sarò come voi. Paolo Cammilli torna in libreria a luglio, d'estate, con un romanzo dalle atmosfere torride e un tema shock – di nuovo (e già questo “di nuovo” tradisce la delusione) lo squallore della periferia, le violenze di gruppo, i toni pulp. Conta fino a dieci prima di parlare. Conta fino a dieci e cercami. Ci si sfida così al Cielo Rosso: comprensorio alle porte di Catania con abitanti brutti sporchi e cattivi, casermoni marci, relazioni segrete e storie d'ordinaria omertà. Nell'erba ci sono le siringhe e i cani ammazzati. Dalle finestre aperte, canzoni di Jimmy Fontana. Tutto è una sfida – tra bambini e adolescenti, padri e figli, ferocia e voglia di rivalsa. I piccoli del quartiere passano serate interminabili a giocare a nascondino, ma al buio c'è qualcuno che anticipa le loro mosse: l'orco ne ha già rapiti due. Su un muro: un insulto rivolto a Cinzia, bambina fuggita per un soffio, anni prima, a un destino di morte.

Non si può dimenticare ciò che non si può ricordare. 

Classico ritratto di sobborghi stagnanti e degradati, Conta fino a dieci ha temi caldi e cliché; la guida atipica di un personaggio fanfarone e un po' patetico, fuori posto come il cavolo a merenda. Oscar Baldisseri, ex produttore discografico e ora detective per caso, è un quarantacinquenne vanaglorioso, sessista ed erotomane, al centro di siparietti grotteschi che, in altre circostanze, avrei forse apprezzato. Cosa ci fa lì, sceso da un treno che ripartirà mesi e mesi dopo? Qual è il ruolo del pusillanime che si credeva Gregory Peck, ma somigliava miseramente a Toto Cutugno? L'infiltrato speciale, senza licenza e con tante cugine maritate nel profondo sud, sfoggia un buffo curriculum sentimentale e misteriosi buchi di memoria. Alla preoccupazione per la scomparsa delle piccole vittime, nel corso della lettura, si è affiancata l'irritazione verso le liste per punti; i capitoli a tratti truci e a tratti sopra le righe; una struttura serrata ma caotica, fatta di scenette giustapposte (spesso racchiuse tra parentesi tonde) e una tiepida risoluzione finale. Oscar, tamarro da cinepanettone finito in Non si sevizia un paperino, vive un amore tardo-adolescenziale con Matilde: solita Lolita precoce, dal cuore nero e l'aria di sfida. I genitori del comprensorio, tutt'altro che innocenti, progettano ronde e spedizioni punitive. I bambini, gli unici a confidare nel domani e a ispirare una minimo di simpatia, rispettano l'amore, l'amicizia e le regole del gioco: contano senza sbirciare.

La verità ha un paio di occhi che ti guardano dritti in faccia se solo hai il coraggio di tenere i tuoi aperti.

L'ultimo Cammilli, avrete intuito, per me ha lo stesso stile, la stessa cornice e gli stessi contro del romanzo precedente: anche lì la tentazione di abbandonarlo nella prima metà e un epilogo perfetto, poi, che mi aveva commosso. Non ci prendiamo, temo, e la colpa è più mia, recidivo per vizio, che dello scrittore fiorentino. Apprezzo il coraggio delle sue storie, infatti, ma affatto la sua cifra stilistica. Questa volta non sapevo se ridere di Oscar (chiamato “Oscarone” o “Il nostro protagonista” fino alla noia, con tanto di digressione dedicata a un'operazione chirurgica per implementare la lunghezza del pene; i momenti di tensione, invece, li si sdrammatizza paragonandoli alle liti furibonde tra i giudici di X Factor) o mangiarmi le unghie a sangue per la sorte delle vittime. Non sapevo cosa sentire né come prenderla, una vicenda scabrosa (aleggiano dappertutto gli spettri dell'infanticidio, della pedofilia) con un senso dell'umorismo, francamente, brutto. So che Cammilli, angosciante con ironia, non fa per me: mi destabilizza in negativo. Lo avevo intuito – pur gabbato dalla redazione in corner del protagonista di Io non sarò come voi, e c'è da dire che anche qui il ritorno finale sui propri passi emoziona –, e ora ne ho la definitiva certezza. La prossima volta non mi tenteranno gli schiamazzi e le risate all'esterno; il brivido del pericolo. A giocare in cortile, dopo il ginocchio sbucciato, non ci scendo più.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Brunoni Sas – L'uomo nero

