mercoledì 29 aprile 2015

Mr. Ciak: Mommy, Adaline - L'eterna giovinezza, Pride, Le streghe son tornate

Quando ho smesso di piangere sono andato in cerca delle parole. E' successo più o meno così. Poi mi sono chiesto come avrei voluto parlarvene e quale scusa avrei trovato per inserire uno dei film più belli dello scorso anno – purtroppo, recuperato solo ora – nella Top Ten del cinema che è venuto nei quattro mesi scorsi e che verrà nei nove successivi. Imbroglierò; regole mie, blog mio. Mommy finirà in cima al podio e sull'header, sicuro come solo la morte. E le parole si sono nascoste, non si sono fatte trovare, perché alla fine più ci tornavo sopra, più mi rendevo conto che i fazzoletti non sarebbero bastati. A un certo punto, mi ero trovato con le guance umide senza preavviso. Succedeva e basta; avevo dato il mio via libera, e giù di goccioloni furiosi. Quando in casa sono solo e il film è bellissimo rendo di più. Ci sono i film che vanno pianti, altrimenti li capisci a metà. Mai pensato che Xavier Dolan – venticinque anni, cinque film presentati a Cannes; un artista della forma, ma dell'emozione? -, mi avrebbe regalato una delle visione più indimenticabili e il primo pianto dell'anno. Maledetto. Ma anche grazie. Scoperto la scorsa estate, aveva tutto ciò che odio - presunzione, sicurezza, autorialità – ma un occhio ipnotico: se lo sguardo ne era uscito appagato, il cuore non aveva trovato pane per i suoi denti. Con lui misuro un cinema che dev'essere sensazione: la sola forma è come un corpo che invecchia. Resta altro; e quelle poche benedette volte che resta lo senti nello stomaco. Come le farfalle che svolazzano o il dopo sbronza che risale. Mommy è un clamoroso esempio di cinema d'autore fatto per il mondo. Concezione impossibile, come gli unicorni e Babbo Natale; paradosso. Ma Dolan nella sua nicchia sonnolenta non ci sta. Si sentiva imbarazzato quando la critica lo paragonava ad autori che lui neanche conosce: non molto tempo fa, infatti, è stato un ragazzino che è cresciuto considerando genii Cameron, Spielberg e Columbus; un fruitore orgoglioso di pellicole mainstream; uno col mito dei film per famiglie vecchio stile – quando nella sua, di famiglia, c'era invece qualche problema. All'età in cui c'è chi si laurea e chi scappa all'estero, lui firma il suo capolavoro. Mommy è il film per famiglie secondo lui. Suo, suo per forza, ma diverso, finalmente: parla meno di sé; si emoziona di meno, c'è più controllo; ma emoziona di più te, con devastazione e dolcezza e generosità. Il cantante, nei concerti, stona un po' quando deve cantarti le sue storie d'amore e il suo privato. Allora il regista si mette da parte, toglie il suo nome dal cast e ci parla, mantenendosi dietro la macchina da presa, della prima parola che ogni bambino pronuncia: mamma. Ma la mamma sciagurata della magnifica Anna Dorval non festeggia il dieci maggio e ha un figlio pazzo che pensa di curare con il suo amore. Sono una famiglia sgangherata, in cui altri uomini non sono ammessi, ma - nonostante le botte e gli insulti - si vogliono bene con trasporto. Sono l'unica cosa che hanno. Guai a separarli. Lo spettatore entra in casa Dorval insieme alla vicina di Suzanne Clément, un'estranea che solo in mezzo a loro, altri estranei, riesce a parlare senza balbettare. Mommy è universale, ruvido e purissimo. Esagerato e strabordante. La scena madre, di solito, è quella che si ricorda. Quella in cui trionfa spontanea la commozione. Ma Mommy ha vari finali, troppe scene cult e la fattezza di una continua e lunga scena madre. Poetica della libertà, inventata da uno che ha la coscienza di un vecchio e l'iperattività di un bambino che a scuola purtroppo non fa faville: proprio non vuole capire che deve scrivere nel rigo giusto, che non deve uscire dai margini. Cerca di contenersi, perciò, chiudendo i personaggi in un significativo 4:3: due bande nere ai lati dello schermo, l'immagine come tra parentesi, Diane e Steve – di rado nella stessa inquadratura – imprigionati dalla pazzia di lui. Il prodigioso Antoine Olivier Pilon – sedici anni, la zazzera bionda, il grugno alla Macklemore – sul suo pianeta irraggiungibile. Che tenta il suicidio e chiede perdono alla mamma, come se avesse fatto rompere per sbaglio un bicchiere. Che piange, si dispera, cerca il suo aiuto, come ho fatto io il primo giorno all'asilo; quando la maestra Luciana le ha chiesto di andare via – e io piangevo e mamma piangeva – e alla fine è tornata a prendermi, ma tanto stavo già meglio. Che al karaoke, stonato, le dedica Vivo per lei – Bocelli e Giorgia in una surreale colonna sonora che comprende Dido, Lana Del Rey, Céline Dion, gli Oasis e Ludovico Einaudi. Ci sono giorni cattivi e giorni buoni, in cui la felicità, a portata di mano, è un'utopia in 16:9: lo schermo si amplia, le sbarre del carcere si fondono e Steve, a bordo di uno skateboard, scorazza nella vita vera. Finalmente organico, finalmente benvenuto al mondo. I figli – e film come Mommy – so' pezzi 'e core. (10)

Ci sono i film brutti, quelli belli e le occasioni mancate come questa: il terreno era fertile, ma nessuno ha voluto seminarlo. I frutti perciò sono pochi e acerbi. Se fosse stato un romanzo, Adaline sarebbe stato un Neri Pozza: lungo, minuzioso, elegante. La storia di una donna che ha smesso di invecchiare e che è stata testimone di anni e anni di storia: un cenno alle due guerre; una vaga sottotrama spionistica, magari; l'America oggi, ieri e domani, dal punto di vista di una che c'era col crollo di Wall Street, l'uomo sulla luna, le Torri Gemelle. Poi, oltre la storia, anche l'amore: immancabile per ogni vita appassionata, figuriamoci due. Hollywood non ci ha pensato. Un altro Benjamin Button sarebbe stato troppo, quindi ecco la splendida Adaline: ventinovenne da un secolo, innamorata dell'amore, colta, ma priva di esperienza. I flashback dei roaring years e dell'epoca beat, il Charleston e i capelloni, ma il resto? Manca il senso di profondità storica, la saggezza di cui la protagonista immortale non ha fatto dono ai suoi sceneggiatori. C'è un mondo d'amore – e non in senso negativo, perché i sospiri si contano e i sorrisi no – ma lo sfondo è evanescente. Adaline è infiocchettato ad arte, impeccabile, ma perfettino. La macchina da presa danzante, i fiocchi di neve, i costumi messi in risalto dalle forme della splendida protagonista e un epilogo fiabesco che, una mezz'ora prima della chiusa, già si intuisce – e io l'ho suggerito alla sala piena, ovviamente. La voce di un funzionale narratore, però, te lo racconta come fosse una fiaba e la suggestione c'è, anche se non sono riuscito ad oltrepassare mai l'uscio del palazzo. Buona la prova di Blake Lively – altissima, biondissima e purissima – ; e poi, guardatela, cammina sulle nuvole. Con lei Michiel Huisman, altro volto del piccolo schermo che, alla sua bellezza rude, unisce inaspettato brio; infine, un Harrison Ford il cui ruolo, teoricamente inaspettato, è svelato con idiozia nel trailer. Titolo vago e un po' ingannevole The Age of Adaline. Meglio dare spazio ai suoi “lovers” sin dalle premesse, così da chiarire che si tratta di una commedia romantica originale e non di una ricostruzione storica banale: è diverso, se ci si fa caso. (6)

Quella di Joe è la storia di tanti ragazzi della sua generazione; gente cresciuta ai tempi della musica dance, delle restrizioni della Lady di ferro, dell'Aids. Pride è l'orgoglio di Joe, pronto a spiccare il volo lontano dal nido, e quello della comunità omosessuale tutta che, all'alba di una rivoluzione di costume, scende in piazza e si fa sentire. Pride è l'orgoglio dei minatori britannici che, al centro di una crisi che forse ci è familiare, perdono il posto. Ma c'è anche un altro orgoglio, negativo, che è da prendere e mettere da parte: come conciliare operai di paese e gay di città? In Pride, tratto da una storia vera, la causa di uno diventa la causa di tutti. I minatori non hanno mai visto un omosessuale – almeno non dichiarato – e gli omosessuali non hanno mai visto un minatore – almeno non uno spogliarellista vestito da minatore. Così, operai tutti d'un pezzo balleranno, al centro della pista; arzille nonnine faranno le domande più indiscrete sulle pratiche erotiche di una coppia lesbo; gay londinesi riceveranno lezioni di mascolinità da uomini che sostituiranno padri conservatori che hanno tolto loro il saluto, mentre a loro volta essi tireranno fuori lati femminili nascosti e confessioni che hanno il potere di liberare. Passato in sordina in Italia, ma apprezzatissimo all'esterno, Pride è intelligente e ben confezionato, con punti di vista inediti e attori totalmente in parte – accanto ai mattatori della vecchia scuola, spicca il Dominic West di The Affair, passato brillantemente dal ruolo di sciupafemmine a quello di ballerino (e come balla!). Una miriade di tematiche affrontate con umorismo e delicatezza, uno script che abbraccia situazioni eterogenee e personaggi numerosi, un sentore di bontà che perdura. Le tregue, le strette di mano che siglano lunghe amicizie, i volti qualsiasi e le storie comuni che mostrano che un passo alla volta e perfino l'immutabile cambia. L'individualismo è un falso. Due ore piene, il pensiero speranzoso che forse è giusto – in questo nostro mondo bello perché vario - avere fiducia nel genere umano. (8)

Sotto la guida di un Gesù Cristo argentato, un soldato logorroico, Spongebob, l'uomo invisibile e un bambino criminale rapinano una gioielleria e scappano con la ricca refurtiva. Sembra una barzelletta surreale, ma le geniali sequenze d'apertura hanno il marchio di fabbrica di Alex de la Iglesia: regista spagnolo famosissimo, autore di pellicole che sono già cult – La Comunidad, suo, è uno dei film che riguardo più volentieri in assoluto -, figlio illegittimo di Almodòvar e Rodriguez, compagno di culla di Quentin Tarantino. O cose così. Dalla Spagna con squallore. A una prima parte da manuale, però, se ne alterna una seconda che sfocia in un finale lungo, sensazionalistico e non troppo in linea con il resto. Il difetto vero, purtroppo, è in agguato alla fine. Per una volta, il titolo italiano non sbaglia. Le streghe son tornare – che si rifà a uno slogan femminista – è un'arguta satira sui sessi dal linguaggio originalissimo, sebbene non completamente riuscita, e le protagoniste, fattucchiere perchè totalmente libere, mettono lo spettatore uomo in castigo in un angolo. La sanno lunga, la canzone; sanno quel che dicono. Per i protagonisti maschili, a questo punto, o la fuga o cambiare sponda. Dopo anni di assenza, ritorna con stile e ai Goya fa furore, subito pronto al'esportazione. Perché la storia rocambolesca di tre rapinatori nella casa delle streghe ha tanto del suo mondo ma a chi, profano, imparerà a conoscerlo da qui, con una commedia nera che gioca abilmente con l'horror, ricorderà un certo Edgar Wright, e non è poca cosa. Dalle parti di Hot Fuzz e La morte ti fa bella, in un calderone di effetti speciali, violenza e battutacce, si aggirano uomini in lotta per l'affidamento, ex diseredati, figli che devono rispondere alla domanda ossessiva vuoi più bene a mamma o a papà?; contro di loro, le partecipanti a un sabba demoniaco, in una casa abitata da donne. Che la lotta tra maschi e femmile, e tra bene e male, abbia inizio. (6,5)

lunedì 27 aprile 2015

Recensione: Il manifesto degli attori anonimi, di James Franco

Hollywood è sempre stata un club privato. Io apro i cancelli. Dico: “Benvenuti.” Dico: “Guarda dentro.”

Titolo: Il manifesto degli attori anonimi
Autore: James Franco
Editore: Bompiani
Numero di pagine: 298
Prezzo: € 19,50
Sinossi: Gli attori di questo romanzo d'esordio sono un commesso di McDonald's che trascorre i suoi turni provando e riprovando nuovi accenti; un ex bambino prodigio che ricorda un baccanale sulla spiaggia: volontari ospedalieri e esuli della provincia americana più profonda; l'interprete di film sui vampiri che scopre un oscuro testo scritto da un famoso attore, ormai scomparso nel nulla; per non parlare del fantasma di River Pheonix. Poi c'è lo stesso James Franco, che si aggira dietro le quinte occhieggiando tra le righe, prima di prendere la parola e affascinarci con meditazioni sulla sua arte, oltre che con inquietanti storie piene di eccessi. Spaziando tra i generi, dal saggio lirico alla testimonianza disarmante, da messaggi imbarazzanti a note fantasma, James franco ci fa entrare con leggerezza, humour e una buona dose di follia nel cuore oscuro della celebrità.
                                                   La recensione
Che strano tipo James Franco. Che bizzarro che è il suo Manifesto degli attori anonimi.
A chi consigliarlo, come parlarne, cosa dire e cosa non dire. Soprattutto, che raccontare di un libro che non ha una storia né un senso, eppure si fa leggere in un giorno; e piace, perfino, come può piacere un libro bizzarro, illogico e insensato come questo? Trecento pagine in cui perdi il filo del discorso ma che vuoi che importi, venti euro che sono tanti soldi sprecati, l'alter ego dell'autore che, in una pagina sì e nell'altra pure, ti suggerisce che Il manifesto degli attori anonimi è l'opera prima di un egocentrico cronico che non sa scrivere – non una storia dotata di inizio, svolgimento e fine, almeno - e che, facendoti un astuto lavaggio del cervello, ti convince quindi un po' del contrario. Ha senso? Prima che lo scrivessi, comunque, ne aveva. Perché, vedete, nell'istante in cui si ammette nel libro stesso che si è alle prese con un libro sconclusionato e inclassificabile e che si sono persi, ormai, soldi, speranze e tempo, quel libro ti sta improvvisamente simpatico. E dici qualcosa come tò, guarda, ma è geniale; se non altro ti convinci a modo tuo che non è stato un acquisto scemo. L'improvvisato scrittore aveva senz'altro tutti i mezzi per scrivere un romanzo-romanzo, ma ha giocato la carta dell'originalità e si è visto pubblicare in tutto il mondo questo simpatico e improbabile pastrocchio perché è un attore che non ha bisogno di presentazioni; ma se ne scusa quasi. Mette le mani avanti e in faccia ti sbandiera il suo essere privilegiato, con un sentimento che somiglia a volte all'orgoglio, altre al rammarico. Che vuoi farci, amico: non è colpa mia. Per quello lo scritto arriverà in libreria, per quello i lettori lo compreranno. Per quello l'ho letto anch'io. Quando c'è un nome di richiamo in copertina, la storia di un successo è già scritta. Ma a James Franco non si può dare del raccomandato. Se lo avessi scritto io, per dire, non mi sarei mai aspettato un riscontro positivo da un editore, in questa vita e nell'altra. Io però non ho quella credibilità, quell'esperienza, quel background e quell'invidiabile faccia di suola che fa innamorare le spettatrici in sala. Non è come quando Pupo si è dato al giallo; capiamoci. Dietro al bel sorriso che ha passato anche al fratello minore e ai capelli arruffati, Franco – che fa lo scemo per non andare in guerra – lavora per il cinema e il teatro, recita e dirige, scrive poesie, ha qualcosa come due lauree. Ha una visione totalizzante dell'arte, tutte le capacità per osare e l'ambizione tramontata di diventare il nuovo James Dean - era troppo curioso per darsi ai soli ruoli impegnati e troppo intelligente per andarsi a schiantare a cento all'ora contro un muro. Gli piacciono la sua vita al massimo (e a chi non piacerebbe?), le donne (e anche qualche uomo?), i soldi facili (vi chiedete ancora perché prende parte a filmoni e filmacci, così, a periodi alterni?). Il mondo del cinema gli dà il più poderoso calcio nel sedere possibile e lui, graziato intruso nel panorama editoriale, parla di cose che conosce con un linguaggio personalissimo, a cui non ci si abitua mai del tutto. Non ci si poteva aspettare qualcosa di diverso da una specie di pazzo suicida che adatta Cormac McCarthy e poi, in un video parodia, cavalca una Harley e si limona Seth Rogen; pubblica ridicoli selfie su Instangram e, al Festival di Berlino, presenta due pellicole a cui ha preso parte non si sa quando. Il Manifesto degli attori anonimi – uscito prima di In stato di ebbrezza, ma giunto solo ora in Italia – ha quell'anima ridicola e i baluginanti sprazzi di onestà. Un Franco nella stanza degli specchi, in una Hollywood circo: a volte descrive ciò che ha dentro, altre quello che la superficie lucida riflette. L'attore e la maschera. Scrittori e attori sono bugiardi per professione. Abbinate i due mestieri e non ci cavere un ragno dal buco. Il manifesto degli attori anonimi lo scrive come gli pare, nell'ordine che gli pare e con quello che gli pare: racconti, riflessioni, esercizi in rima sciolta che rivoluzionano il concetto di licenza poetica. Episodi sconnessi e sconci di poca gente che sfonda e di tanta gente che molla. L'umorismo corrosivo dell'ultimo Cronenberg che gettava benzina sullo Star System e accendeva il fatale fiammifero; la volgarità e il sesso sporco dei peggiori glory hole e bar di Caracas. I danni da metodo Stanislavskij, gli enfant prodiges, i provini disonesti, un tentativo di antologia di River – ma River Phoenix l'attore, non Spoon River di Masters. L'autore attore per tutto il tempo c'è e non c'è: usa la prima persona e ci si nasconde dietro. In un capitolo è sé stesso, in un altro una sua ammiratrice fuori di testa, in un altro ancora un patricida mosso da mille velleità artistiche. Dove voglia andare a parare chi lo sa, ma si diverte parecchio e tu finisci per diverti con lui. Tipo quando un amico attacca a ridere e il vicino segue a ruota; come al gioco del telefono senza fili in cui si perde il perché e il per come ma chissene. Interessante, a tratti, per gli addetti ai lavori ma non abbastanza da diventare una guida affidabile in quel mondo di chiaroscuri che continua a chiamarti. Ricordo che le avanguardie storiche avevano bisogno di un manifesto e questo volumetto dai colori fluo, strutturato a mo' di confessione degli alcolisti – e dei cinefili – anonimi, è dadaista come Duchamp. Quello dei baffi alla gioconda e del cesso esposto al museo. Ma, caro James, Il manifesto degli attori anonimi sarà un murales o un muro chiazzato di vernice? Una fontana o un gabinetto rubato al centro commerciale e messo a testa in giù? Twittateglielo, taggatelo. Lui, conoscendo il tipo, il paragone con Duchamp e il suo orinatoio lo farebbe scrivere nelle fascette promozionali. Piaciuto, ma consigliabile a pochi. 
Fan(atici), radical chic, sballati di cellulosa.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Lou Reed – Walk On The Wild Side

mercoledì 22 aprile 2015

Recensione: Il miniaturista, di Jessie Burton

Pensavi di essere una scatola chiusa in una scatola, si dice Nella. Ma il miniaturista ti vede. Ci vede.