sabato 8 luglio 2017

Recensione: L'ultima notte al mondo, di Bianca Marconero

| L'ultima notte al mondo, Bianca Marconero. Newton Compton, € 5,90, pp. 448 |


Se un visitatore casuale facesse una ricerca per parole chiave, sul blog troverebbe una serie di recensioni che cominciano così. Non è facile parlare del lavoro di qualcuno che conosci. Bianca Marconero è la portabandiera di quei post. Un'autrice che però le rende facilissime, le recensioni. Tiene il conto dei miei esami; conosce il rumore esatto che facevano le mie infradito sui gradini, quando correvo per le scale con i quadri appena affissi all'uscita di scuola; si prende la briga di leggere a tempo perso cose mie e disegna cuoricini sui fogli corretti un po' per infastidirmi (sono un orso), un po' per farmi coraggio (sennò spengo la luce, mollo tutto e vado in letargo). Bianca c'è, e tanto basta per aspettarla ogni volta in libreria. La saga di Albion è purtroppo in fermo e dai cinefili imbranati della Prima cosa bella sono passati ormai due anni. Lo scorso settembre, su Facebook, ha annunciato che nel tempo impiegato da me per appaiare i calzini (ossia, una ventina di giorni buoni) si era data a un esperimento: una storia senza cavalieri o nerd, scritta con una certa canzone di Ferro in sottofondo e l'intenzione di autopubblicarla. La Newton Compton non se l'è fatta scappare. In attesa di darlo alle stampe, la Marconero non si è fermata un po', e io intanto sono qui, a metà dell'opera con l'abbinamento dei fantasmini. Il romanzo è la storia di un amore a scoppio ritardato. Lui lavora come operatore per un'emittente privata ed è tornato a Bologna dopo una bravata che gli ha rovinato la reputazione. Lei, al contrario, è benestante, ligia al dovere, innamorata ciecamente: il suo fidanzato storico, tre mesi fa, le ha suggerito una pausa di riflessione. La ragazza vuole essere indipendente, stupire chi l'ha sottovaluta: accetta, così, di alternare il praticantato alla conduzione di un programma TV. Sceneggia e la affianca proprio Marco. Che lei, per inciso, conosce e disprezza per finta sin dal liceo. Peccato che più o meno da allora, combattuto tra amicizia e tentazione, lui la ami in silenzio. Sceglieranno la loro reciproca compagnia, in un Capodanno sotto la neve?

Lei è la ragione per cui crederò sempre alle canzoni.