Titolo: Il miniaturista
Autrice: Jessie Burton
Editore: Bompiani
Numero di pagine: 440
Prezzo: € 18,00
Sinossi: In un giorno d'autunno del 1686, la diciottenne Petronella Oortman Nella-fra-le-nuvole è il soprannome datole da sua mamma - bussa alla porta di una casa nel quartiere più benestante di Amsterdam. È arrivata dalla campagna con il suo pappagallo Peebo, per iniziare una nuova vita come moglie dell'illustre mercante Johannes Brandt. Ma l'accoglienza è tutt'altra da quella che Nella si attendeva: invece del consorte trova la sua indisponente sorella, Marin Brandt; nella camera di Marin, Nella scopre appassionati messaggi nascosti tra le pagine di libri esotici; e anche quando Johannes torna da uno dei suoi viaggi, evita accuratamente di dormire con Nella, e anche solo di sfiorarla. Anzi, quando Nella gli si avvicina, seduttiva, memore dell'insegnamento della mamma ("Il tuo corpo è la chiave, tesoro mio"), lui la respinge. L'unica attenzione che Johannes riserva a Nella è uno strano dono, la miniatura della loro casa e l'invito ad arredarla. Sembra una beffa. Eppure Nella, che si sente ospite in casa propria, non si perde d'animo e si rivolge all'unico miniaturista che trova ad Amsterdam. Nella rimane affascinata da questa enigmatica figura che sembra sfuggirle continuamente, anche se tra loro si mantiene un dialogo sempre più fitto, senza parole, ma attraverso piccoli, straordinari manufatti che raccontano i misteri di casa Brandt. Amore e tradimento, rancori e ossessioni, sesso e sete di ricchezza s'incontrano tra i canali di Amsterdam...
                                                       La recensione
Benché ci viva immerso, non amo la storia. Ieri era storia, oggi è storia, domani sarà storia. Si fa attorno a noi, continuamente; si crea dai meeting strategici dei politici e dai nostri troppi sbagli. Ho però la testarda convinzione che tutto ciò che ci abbia a che fare – dagli sceneggiati in tivù ai seminari all'università, dai romanzi di genere alle parate in costume nei paesini dell'entroterra – sia di per sé noiosissimo. Provando a convincermi del contrario, buttereste via il fiato. Ho un'alta soglia di sopportazione, non lascio le cose a metà, ma guardandomi alle spalle vedo Maria Stuarda e Francesco II – belli come solo in casa The CW capita – e non saprò mai se avranno eredi e se vivranno in pace, ma Wikipedia mi assicura in anticipo di no; Enrico VIII e le sue numerose mogli, anche se al tempo dei Tudors mi sono fermato alla Anna Bolena con il viso di Natalie Dormer e non ho avuto voglia di conoscere altre infelici consorti; Marco Polo che è arrivato in Cina ma non è tornato, e un Cristoforo Colombo che non ha scoperto l'America nella prossima puntata, sarà che non ho voluto guardarla io. Insomma: una parata di sete e broccati, un ballo in maschera di accenti diversi e intrighi dinastici, e io che mi accontento di conoscere chi sarà re e chi sarà regina, chi sarà ricordato e chi sarà dimenticato, chi vivrà e vedrà coi pratici riassunti della Rete. Imbrogliando. Il miniaturista è stato letto – e apprezzato – da una persona che non ama il genere, pensava sinceramente di annoiarsi per gran parte del tempo, ma non poteva rinunciare – proprio no -, per la sua tipica voglia di possesso, a sfoggiare quella splendida copertina sui ripiani più alti della sua libreria. E' una specie di quadro nel quadro, e l'autrice sceglie di riempirlo, di disegnare figure negli spazi bianchi; una città straniera in cui tutto ha un prezzo fa da fondale incantato alle vicende di Nella, sposa vergine, e a quelle di chi vivrà con lei i primi – e unici – mesi di un matrimonio complesso: Johanness, il marito mercante che le compra regali costosi e non la sfiora neanche con un fiore; Otto, servitore dalla pelle d'ebano che il padrone di casa ha portato con sé dai suoi viaggi esotici; Cordelia, vispa domestica con cui è impensato che un segreto rimanga tale; Marin, cognata altera e amareggiata che ha la forza – e la limitatezza – di ogni donna del suo controverso tempo. 
Quest'ultima, anche se tra ruoli e comparse frequenti è difficile scegliere, è il personaggio più interessante: ancora più di Nella, troppo ingenua e infantile per la vita. Crescerà, capirà. Marin, adulta, già ha capito, e quel suo misto di rigore e discrezione – con una stanza da letto che è un scrigno di desideri proibiti, una lettera d'amore che prende polvere tra le pagine, tutti i Paesi che cerca sulle carte geografiche e non vedrà, per forza di cose, mai – devasta e conquista. Il regalo di nozze di Nella è una miniatura perfetta della casa in cui vivrà come ospite e non come padrona, e a compromettere l'immobilismo di quel museo di silenzi un burattinaio che legge tra le righe, preannuncia nuove nascite, anticipa tragiche morti. Le sue creazioni – copie in scala dei Brandt – portano i segni di ciò che sarà. Il miniaturista è uno spaccato di storia vera che corre sui binari del mistery e sul filo del brivido; ma anche una girandola di amori contrastati, un thriller giudiziario, un ritratto coinvolgente della condizione femminile e la denuncia originale di diversità che venivano punite con la pena di morte. Tutto ha il giusto spazio in quello stipetto; non si sta stretti. La Burton non annoia, non confonde e intesse una trama arzigogolata di cui viene a capo come per magia, solo lei sa come. Nervi d'acciaio, polso fermo, pazienza.
Il miniaturista è tante cose, troppe, ma non si rivela una lettura pesante. Ricchissimo, poteva conservare un colpo di scena o una tematica superflua per un'altra storia; la successiva. Sarebbe stato ugualmente bello, se fosse stato più semplice. Ma il barocco horror vacui della Burton non è, per fortuna, di quelli nocivi. L'ho letto all'inizio stando un po' sulle mie, con un piede dentro e un piede fuori dall'uscio di casa Brandt, e poi ci sono caduto dentro a capofitto, come nella tana senza fondo del Bianconiglio. Tutt'intorno, mentre cadevo e cadevo e cadevo, elisir e spezie, tazzine fragili che stanno sulla punta di un dito, montagne di zucchero che valgono oro. Davanti a me, sul fondo buio, infinite porte, sentieri di mele avvelenate, la possibilità di scegliere. Ho scelto di dare un morso al biscotto sbagliato e di farmi minuscolo, a misura di lillipuziano. Il mio movente, lo stesso della protagonista: una disgraziata curiosità. Come rinunciare al potere della suggestione, al mistero, al richiamo delle cose belle? Come camminare in un tempio e non guardare in alto, verso le volte, i colonnati, le colombre prigioniere; come non spiare dalla serratura i loschi e passionali inquilini di una casa di bambole? Si cede perciò al compromesso. Ci si fa piccini, nelle mani esperte del Miniaturista, e quella Amsterdam seicentesca magistralmente rievocata sembra ancora più tentacolare, vera e grande: basta fidarsi di un'esordiente che non sembra un'esordiente; di un mago che non risponde se bussi alla sua porta sotto il segno del Sole e che, quando tutto sarà finito, saprà riportarti alle dimensioni normali, sempre che tu lo voglia; di un sontuoso gioco di prestigio che maschera la storia da farsa e la farsa da storia, rendendo l'antichità più appetibile e la finzione più nobile. Trucco semplice, se si ha una prosa che è una favola e la fantasia per costuire, mattone dopo mattone, un'architettura modernissima che mira al cielo e ogni tanto barcolla, ma, tranquilli, non crolla. Jessie Burton è la straordinaria artefice di un quadro poliforme, e la sua personalità sta nella dipintura dei chiaroscuri dei cuori e delle menti e in dialoghi ritmati che si inseriscono credibilmente nel contesto storico in cui ci muoviamo; ma soprattutto di una raffinata cornice che non si scorda. Anche così, strappata la tela, agganciata a un chiodo nudo, sarebbe un oggetto prezioso da appendere alla parete della vostra stanza più luminosa.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Birdy - Shelter

domenica 19 aprile 2015

Recensione: L'estate del bene e del male, di Miranda Beverly-Whittermore

 Se vuoi diventare una Winslow, dovrai cambiare ciò che significa essere un Winslow. Dovrai far cadere tutti loro.