La stessa trama e una copertina identica, tra gli scaffali, non mi avrebbero attirato. Ho letto L'ultima notte al mondo perché l'ha scritto Bianca, e leggerla mi mancava. Sotto sotto, anche se un'autrice previdente e catastrofista mi aveva già avvertito, mi asperavo la sorpresa di un “ma”: non è il mio genere ma ho cambiato idea, cose così. I numerosi tira e molla, le sere nere e un'esagerata schiera di rivali, però, non mi hanno convinto particolarmente. La città è grande, ma si incrociano con poco vecchi amici, nuove coppie, scoop che minano gli equilibri dei protagonisti – due personaggi all'inseguimento delle loro aspirazioni, che a volte mi sono parsi troppo adulti (il chiodo fisso di sistemarsi alla loro età), altre troppo infantili (il machismo a sprazzi dell'uno, il piede in due scarpe dell'altra). A volte le esigenze di una trama che si complica troppo e vira altrove, nel finale, hanno la meglio su sentimenti già non semplici di per sé. Bianca sta nell'autoironia di fondo, nell'attenzione verso il lavoro del protagonista maschile (per deformazione professionale, infatti, ha un noto occhio di riguardo per i Marco e i backstage), le Vespe scorazzanti all'ombra dei colli. L'ho ritrovata con piacere più nelle poche pagine della novella in coda, l'emozionante Ed ero contentissimo, che nelle precedenti trecento: flashback su un'adolescenza fraintesa, su un'amicizia che ad Amsterdam poteva diventare qualcos'altro, che riassume gli anni del liceo utilizzando le cinque tappe dell'elaborazione del lutto. Senza uno di quei miracolosi colpi di scena a cui mi ha tanto abituato, dunque, L'ultima notte al mondo resta lontano dalla mia comfort zone, ma non è una spiacevole compagnia con cui fare le ore piccole. Loquace, divertente, ficcanaso. Il buona la prima di un'autrice che non dispiace mai e che, allo squillo del citofono, mi farà sempre e comunque mettere in pausa il romanzo che avevo in lettura. Anche se più prevedibile, addolcita, di rosa vestita: come dettano la gioventù, il romance, l'estate. Fiducioso, B., aspetto il cambio di stagione.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Tiziano Ferro – L'ultima notte al mondo

giovedì 6 luglio 2017

Mr. Ciak: Il padre d'Italia, Okja, The Circle, King Arthur, The Dinner

Non sentivo un film da mesi. Non cominciavo così da un po'. Trovo confortante, perciò, dirvi che si parte di nuovo da qui: come piace a me. Ragazzo conosce ragazza. Paolo, orfano pavido e bisognoso, si è perso in mezzo alle luci stroboscopiche di un locale gay: cerca di scongiurare il suo compagno affinché gli dia una seconda chance. Mia, volitiva sin dal nome, è al sesto mese di gravidanza: ha bevuto troppo, si accascia tra le braccia di lui. Che è un gigante buono dagli occhi tristissimi e, per carattere, non sa dire di no. Quella Madonnina con i tatuaggi e i capelli rosa lo prende per mano e lo trascina a 1300 chilometri di distanza. Da copione, ci si innamora o quasi nel mentre. Al centro: le chiacchiere e le liti, le tappe che nessuno avrebbe immaginato. Alla fine: una chiusa agrodolce, di quelle che se è la sera giusta sanno commuovere. Il padre d'Italia è un dramma su ruote con un po' di Away We Go, un po' di Una giornata particolare e tanta bellezza. Introspettivo, intimo, parlato a lungo, pone al centro i suoi personaggi – caratterizzati con cura e pazienza, vicini a me –, e la regia sincronizza di conseguenza il suo passo al loro. L'irruenza della Ragonese e i silenzi carichi di Marinelli (magnifico, e con un altro personaggio, dopo il memorabile Guido di Tutti i santi i giorni, in cui ci sono i miei stessi punti di saturazione) chiamano a sé gli Smiths e la Bertè canticchiati piano, le lunghe carrellate e i personaggi di spalle, le ipnotiche luci al neon del cinema di Dolan. Mollo ha lo sguardo indie che piace; l'alchimia di due che quei personaggi intensissimi sanno portarli in vita con un gesto; lo sfondo in movimento di un'Italia bigotta, con etichette che affibbiano sensi di colpa perfino all'amore. Paolo, troppo cerebrale di suo, ne è pieno. E' contro natura che uno come lui diventi genitore? E' contro natura, dopo la sofferta convivenza con un uomo, prendersi cura di una sciagurata che sfida il mare col petto in fuori e, a letto, gli ricorda quanto è caldo un altro corpo? Il liquido amniotico restituisce l'illusione di una seconda infanzia; le donne insegnano a galleggiare. Il padre d'Italia preferisce parlare d'appartenenza e istinto, senza sollevare polveroni. Di miracoli che, nella mano grinzosa di una figlia, fanno riaffiorare il volto di una madre. Dell'emozione di sbagliare strada, scoprendosi lo stesso a casa. (7,5) 