Titolo: L'estate del bene e del male
Autrice: Miranda Beverly-Whittermore
Editore: Sonzogno
Numero di pagine: 412
Prezzo: € 18,50
Sinossi: Dopo aver vinto una borsa di studio per un college prestigioso dell'East Coast, l'intelligente ma ordinaria Mabel Dagmar si trova a essere compagna di stanza della ricca e capricciosa Genevra Winslow. Mabel viene subito stregata dal mondo aristocratico di Ev e, contro ogni previsione, tra le due ragazze nasce una forte amicizia. Così quando Ev invita Mabel a passare l'estate a Winloch, la centenaria proprietà di famiglia affacciata su un lago del Vermont dove il potente clan Winslow ama radunarsi, Mabel accetta senza pensarci due volte. Lì, tra bagni di mezzanotte, gite in barca, feste e fuochi d'artificio, Mabel si rende conto di avere trovato tutto ciò che ha sempre desiderato: l'amicizia, l'amore, il lusso e, soprattutto, per la prima volta nella sua vita, la sensazione di far parte di qualcosa di bello e felice. Tuttavia, a mano a mano che l'estate avanza, Mabel avverte che sull'abbagliante perfezione dei Winslow si allungano ombre inquietanti che affondano le radici in un tempo lontano. Mentre indaga sui loro segreti, Mabel si ritrova a lottare con i demoni del suo stesso passato e scopre che a volte il Bene non è altro che una maschera. E che nell'eden di Winloch si nasconde un Male che forse solo lei è in grado di fermare. La ragazza dovrà scegliere: affrontare l'orrore che batte nel cuore del clan e farsi cacciare da quel paradiso, oppure lasciarsi sedurre dallo splendente futuro che le viene offerto.
                                                      La recensione
Amy Merrick
Ogni romanzo ha una storia. Una doppia storia. Quella che scrive l'autore e quella che gli fa vivere, poi, il suo lettore. Sono un padrone degenere e ai miei sfortunati libri, qualche volta, tocca aspettare il loro turno o, per meglio dire, i miei comodi. Da accumulatore compulsivo, voglio più cose di quante possa leggerne: storia risaputa. L'estate del bene e del male, mi sono detto, dovevo averlo; con quella copertina lì – un'evocativa e calzante illustrazione della brava Maria Cecilia Azzali – non poteva starsene in un angolo. Mi sono avvicinato alla storia della famiglia Winslow – una storia di bugie e apparenze – grazie alla sua stessa apparenza: anche l'occhio vuole la sua parte, ragionando per proverbi. E siccome la Sonzogno affida le sue copertine a grafici non solo esperti, ma che ti danno perfino l'impressione – e puoi giurarlo quasi, a fine lettura - di averlo assorbito prima di te, quel racconto, per poi rappresentarlo nel dettaglio su un solo foglio di carta, volevo proprio sapere perché l'illustratrice avesse disegnato i rovi di spine, le ragazze ficcanaso, gli alberi che bucano barbaramente le case, la luna piena in cielo quando è giorno. Correva il periodo della sessione invernale, e il resto è risaputo. Libri brevi, storie semplici, romanzetti, per stare dietro a blog e università. L'esordio di Miranda Berverly-Whittermore, più di quattrocento pagine e una mole non indifferente, ha la sfortunata fortuna di non fare parte della categoria. Ma meglio così; meglio per me. Con il caldo di questa primavera che finalmente si sta mostrando generosa, nei ritagli di tempo in poltrona o in balcone, visto che i prossimi esami sembrano con l'inganno lontani lontani, mi sono goduto un romanzo gotico in piena regola che però, coi castelli diventati cottage e le precettrici arrampicatrici sociali in erba, gli alberi genealogici che marciscono nel basso delle loro storie famigliari di abusi e figli bastardi, ha scenari vacanzieri e un clima da sogno che, pur con le notti illuminate dai fuochi d'artificio del quattro Luglio e lampi e tuoni severamente banditi dall'idillio, ben poco contribuiscono a rassicurare. Oscuro, anche alla luce del sole. Con le ombre che si allungano sui picnic come in un dipinto di De Chirico e nell'immaginazione diventano coltelli affilati. Misteriosissimo e sfuggente, benché non ci siano svolte lasciate al caso. L'estate del bene e del male lo avrei letto anche in tempo di studio, con la stessa fretta e curiosità di adesso, e sarebbe stato una autentica distazione; io che, al contrario, lo avevo momentaneamente accantonato pensando fosse troppo prolisso e impegnativo. E' un romanzo da gustare in vacanza, mentre l'ozio e il relax sottratti alla routine ti aiutano ad entrare, all'inizio, in quel mondo che non avrai mai. Non la classica lettura da ombrellone, intendiamoci, ma ottima per avere con sé – quando si è in ferie – un libro veloce e ineditamente ben scritto. Il mio “ineditamente” non è inserito a caso: ritmo e descrizioni particolareggiate come quelle della Whittermore raramente vanno d'accordo, ma leggendo in media cento, centocinquanta pagine al giorno mi sono accorto di essere in presenza di un esordio da tenere d'occhio; un'eccezione. 
Un'eleganza che non è dei nostri tempi, una scrittura consapevole, un intreccio simmetrico e sottilmente inquietante che inchioda alle pagine, dopo una prima metà da romanzo di formazione. Ha storie dentro storie, trame e sottotrame, capitoli concisi e funzionali che aiutano a metabolizzare i colpi di scena e la miriade di stranezze che si porta in valigia – e in testa - una narratrice precoce, omertosa e difficile da amare. Mabel Dagmar è la ragazza con i tacchi rossi che spia dalla finestra, in copertina: diciott'anni e una voce già matura, una famiglia con cui ha rari contatti, una migliore amica che la sfrutta e che lei sfrutta a sua volta, nella maniera dei ladri e delle sanguisughe. Origlia segreti, ruba dettagli impercettibili, ha il voyeurismo dell'ospite che, da un momento all'altro, ha paura sarà invitata a ritornare a casa sua: così fa il suo meglio e il suo peggio; spreme, sviscera, seziona e osserva. Spettatrice esterna di un mondo che disprezza e adora; guardiana di una famiglia perfetta di cui vorrebbe fare parte o che forse desidera rovesciare dall'interno, in un colpo di stato scandito dai colpi di scena. 
Suscita antipatia, a tratti, al pari dell'inarrivabile Genevra – la prima bisognosa di tutto, l'altra viziatissima; l'una sospettosa e scaltra, l'altra superficiale come chi è facoltosa, avvenente e non poteva chiedere di certo anche la brillantezza nel pacchetto – ma ha una malizia, nella voce, che intriga e un contraddittorio desiderio di successo che riconosci anche come tuo, dando giusto un'occhiata ai cassetti in cui hai riposto i sogni di gioventù e agli armadi in cui, invece, tieni gelosamente i tuoi cari scheletri. Siamo tanto diversi da lei quando, con un moralismo che nasconde solo la peggiore forma di invidia, al cinema o in televisione sbirchiamo di sottecchi le vite di chi fa spese folli, festeggia senza un perché, indossa abiti eleganti ai brunch, nasconte sotto il tappetto lo sporco di dipendenze viscide e pulsioni sessuali fuori controllo? Lo sguardo di questa intrusa, un angelo stonato in un Eden di bellezza e prosperità, è accattivante. Gli occhiali da sole calati sulla punta del naso, un grande classico sul petto che tanto non riuscirà a leggere alla fine dell'estate, un posto d'onore sulle sponde del lago mentre gli altri fanno un tuffo dove l'acqua è più nera. E le zie straparlano, e i padri di famiglia sono lussuriosi bugiardi, e i Van Gogh in soggiorno nascondono, sul retro, la storia di uno scandalo sepolto nel tempo. Alcune porte vengono chiuse a doppia mandata, altre vengono spalancate ad amori selvaggi e al brivido dell'omicidio. Tra comparse e parenti acquisiti, in quella patinata foto di famiglia non c'è nessuno – alla fine del romanzo – che non conosci. Tutti sorridenti, tutti biondi, tutti vestiti di bianco. In un luogo defilato, però, c'è una ragazza che coi suoi chili in più e i capelli scuri è fuori posto. Messa lì, in mezzo a bambini come putti e a matriarche senza rughe, sembra il ritaglio di un collage inserito a casaccio. L'estate del bene e del male, da giugno ad agosto, racconta la stagione della sua maturità. Chi sono gli splendidi Winslow, e chi è l'infiltrata invidiosa e pungente che, per tutto il tempo, te li racconta, restando nell'ombra? Le risposte in un romanzo che è un giallo ma non solo, che calcola quanti anni contano gli alberi di quel bosco privato e smaschera le preoccupanti incongruenze dei loro nodi di legno e DNA. Mi limito a parlarne vagamente, perché se raccontato in poche righe sembrerebbe un'infinita soap opera. Forse per certi versi lo è, ma a fare la differenza è la credibilità di un'autrice che nasce qui, eppure è già bravissima.
Attenta alla retorica di Lucifero. Ti sedurrà con il suo carisma”. Aveva sorriso e picchiettato con un dito sul mio libro. “Non ho ancora cominciato a leggerlo veramente.” “Be'” aveva replicato lei, “allora magari un giorno saprai ciò che intendo. E come l'oscurità infetta quelli che tra noi non possono resistere a una storia succosa”. I suoi occhi si erano illuminati, maliziosi. “Fa' attenzione. Tu sembri proprio quel tipo di ragazza.”
E io sono quel tipo esatto di ragazzo.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lorde - Team 


Dancin’ around the lies we told
Dancin’ around big eyes as well...”

venerdì 17 aprile 2015

Mr. Ciak: Wild, This is where I leave you, Clown, Cub, Annie, The Loft, Cymbeline (tanti; a Pasqua è stato brutto tempo)

Anche quest'anno il canadese Jean-Marc Vallée, regista dell'acclamato Dallas Buyers Club, ha portato sul grande schermo un'altra storia vera e un'altra volta, anche se più in sordina della precedente, è stato testimone di due prove attoriali notevoli: l'evanescente Laura Dern e Reese Whiterspoon sono di un'intensità forte, sarà che appare inaspettata. Cose che ho capito: il regista spinge il suo cast a fare il meglio possibile; la macchina da presa instabile e incerta di Dallas Buyers era frutto di una scelta precisa, perché qui la fotografia calorosa e i paesaggi mozzafiato rivelano una mano ferma e una carica emotiva non da poco, quando lì tutto mi era apparso sì più onesto ma più freddo; la sceneggiatura firmata da Nick Hornby è di una retorica di quelle che fanno bene, e le miserie umane di una protagonista dolente e tormentata, mostrate con un montaggio classico e affascinante, ci mostrano la realtà come fosse un film bello, costruttivo, ribelle. E ho capito che quello è il possibile difetto, rintracciare un troppo fare cinema nella storia di questa Into the wild al femminile, che ha tanti antecedenti nel tempo e parecchi momenti costruiti per arrivare al punto, ma il compito di una trasposizione cinematografica è anche questo: prendere una storia, pulirla dal sudiciume, darle un senso profondo. Così il viaggio di Cheryl, una donna che camminando dal Canada al confine del Messico spera di fare pace con una sessualità rabbiosa, un marito che ha ferito, una mamma che è morta ma non ancora l'abbandona, diventa una parabola per benedire Madre Natura, mandare scongiuri contro l'Altissimo e, nel frattempo, ritrovarsi se si è morti e resuscitati in un mare di merda. La mamma di Laura Dern, strampalata donna dal cuore d'oro, ha poche scene ma un personaggio che, filtrato dalla protagonista, assume una rilevanza grande. Quale mamma non è grande per un figlio, alla fine? Reese Whiterspoon, antipatica fidanzatina d'America che già ha vinto una statuetta con Walk the line ma che continua a rendermi scettico, convince con una prova corporea e non solo; si concede una scena di nudo, ci mostra le guance cotte dal sole e i capelli stopposi, i salti al passato ce la presentano anche adolescente, ma nel deserto parla poco e comunica lo stesso il suo sguardo instancabile. Canzoni leitmotiv e flashback lontanti che sembrano miraggi fanno compagnia a una Cheryl che fischietta, canticchia, piange e sorride, riflettendo su quanto facciano schifo certi uomini, su quanto abbia fatto schifo lei e su quanto bene c'è oltre la prossima svolta, nello sguardo del prossimo passante. Wild è un'esplorazione intima del dentro e del fuori di sé, scritta come fosse un'ode alle seconde opportunità: il caldo, il freddo, i serpenti e gli ululati, ma soprattutto l'uomo – o meglio, una donna – da accogliere con i propri bagagli pesanti e i pensieri segreti, quando, il pollice sollevato, verrà a chiederci un passaggio. (7)