Sulle montagne della Corea crescono una bambina ribelle e un maiale da concorso, promesso ai banchetti di una spietata multinazionale. Il consumismo rompe l'idillio. L'animale è caricato a forza in un furgone. La sua amica non si arrende: lo segue ovunque, incrociando gli adepti della Mirando Corporation (Tilda Swinton, novella Crudelia De Mon, e il cacciatore dell'esagerato Gyllenhaal) e un gruppo di animalisti reazionari (Dano e la Collins, purtroppo poco utilizzati). Presentato a Cannes, l'ultimo Bong Joon-ho divideva perché non destinato alle sale: Netflix rappresenta forse un danno? Il ginepraio ha fatto sì che l'enorme animale domestico e il coraggio della sua amica passassero quasi inosservati. Benché fosse lecito aspettarsi qualcosa di più, soprattutto da una scrittura che accenna ma non approfondisce, Okja è un film per famiglie che vorrebbe divertire e sensibilizzare: in parte, ci riesce. Con una delicata computer grafica che non fa rimpiangere la rozzezza degli ultimi blockbuster e una regia al solito esemplare, la fiaba del regista orientale – social ed eco-friendly – è parzialmente irrisolta ma centrata. Ci si emoziona, ma senza scontarsi con i picchi melodrammatici cari ai coreani (perfino in Train to Busan, solido zombie-movie, toccava mettere in conto fiumi di lacrime); si lotta affinché trionfino il lieto fine e il candore dei bambini, ma tutto ha un prezzo. Un po' Babe in chiave satirica, un po' E.T.Okja lascia non abbastanza commossi da glissare sui punti oscuri della sceneggiatura, ma ricorda il cinema di storie, sentimenti e illusioni che mi ha reso un appassionato. Dove ci sono sia la forma che la sostanza. Dove il vecchio (penso alle amicizie di Dahl, a Ende) incontra un nuovo modo di pensare l'intrattenimento e, nel bene e nel male, ne ritocca i connotati. (7)

Tutti sono nell'occhio di The Circle, azienda futuribile che fa il verso al Grande Fratello di George Orwell. A scoprirlo, una stagista che suo malgrado diventa un esperimento che cammina. Fino a ritrovarsi, com'è prevedibile, con le spalle al muro. Le tecnologie brevettate da un aspirante Steve Jobs mostrano che un mondo senza segreti è un mondo senza bugie. In nome del bene pubblico, però, si può mettere in pericolo qualcun altro? Il best-seller di Dave Eggers sembrava plausibile e inquietante. Al cinema, invece, il thriller su una generazioni di esibizionisti e voyeur – pensate alle dirette su Facebook, alle storie di Instagram, ai selfie in ogni dove: all'esserci a tutti i costi – è inconcludente e confuso. Una delle peggiori visioni dell'anno. Lungo spot di Youtube da skippare, senza ritmo e senza tensione, The Circle ha uno spunto tutt'altro che esecrabile ma di cui, cosa che eppure accade perfino nelle peggiori trasposizioni, non ho visto il potenziale tra le righe – di recuperare il romanzo perciò no, non se ne parla. A remargli contro, due protagonisti che già ho poco in simpatia: l'indigesto guru Tom Hanks, che ci grazia con un ruolo marginale; una Emma Watson più rigida e fuori posto del solito, in vacanza o da Hogwarts o da una comune amish – fa piacere intravedere però il bimbo cresciuto di Boyhood e Bill Paxton, in una delle sue ultime apparizioni. Quanto sei social? Quanto odieresti avere una telecamera addosso, se vivi comunque una vita online? Cos'hai da nascondere? A rischio, la privacy; il futuro. Riflessioni brucianti ma scolastiche, troppe risposte eluse, un'idea alle ortiche. Gli scarti di Black Mirror non sfamano. (4)

A riprova di quanto sia stato un bambino strano, lo scarso interesse verso il ciclo arturiano. Non mi piaceva La spada nella roccia e, più in là, ho abbandonato per stanchezza la visione di Merlin e Camelot. Ci riprova Guy Ritchie – fratellastro ipodotato di Rodriguez e Tarantino, con un paio di mancati cult nei primi anni Duemila e una vita consacrata al gossip –, non pago di aver profanato la tomba di Conan Doyle. Il giovane Artù, allontanato dal palazzo reale, si muove tutt'altro che in sordina in una Londra postmoderna. Lo zio usurpatore vuole eliminarlo; il nipote mira al colpo di stato. Che costi pure qualche sacrificio, un tocco di magia, singolar tenzoni disputate al rallenty. Non mancano gli elefanti (in Inghilterra), il montaggio forsennato e una colonna sonora come un martello pneumatico. I destrieri nerissimi, le torri in costruzione e le immense adunate ricordano un Signore degli anelli in cerca della compagnia del cattivo gusto. King Arthur è confusionario e affollato. A me, dopo il divertimento della prima parte, ha dato un mal di testa che manco la prima e ultima volta in discoteca. Quello che appare spassoso, dopo un po', viene infatti a noia. Quei salti qui e lì, più lunghi della gamba, ispirano l'effetto collaterale di un conato. Law si tiene strette le smanie di potere del papa di Sorrentino e qualche ghigno di troppo: la cosa più degna di meraviglia, nella sua prova, è la la strenua lotta tra la stempiatura e la forza di gravità. Un loquace e piacione Hunnam, riposto il chiodo, ripiega sul fisico scolpito e un passato alla Oliver Twist. Esagera con il gel effetto bagnato, obbligatoriamente richiesto dal doppio taglio all'ultimo grido: l'unto della brillantina potrebbe dargli più di qualche grana durante l'incoronazione o, che Dio e il parrucchiere salvino le nostre anime, nell'eventualità di un sequel. (5) 

Un tavolo per quattro, un rigido dress code. Da una parte siedono Coogan e la Linney, professore idealista con consorte. Dall'altra, invece, l'aspirante governatore Gere e Rebecca Hall, moglie trofeo. Il tema lo conoscete, soprattutto se avete in libreria il romanzo di Koch o avete intravisto la riuscita trasposizione italiana, I nostri ragazzi: figli colpevoli di un crimine orribile. Denunciarli o proteggerli? Debitamente scandita dall'arrivo delle numerose portate, la versione americana di Oren Moverman approfondisce l'inconciliabilità dei fratelli Lohman, introducendo altre voci sul menu. Digressioni ora azzeccate, ora accessorie, che rimandano a data da destinarsi il momento di pagare il conto e fan sì che, purtroppo, la riflessione centrale passi in secondo piano – le nevrosi dell'uno e il politicamente corretto dell'altro distolgono dalla ferocia delle mamme chiocce, dai moventi un po' generalisti della nostra peggio gioventù. The Dinner, scegliendo ristorante e cast stellati, fa i conti con la retorica a stelle e strisce, un finale che non morde e la scelta incomprensibile di rimandare il momento clou a dopo il dessert. L'occhio, però, che ama il teatro e l'eleganza di certe messe in scena (Moverman non è né Haneke né Polanski: ma scimmiotta quelli giusti, ha buon gusto), è soddisfatto. La mise en place è da manuale, ma la compagnia antipatica e i piatti pretenziosi. Quest'ultima cena si dilunga, appesantisce, propone un conto salato. Squilibrata, acida, nerissima. A ricordarci che la famiglia, talvolta, è il miglior anticoncezionale. (6)