Tra gli innumerevoli libri che avrei voluto leggere, Portami a casa. Il film in uscita, ma c'era tempo. Eccolo spuntare con i sottotitoli, però, quando avevo proprio bisogno di una cosa così: solida, spiritosa e profondondissimante familiare. Nel tempo dei ritorni all'ovile dall'università, degli abbracci in stazione, delle festività che dovrei sentire ma invece no. Ignorante in materia di alberi genealogici, pragmatico, non anaffettivo ma poco ci manca, odio le riunioni in grande, le cene a casa dei miei nonni, ma amo osservare il tutto al cinema. Perché punti di vista più spietati del mio ne mettono in evidenza i bisbigli, le falsità, i segreti: le crepe nascoste coi centrini ricamati da zia.This is where I leave you non è I segreti di Osage County, ma mi sono fatto bastare il bel cast, le situazioni tragicomiche, i dialoghi briosi e quel rinvigorente senso di benessere. Quattro fratelli, un papà nella tomba, mogli, nipoti e generi tutti sotto lo stesso tetto per volere di mammà. Tempo una settimana: tempo di confessioni, rimpianti, rimpatriate, ritorni al primo amore, outing e divorzi. In quella bella casa nel verde, in quella bella famiglia che ha un che della nostra, la matriarca è la maliziosa Jane Fonda, mamma arzilla dai morbidi abbracci e dalle tette rifatte; Jason Bateman è il figliol prodigo che ha vergogna di parlare del suo divorzio, mentre cerca di abituarsi a essere chiamato papà; Tina Fey, stranamente (quasi) seria, è una prolifica fabbricatrice di bambini innamorata di un uomo che non può avere; Adam Driver, nato per i film indipendenti, col suo fascino tenebroso, si rivela inaspettatamente un esilarante e immancabile pecora nera. Una giungla di abiti neri, vizi e virtù, in cui non mancano le mie odiate iprocrisie, il mio amato sarcasmo e grasse risate. Sentire tua madre parlare della sua vita sessuale ti provocherà sempre il solito imbarazzo, il ricordo del primo bacio è un rinnovato tuffo al cuore, di condividere lenzuola, sigarette e botte con piaghe di fratelli minori non si smette mai. (6,5)

Rendersi ridicoli per amore di un figlio. Accettare di vestirsi da pagliaccio per non rimangiarsi una promessa. Il costume non si spiccica: fuso con la pelle. Quel papà modello e i panni di un mostro. Il cerone non va via, i denti si fanno aguzzi, lo stomaco dice di avere fame – e di bambini. Prodotto da Eli Roth, Clown si rivela una sorpresa, nonostante una trama che è un pretesto bello e buono – costruita appositamente intorno alla figura intramontabile di It e alla diffusa paura di quegli inquietanti simpaticoni da circo – e all'apparenza ridicolmente trash. Invece, giacché me ne avevano parlato bene, l'ho guardato con quell'esatto misto di divertimento e rilassatezza che mi avevano assicurato. Aspettative basse, dunque, budget ridotto all'osso, effetti speciali artigianali e, a sorpresa, una dignitosa riuscita finale. La storia di questo Jack Frost rivisto e corretto intrattiene e disgusta vagamente, con ironia, citazioni che rimandano a Joe Dante e arti strappati di netto. Paura non ne fa, ma risparmia quella classica mezz'ora introduttiva, e con il tabù già sfatato in Cub, con la morte e i bambini nella stessa frase, dà fastidio il giusto, ma senza eccessi. Sotto l'egida di Roth, si muove bene alla macchina da presa il semiesordiente Jon Watts, che confeziona una o due scene da ricordare (su tutte, quella del clown in mezzo ai tubi e alle piscine colorate del parco di un centro commerciale) e, per quanto possibile, cattura con personaggi abbozzati, ma familiari. E se il cast non brilla, e la colpa è anche del nostro pessimo doppiaggio, il ruolo di Andy Powers, che lo vuole alle prese con una abominevole trasformazione, lo mette sotto una buona luce. Qual è il confine tra la bestia e la persona non si sa, ma quello tra un brutto film e un film guardabile sono solidamente rimarcati. Clown riesce a stare in equilibrio dalla parte giusta, tra uno sghignazzo e un palloncino regalato a tradimento. (6,5)

Un mucchio di bambini pestiferi e il campeggio. Sogno prediletto del bambino medio, non il mio. Odio lo sporco, dormire all'aperto e, neanche troppo segretamente, i boy scout. Quel sogno mai avuto in Cub, horror belga con un cast rubato alle scuole medie, si fa incubo. La canonica prima parte, lenta e banale, scorre tra liti e rivalità, sentieri accidentati e leggende per mettere paura ai più sensibili della banda. Una fabbrica abbandonata, operai suicidi, un bambino mascherato e selvaggio in un micromondo senza adulti. Cub, nella sua brevità, si snoda lungo due sentieri diversi. Se la prima ora ricalca racconti dell'orrore e miti da poco, diventando a sua volta una fiaba nera da raccontare davanti a un falò, la seconda sorprende per una crudeltà forte che, coinvolgendo bambini e cuccioli, scuote. Il sottotitolo, Piccole vittime, doveva metterci in allerta, ma i sottotitoli mentono. Qui invece pargoli non troppo innocenti, cani e fastidiosi coordinatori fanno spesso la brutta fine promessa. Me lo aspettavo più addolcito. Qualcuno ha fegato, da queste parti, e si fa apprezzare soprattutto per quello. Scattano trappole machiavelliche, divertimento per lo spettatore più cinico, ma quella crudezza a sorpresa di cui vi parlavo, il sangue freddo e copioso, il non fare sconti a nessuno, ti fanno pensare che tutto era leggermente meglio di quanto avessi supposto, ma non abbastanza da far dimenticare una prima parte lunga e avara di sussulti. Solo le apparizioni del "Bambino Perduto", che un po' ricorda gli spaventosi sfollati di Vinyan e un po' la tribù del nerissimo The Woman, fanno compagnia, nel frattempo. (5,5)

E chi se lo aspettava che il gradevole ritorno al musical – dopo lo stonato e serioso Into the woods – fosse un salto nel passato? Da quando le fiabe finiscono male e i ritornelli spariscono, da quando gli autori giocano a farsi gli alternativi scontentando i tradizionalisti e annoiando chi il genere non lo tollerava prima e figuriamoci adesso, perfino io avevo sviluppato un'improvvisa intollerenza. Per fortuna che c'è Annie. Il risaputo e, sì, svenevolmente dolce Annie che è la commedia musicale come la intendo io. Colorata, metropolitana, orecchiabile, in cui i siparietti musicali li accogli senza concederti smorfie. Anzi, punti il telecomando contro lo schermo e alzi il volume. Le armonie si ripetono e, al prossimo turno, potresti già conoscere l'inciso. La storia della famosa orfanella newyorkese scopre nuovi arrangiamenti, un tocco di hip hop e una veste black. La movimentata colonna sonora è curata da Jay-Z e gli attori fanno sembrare tutto estremamente semplice, dipingendoci in faccia un sorrisone che non va via. Diretto da Will Gluck (Easy Girl), che si trascina dietro in spassosi camei Michael J. Fox, Patricia Clarkson, Mila Kunis e Rihanna, ha come protagonista la più giovane attrice ad essere stata candidata agli Oscar nella storia del cinema – la pimpante Quvenzhané Wallis – e comprimari che, quando le voci tentennano, compensano con tanta convinzione: la cattiva per finta Cameron Diaz, l'inglesina Rose Byrne e Jamie Foxx, che con le note musicali ha invece un rapporto lunghissimo. Più Disney di quella storia di personaggi fiabeschi e boschi, nonostante la Sony a produrre, è semplice e facilone. Il lieto fine è d'obbligo e vederli lì, ricchi e felici, cantare che l'unica cosa che importa è avere la persona del proprio cuore accanto, è ridondante. Pure i soldi fanno la felicità, o no? Ma questa è la magia del musical. Grande sfarzo, tutte star: a morte l'amarezza. (6)

Cinque amici, un loft segreto, l'illusione di essere scapoli. Vietato farne parola con le mogli, vietato l'amore: solo sesso occasionale. Ma quando una donna viene trovata morta per quella banda di dongiovanni si mette male. Sembra una versione di Una notte da leoni a tinte gialle questo The Loft, che ha nomi di spicco nel cast, una copertina alla Hitchcock e una lunga tradizione al cinema, nonostante la sua corta vita: una versione originale datata 2008, un successivo remake danese e l'immancabile remake americano, con al comando lo stesso regista del primo. E io il film di Erin Van Looy lo avevo visto, mi era piaciuto, ma purtroppo non lo ricordo. Mi sono rinfrescato le idee con questa patinata produzione in lingua inglese che trova l'articolo determinativo nel titolo e poco altro. Funziona, struzzica, intrattiene, ma me lo ricordavo meglio quando non lo ricordavo affatto. La trama intriga, ma nonostante i colpi di scena non manchino, ero in fervente attesa di una svolta che fosse più clamorosa, così come ricordavo rispolverando immagini sbiadite di cinque annetti fa. Forse non c'era stato nemmeno allora un colpo di scena aggiuntivo e ricordo male io, anzi probabile; ma ricordo di sicuro più erotismo, più sporco, più incisività. Buoni Urban e Marsden, meglio il Wentworth Miller di Prison Break con un ambiguo personaggio shakesperiano, ma una spanna al di sopra Matthias Shoenaerts, con un ruolo piccolo e eccessivo, per uno dei volti più interessanti del cinema contemporaneo. Questo ennesimoThe Loft è elegante, fluido, pulito da sesso estremo e impurità. I limiti della censura non gli valgono l'etichetta di thriller erotico, dunque, ma ci sono rimandi numerosi al cinema di De Palma, Verhoeven e Lyne in una messa in scena rigorosa e in una regia raffinitassima, che sembra una danza. (6)

Ho visto il fiaschiato Cymbeline con lo spirito del crocerossino. Presentato a Venezia, è diretto dal Michael Almereyda che dopo Hamlet 2000 ci riprova col Bardo e con un nutrito cast in cui, accanto agli attori jolly Ed Harris e Ethan Hawke, fanno una discreta figura soprattutto i giovani. La lotta tra britanni e romani, in una città tra presente e futuro, diventa lo scontro tra Cimbelino, re dei motociclisti, e gli sbirri. I personaggi snocciolano battute al ritmo di blank verse indossando il chiodo e scorazzando sugli skate; sfoggiano un linguaggio d'altri tempi che cozza con il degrato degli scenari e il kitsch degli arredamenti. La colonna sonora va dal classico al reggae e il look di Postumo – jeans stretti e capelli indomabili – è rigorosamente hypster. Stranezze che a me, sensibile all'eleganza intramontabile di Shakespeare e alle suggestioni del mondo tamarro, piacciono. Se questo particolare intruglio di toni aulici e revolver fumanti non dispiace, i difetti si incontrano in una regia piattissima – di Baz Lurhamnn ce n'è uno solo – e nell'intreccio. Non me ne vorrà il Bardo, ma qui non era ai suoi massimi livelli. Cimbelino è un'opera minore della sua produzione, che prende gli amori impossibili di Romeo e Giulietta, i travestimenti di La dodicesima notte e un insoddisfacente finale tragicomico all'insegna del “volemose bene”. Da Romeo + Giulietta i caratteristi Leguizamo e Vondie Curtis-Hall, mentre l'uno da Gossip Girl e l'altra dalle Cinquanta Sfumature, i promettenti Penn Badley e Dakota Johnson. Un tot di atti compressi in un'ora e mezza non fanno che rimarcare la loro mancata memorabilità, uniti a una messa in scena minimalista e alla strana volontà di non mostrare sangue, esplosioni, dettagli da cinema. E' troppo teatrale; come una rappresentazione di una qualche compagnia all'avanguardia messa in scena da studenti, che stravolge le ambientazioni ma rispetta i copioni. E l'intreccio è quello che è. Anche conosciuto come Anarchy, manca del fuoco e della rivoluzione. Di ispirazione. (5)

martedì 14 aprile 2015

Recensione: Ladri di sogni, di Maggie Stiefvater - Blog Tour

Certe cose vogliono essere trovate.

Titolo: Ladri di sogni – Raven Boys
Autrice: Maggie Stiefvater
Editore: Rizzoli
Numero di pagine: 519
Prezzo: € 16,00
Sinossi: La magica linea di prateria è stata risvegliata e la sua energia affiora. I ragazzi corvo, un gruppo di studenti della scintillante Aglionby Academy, sono sulle tracce del mitico re gallese Glendower, che dovrebbe essere nascosto nelle colline intorno alla scuola. Con loro c'è Blue, che vive in una famiglia di veggenti tutta al femminile. A lei è stato predetto più volte che quando bacerà il ragazzo di cui sarà davvero innamorata, questi morirà. Sulle prime sembra che il suo cuore batta per Adam, ma forse è Gansey quello che ama davvero... Intanto Ronan s'inoltra nei suoi sogni, da cui può uscire di tutto. Del resto è uno che ama sfidare il pericolo. Mentre il tormentato Adam, con un passato pesante alle spalle, s'inoltra sempre più in se stesso, cercando una sua strada nella vita. Nel frattempo c'è un individuo sinistro che è anche lui sulle tracce di Glendower. Un uomo pronto a tutto.
                                        La recensione
Ormai non dovrei trovare più la cosa imbarazzante. Mi è capitata abbastanza spesso da diventare consuetudine. Essere coinvolto in un Blog Tour organizzato in grande, scegliermi la tappa più comoda e ritrovarmi a parlare, mio malgrado, con la difficoltà di chi dovrebbe pubblicizzare un romanzo e non sconsigliarlo, di una storia che non mi è piaciuta. Il rischio c'è sempre, ma non pensavo potesse esserci con una come Maggie Stiefvater. Scrittrice poliedrica, bravissima, che mi aveva incantato con il dolce Shiver e spettinato a dovere con lo sfacciato e originale Raven Boys. Due facce dell'urban fantasy, due volti dello stesso talento. Adoro lei, ma ho un problema con le saghe. Mi faccio affascinare dai volumi introduttivi, spesso li lodo, ma poi dimentico l'importante nel tempo che passa – se tutto va bene, un anno; se tutto va male, una vita – tra un capitolo e l'altro. Se solo non leggessi altro nel frattempo. Se solo tutti i libri fossero memorabili. Raven Boys mi era piaciuto, aveva avuto quattro stelle piene e menzioni speciali nel classificone di fine anno, ma avevo colto poco dell'idea di base. Volontà dell'autrice, immaginavo, perché una che crea una famiglia di personaggi tanto interessanti, dotati di vita propria, non poteva non sapere dove portasse la sua stessa serie. Ho iniziato a leggere il sequel, carico di speranze, mentre preparavo Letteratura Latina. Non andava né avanti né dietro, non scorreva, e avevo pensato che Maggie e Virgilio fossero inconciliabili. Momento sbagliato; colpa mia? La mia tappa è slittata fino ad oggi, perciò senza esami e università – nel periodo beato delle vacanze pasquali – non avevo scusanti. La copia che ci eravamo passati noi blogger, oltretutto, piena di post it e appunti a matita, così simpatica e così vissuta, faceva da piacevole incentivo. L'ho iniziato da zero: amici come prima. E più leggevo, più andavo avanti, superato il blocco non da poco delle prime centocinquanta pagine, più capivo che l'abbandono della prima volta non era stato un caso. Non condividevo l'entusiasmo che sprizzavano le emoticons e le note dei colleghi che mi avevano preceduto, mi annoiavo parecchio.. Ecco, mi sono detto: ancora io, l'alieno fuori dal mondo. La pecora nera dei Blog Tour. Dà dà dà dà... Perché, non vi addolcisco la pillola, a me Ladri di sogni alla fine dei conti non è piaciuto. Amo le cose ben scritte, ma odio quelle inconcludenti. Perdere tempo con persone che si inseguono la coda, girando in tondo. La Stiefvater firma un romanzo scritto come lei sa e vende fumo come lei e i centralinisti Vodafone sanno. Siamo a quota mille pagine, continuo a capirci pochissimo del mondo dei rampolli della Aglionby, mi incazzo. C'è qualquadra che non cosa. Tipo cinquecento pagine: piene piene di parole, anche scorrevoli dopo la legnosità dei primi capitoli, ma che introducono due soli nuovi personaggi e la dote misteriosa del ribelle Ronan, che tra l'altro svela anche il titolo e dunque tanto misteriosa non è. Da comprimario a protagonista il passo è breve e lui – i muscoli, il tatuaggio, i capelli corti: antipatico cronico che risulta adorabile a tutti, ma a me no: Ronan, va' fiero di me, io capisco il tuo caratteraccio – si presta agli apprezzamenti delle giovani lettrici e alle possibili situazioni da fanfiction. Situazioni che ho riscontrato anche qui, in momenti ironici che ho trovato grossolane cadute di stile, autoreferenziali e compiaciute al limite del fastidio. Il tutto sottolineato dai dettagli sugli addominali di uno e sul profumo di un altro (“menta e grano”: eau de Pastiera, e che è?) e dalla presenza di un antagonista tamarro che rimarca la mia infelice impressione con battute scollacciate e ipotesi di triangoli alla True Blood o alla Renato Zero.
Quelle amicizie disinteressate, invidiabili, sincere, rovinate dall'ottica di una che “shippa” spudoratamente, si dice così?, e dà a colpi di bromance pane per i loro denti ad adolescenti che scriveranno in giro di cotte e flirt tra Ronan e Gansey, Adam e Harry Styles e così via. 
Eppure Ladri di sogni piace anche a chi certi meccanismi li detesta: non solo io, dal mio personale punto di vista, li ho riscontrati, ma li ho trovati aggravati da dilungaggini che stavolta non mi sono andate giù e da rimandi alla prossima puntata che fanno girare le scatole. Mi ha catturato poco, me lo sono trascinato e ogni peletto mi è parso una trave. Compreso quello stile che inseguo e ricerco – con gli avverbi frequenti, una coppia di aggettivi per tutto, i colori e gli aromi che emergono ad hoc – un po' rococò. Le cose assolutamente positive: le ambientazioni particolareggiate, la traduzione ben fatta – più sicura e sciolta, le adorabili donne del 300 di Fox Lane e lo spietato ma non troppo Mister Gray. Killer, cercatore, factotum che mette una pietra – letteralmente – sul quasi omonimo di E.L James e ricorda i romantici e gentili sicari on the road di un certo Stephen King. Di Ladri di sogni vi hanno detto di tutto e di più e, per il resto, vi rassicurerà la media vertiginosa su Anobii che non mi spiego. Scorro le pagine e arrivo alla conclusione. Sui post-it volanti delle blogger prima di me c'è l'attesa, l'entusiasmo, i conti alla rovescia per quel Blue Lily, Lily Blue che chissà se vorrò leggere. E io mi sento tagliato fuori, col mio fare il bastian contrario. Come quando in quelle scampagnate colossali a casa di amici di amici ti senti fuori posto e non riesci a trovare spazio in mezzo a capannelli di persone che chiacchierano, ridono, spiluccano stuzzichini dandoti le spalle. E' stato così anche con i Ragazzi Corvo, questa volta. La Aglionby ha rifiutato la mia domanda di ammissione (ma tanto io punto a Hogwarts, sappiatelo) e loro parlavano dei fattacci loro – re sepolti, linee di prateria, baci che uccidono – facendomi sentire indesiderato nella loro cerchia diventata vip.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Imagine Dragons - Demons 

domenica 12 aprile 2015

Dear Old Mr. Ciak #1: Once, A Single Man, Il discorso del re, Tra le nuvole

Buona domenica a voi, amici, con una nuova rubrica che tanto nuova non è. Non mi piaceva, quando capitava di parlarvi di un film uscito da più di qualche anno, inserirlo negli stessi post con le novità al cinema o robe sconosciute, viste in rete coi sottotitoli. All'occorrenza, insomma, il solito Mr. Ciak vi parlerà di “care e vecchie” conoscenze. Per quando riguarderò cose che già conosco; o per quando, con lo spirito del rigattiere, pescherò dal cilindro (o dall'hard disk) film che mi ero perso. Si spera soprattutto cose belle.

[2006Once l'ho visto una volta sola; me l'ero fatta bastare. Allora lo avevo trovato bellissimo senza sapere perché: quella bellezza che sfuggiva alle descrizioni aveva una magia particolare, la stessa che pervade questo minuscolo film, e temevo che potesse sparire a una visione rinnovata. Certe emozioni sono un buona la prima, non è destino si ripetano. Sarebbe troppo facile impacchettarle, chiuderle sotto vuoto, respirarle quando se ne ha voglia. Sono passati nove anni, o così dice Internet. Il tempo necessario a rimuovere tutti i dettagli della trama – soprattutto se, come in questo caso, è esilissima – e a rinnovare le cartelle dell'iPod. Pezzi imbarazzanti che spariscono, ma canzoni che restano, come quella Falling Slowly che è il leitmotiv del musical di John Carney e che si ricorda per gli applausi scroscianti agli Oscar e i ripetuti tragitti casa-scuola. Ci mettevo due canzoni e qualcosa per arrivare a destinazione. Ora non le conto, devo camminare sotto un ponte lunghissimo e tenere le orecchie aperte ché non si sa mai, ma quando le tracce partono c'è un duetto piano-chitarra che non può mancare. Scettico davanti all'avventura americana di Carney, ma soddisfatto anche da Being Again, commerciale ma non svenduto, avevo avuto voglia di rivedere Once e poi non più. Finché l'ho beccato su uno di quei canali del digitale che non guarda nessuno, romantico e evocativo come lo ricordavo. Io, a corto di definizioni come la prima volta. Cos'ha di speciale Once non saprei, ma ha qualcosa che incanta – nonostante un direttore della fotografia latitante, un budget esiguo, attori vestiti come gli andava quel giorno, l'immagine slavata da documentario. Sembra vecchio, e lo sembrava già allora. D'altre epoche, d'altro mondo. Non la Dublino dei turisti e della birra dorata. Una città qualsiasi, due persone qualsiasi, per una storia che nasce con la musica e non finisce. Glen Hansard e Marketa Irglova camminano spalla a spalla, si aprono in due il cuore davanti a un pianoforte, vanno a zonzo con la chitarra in spalla e una aspirapolvere scassata al guinzaglio. Lui, aggiustatutto col cuore che non si aggiusta e il sogno della fama. Lei, immigrata con un matrimonio in forse e lavoretti salturi. Potresti incontrarli duranta una passeggiata in una grande città. Chi suona per strada, chi vende rose. Dura pochissimo e quando finisce gli occhi sono lucidi senza apparente motivo e l'iPod peserà di una dozzina di splendide canzoni in più. Quel ragazzo e quella ragazza sprovvisti di un nome di battesimo si cantano in faccia i loro sentimenti – amori distanti che poi arrivano a coincidere, gettando le fondamenta invisibili del loro invisibile amore – e vivono grazie alla musica una delle storie più toccanti degli ultimi anni, nonostante ci sia il sentimento e manchi tutto il resto. Un futuro insieme, un numero di telefono, perfino un bacio. Ma forse è toccante per quello: il cantarsi timidamente l'incoffessabile con la purezza, e le voci, che hanno gli angeli. (8)

[2009] Colin Firth, vittorioso a Venezia, ambiva alla statuetta per il Miglior Attore. Era il tempo in cui non mi prendevo la briga di fare le ore piccole per dare un'occhiata, prima della cerimonia, alle pellicole in lizza e in cui il radical chic era l'equivalente di un grosso segnale di pericolo. Evitavo certi film, pensando non fossero cosa mia. E non sono tutt'ora cosa mia, ma il melodramma di Tom Ford declinato interamente al maschile, col suo suggestivo sposalizio di autorialità e rigorismo, ha fascino - prima volta al cinema di uno stilista di fama mondiale, indiscusso arbiter elegantiae anche per il profano che fa spesa da H&M. Arriva all'anima, e soprattutto agli occhi, attraverso il canale a senso unico dell'eleganza. La storia di George, professore gay di mezza età nella Los Angeles dei primi anni '60, è quella di un uomo solo. Di un vedovo nel cuore che si trascina tra lavoro e vita privata, sfiorando cupi pensieri suicidi e richiamando, con incubi in bianco e nero, l'inizio e l'epilogo della sua storia d'amore. Si sono voluti bene per sedici anni, nella loro casa di vetro da falsi scapoli. Quando Jim è morto, George non ha raccontato a nessuno, se non alla sua migliore amica, lo strazio immane di quella perdita clandestina. Erano gli anni della Guerra Fredda, dei cartelloni che pubblicizzavano Psycho e degli aspiranti sosia di James Dean, ma ci si preoccupava di dare un senso all'amore. Firth, con il suo classico aplomb britannico e un'incredibile somiglianza col nostro Mastroianni, bravissimo per me lo è sempre, ma qui di più. Completi scuri d'alta sartoria e un film intero cucito addosso, in cui si muove con lo sguardo appannato ora dal pianto, ora dal desiderio, e una pistola carica a portata di mano. Rigido, serio, colto si specchia in una trama che assume per osmosi le sue movenze. A Single Man è così, impeccabile ma trattenuto. Si piange addosso solo in una delle prime sequenze, dopo una chiamata che stronca una vita, ma sarebbe una blasfemia dire che non comunica anche a modo suo, col controllo di chi vorrebbe confessarti la sua perdita, ma non può. E incorniciati ad hoc risultano più avvenenti del solito la meravigliosa Julianne Moore, che ha un ruolo breve ma significativo; il giovane Nicholas Hoult, con gli occhi di un azzurro irreale e i tratti scultorei; Matthew Goode, visto sempre qui e lì, ma mai colto impreparato. Le mascelle volitive, le labbra carnose, bellezza semplice e senza inganno, messe in risalto come in pittura. Il nudo, eroico, mostrato con una virilità davvero poco queer, dunque inattesa. Ford, con una fotografia languida e scene acquose, colpisce per lo splendore formale che va ricercando nei dettagli più minuti, mentre con voce spezzata ti racconta il più crudele e nudo dei dolori. Quello che, spaventosamente universale, è vietato svelare. (7,5)

[2010] Come dimenticare la vittoria del Discorso del re che, qualche anno fa, con parecchio sgomento, aveva sbaragliato una concorrenza di tutto rispetto? Alcuni rosicano ancora. Quella che per pigrizia non avevo seguito con l'hype degli ultimi tempi era stata un'annata fortunata: ricordo che c'erano, sul tappeto rosso, esempi di grande cinema, anche se, qualora qualcuno mi avesse chiesto una preferenza, non avrei nascosto il mio entusiasmo per le ballerine folli di Aronofsky. Immancabile, sul podio, il piccolo film in costume. Quest'anno c'era The Imitation Game; quell'anno il più fortunato dramma di Tom Hooper. Il vincitore che ha preso tutto: ha impugnato lo scettro e indossato la corona del Miglior Film. Il discorso del re è una rigorosa commedia british, vicina ai gusti dello spettatore medio e alle preferenze dell'Academy. Ineccepibile e aristocratica, anche se la vicenda del Duca di York, in tempo di guerra e di abdicazione, sa suscitare qualche risata che non ne intacca la sobrietà. Mi è piaciuto. E' dalla parte del popolo ed è di cuore, alla faccia della pellicola d'autore e di reali che non mostrano bontà in pubblico. Però le nominations erano tante e le quattro vittorie troppe. Resta una deliziosa ricostruzione storica senza un comprimario e un dialogo fuori posto, che ha tutta l'aria del polpettone sulla Grande Guerra e un'inaspettata frivolezza. Déjà vu con il successo inspiegato di Shakespeare In Love. Godibile, confezionato con maestria, ma similmente sopravvalutato. Il dato è tratto, inutile piangere sull'Oscar assegnato e impossibile odiarlo. Gli si vuole bene. Si storce il naso nella parte conclusiva, quando un'altra guerra sta per scoppiare e a palazzo ci si preoccupa più di dizione che di questioni di Stato. Un po' come se fuori la gente chiedesse il pane e dentro il sovrano facesse colazione coi cornetti, come disse qualcun altro. Ma Il discorso del re è un prima, il tempo delle lotte di tutti i giorni e sì, anche dei croissant; termina con un lieto fine, prima che il mostro Hitler – con i suoi soldati e i suoi discorsi alla massa senza balbettii – glielo rovini. Colin Firth, con tutta la sicurezza con cui è possibile essere insicuri, è claudicante nel parlare e fragile in maniera convincente. Sua sposa fedele, una Helena Bonham Carter che quando non fa l'idiota è assai capace. Suo allenatore, amico e psicologo-fai-da-te, un Geoffrey Rush al di sopra dei colleghi: spinge il futuro Giorgio VI a canticchiare e a coniare parolacce per superare l'incertezza e nel suo studio, quello con i muri scrostati e spogli che ricordano la piattezza dei fondali teatrali, la macchina da presa dà il meglio e il mestiere dell'istrione si fa ammirare. (7)

[2009] Un protagonista che colleziona miglia e teste per un'altra commedia d'autore che, sempre agli Oscar, con un numero sproporzionato di candidature, si era fatta notare. Quando i film selezionati non sembravano dovere durare per forza dieci ore, la giuria era meno snob, i capricci sentimentali del divo brizzolato facevano sognare le casalinghe. L'era d'oro di Reitman jr. che poco prima aveva lanciato Ellen Page in una commedia indie che è già cult. Ora, meno irriverente e pubblicizzato, trova fredda accoglienza all'estero, ma non ci fa scordare che resta sempre in gamba. In Tra le nuvole sembra un Cameron Crowe piacevolmente imbastardito: dirige una commedia romantica, infatti, che parla del più cinico degli amori. Quello verso sé stessi: il solo a non darci buca. La regia è convenzionale, ma lui ha una cifra stilistica inconfondibile che si nota in uno script arguto e nella semplicità delle intenzioni, elevate grazie a un cast ottimo e a dialoghi che sono il segreto di tanto successo. La trama, solita ma con un retrogusto che turba, segue le vicende di un cinquantenne che non sta fermo. Vive a cavallo dei fusi orari e per il senso di stordimento da jet lag. Lui è quello che, in periodo di crisi, ha licenziato una persona che conosci. Quando l'avvento della modernità minaccia di di renderlo finalmente sedentario, che sarà della sua voglia di vivere sospeso in eterno, nel blu dipinto di blu? La rivelazione Anna Kendrick, squalo in erba, già allora spiccava per quella simpatia che adesso l'ha resa richiestissima. Vera Farmiga, quarantenne di un altro pianeta, sbocciava piano e in ritardo: Reitman l'ha aiutata. Insieme a lei – coppia di romantici coi giorni contati, cuori in scadenza – il George Clooney di cinque anni fa, lo scapolo ambitissimo, con la maturità che ha trovato da poco. Si sa che i film e le sceneggiature, se brillanti, accorciano i tempi. E che le stanze vuote sul lago di Como, se viaggi in solitaria, non si riempiono come per magia. Lui, che mi sta mortalmente antipatico nella vita vera, qui dovrebbe fare altrettanto, e avrebbe davvero il gioco facile, ma il suo vagante Ryan Bingham – sincero come uno mai si aspetterebbe – suscita qualcosa che somiglia all'empatia. A volte, se ti fermassi a pensare a cosa ti rimarrebbe, a chi ci sarebbe per te, ecco... sarebbe la fine. Hai presente la sensazione? Perciò fa' una valigia e via; parti. Vola sul mondo. Senti le lancette scorrere, e ignora: rimanda. Sii passeggero della tua vita, come in Iggy Pop. (7)

venerdì 10 aprile 2015

Recensione a basso costo: Suite Francese, di Irène Némirovsky

Nel cuore di ogni uomo e di ogni donna resta una specie di Eden dove non ci sono né morte né guerre, dove le belve e le cerbiatte giocano in pace. Si tratta solo di ritrovare quel paradiso, rifiutando di vedere tutto il resto. 

Titolo: Suite Francese
Autrice: Irène Némirovsky
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 415
Prezzo: € 4,90
Sinossi: "Suite francese", pubblicato postumo nel 2004, è l'ultimo romanzo di Irène Némirovsky. Scritto agli albori del secondo conflitto mondiale a Issy-l'Évèque, in Borgogna, è un affresco spietato, composto quasi in diretta, della disfatta francese e dell'occupazione tedesca, in cui le tragedie della Storia si intrecciano alla vita quotidiana e ai destini individuali. È un caleidoscopio di comportamenti condizionati dalle aberrazioni della guerra, dalla paura, dal sordido egoismo, dalla viltà, dall'indifferenza, dagli istinti di sopravvivenza e di sopraffazione, dall'ordinaria crudeltà, dall'ansia di amore. È il racconto della passione, ambigua e tormentata, che nasce tra una giovane donna il cui marito è disperso al fronte e un ufficiale tedesco. Con lucida indignazione ma anche con pietà, Némirovsky mette a nudo le dinamiche profonde dell'esistenza umana di fronte alle prove estreme e scrive un insperato capolavoro della letteratura del Novecento.
                                       La mia recensione
Ho un'immagine che non riesco a togliermi dalla testa. La Némirovsky sopresa dai tedeschi mentre, seduta alla sua scrivania, con la stella a cinque punte cucita sul petto, pensava ai movimenti conclusivi della sua lunga suite francese. Un poema sinfonico in cinque atti, di fughe disperate e furtiva dolcezza e poi boh. Appunti sparsi, indecifrabili, che forse comprendevano altre trame, altro amore; finalmente la pace. Volano dalla finestra, in una nevicata di fogli bianchi, e lei viaggia su un treno che non torna indietro e non vola. Magari anche allora aveva continuato a pensare ai suoi figli e ai suoi personaggi. Ma non ci si ferma davanti all'odio, all'incompiuto, e quell'opera a metà – decenni e decenni dopo – è stata pubblicata postuma. Prima delle aste tra editori e della conquista delle librerie era già un classico. All'inizio troppo piccolo per apprezzarlo, poi - nell'età della ragione – incerto su come parlarne, l'ho inserito nella lista dei desideri sicuro che lì, in tutta franchezza, se ne sarebbe stato: mi fanno paura le promesse di capolavori, il senso d'infinito che un punto mancato sa dare, le pagine vuote. Le melodie che si interrompono perché hanno sparato sul pianista. Quindi, il sangue sugli spartiti. Suite Francese era incompleto, ma in che senso? Complice la trasposizione cinematografica, accolta senza particolari clamori e con tanta commozione, sono fioccate ristampe in economica e nuove recensioni. Gli occhi puntati sul racconto, in parte una storia d'amore, e solo alla fine sul dramma dell'autrice. Irène Némirovsky avrebbe voluto così, che fosse ricordata attraverso una storia. L'ultima. E recentemente, coi trailer in tivù e i paragoni, mi sono accorto di come Suite Francese non stesse tutto lì, nel pensiero cupo della deportazione, ma fosse un romanzo vero e proprio; un testamento spirituale e narrativa insieme. Per gli indecisi cronici, sappiate che Suite Francese si lascia leggere con impensata velocità, amare e all'evenienza – ma non è il mio caso - criticare. Non ci sono pensieri e reazioni fuori luogo; va bene tutto. Diverso da come lo immaginavo, da molti custodito su una specie di altarino con ceri e incensi, è aperto, e aperto alle chiacchiere, alle critiche, alle confutazioni di lettori medi. Che leggono tanto, i classici a tratti li temono e, capaci di sostenere pazientemente i ritmi lenti dei capitoli introduttivi, non siano per forza dotati di puzza sotto il naso e gusto sopraffino. Il romanzo è per tutti e, alla reverenza iniziale, a quello sfogliare le pagine pianissimo che è un po' come camminare sulle punte, vanno sostituendosi un interesse vero e un'immediatezza che, al contrario del libro stesso, invece non è da tutti. Le autrici di oggi si danno arie da gran dame in melodrammi guerreschi che, con uno stile infiocchettato che sembra soltanto lento e pacchiano, ambirebbero alla serietà e invece conquistano scaffali con tutte le sfumature del rosa. 
Chiamasi polpettoni, quei romanzi: studiati nel dettaglio, fiutano lo strazio, il profumo delle lacrime, la possibilità facile di farsi cinema. Ogni tanto mi piacciono, ma Suite Francese per fortuna è diverso. Semplice, quotidiano e un filino ironico, perché la Nèmirvosky – persona che ci sarebbe piaciuta molto – rideva tra se e se anche allora, coi soldati armati sotto casa e gli sguardi sdegnati dei suoi concittadini. Il tipo di donna che, come quella di cui canta Hozier, sghignazza in chiesa e ride ai funerali. Avrei dovuto saperlo, avendo letto anni fa un suo racconto, Il ballo; aspettarmi perciò descrizioni evocative, splendide, di quelle che non si trovano più, e l'umorismo inopportuno ma irresistibile che ogni tanto rimproverano anche a me. La Némirovsky disprezzava più il borghese del nemico tedesco, si fidava meno del vicino di casa che del giovane invasore che sbucciava un'arancia, un mandarino, e con un sorriso buono offriva spicchi succosi ai bambini. Questa guerra vissuta nelle campagne e nei borghi delle cartoline scoppia col caldo e le bombe, mentre i ricchi si riversano per strada con gli abiti dei giorni di festa e i gioielli cuciti nelle tasche – confidando nel potere del denaro, che trova la sua kryptonite in una miseria che non guarda in faccia nessuno – e i poveri sperano, nelle casupole di paglia che il soffio del lupo fa crollare. Il Suite Francese che leggiamo noi, sprovvisto dei tre movimenti conclusivi, è piccolo ma contiene due volumi. 
Nel primo, quello che si muove piano piano, l'autrice – in terza persona – salta da un punto di vista all'altro, seguendo personaggi che in molti casi non troveremo andando avanti e scappano per mettere tutti i chilometri possibili tra loro e il fulcro dell'uragano. Inizia la guerra. La combattono i figli e i mariti, i giovani, con città abitate solo da donne e codardi radical chic che si barricano nell'ozio letterario. La signora Péricand che ricorda il servizio di piatti buono e scorda a casa il suocero; l'intellettuale Gabriel Corte derubato di un paniere pagato un capitale; i pacati coniugi Michaud e il loro figlio sfortunato che sopravvive al conflitto ma non alle insidie dell'adolescenza; la timida signorina Labarie che si è innamorata del suo ospite, un soldato ferito, e prega che il marito disperso non bussi alla porta tanto presto. Il secondo movimento, Dolce, è la quiete dopo la tempesta. Ma il vento si è fermato in città, il tifone indossa la divisa di un altro colore e in quella pace fasulla, al tramonto dell'Armistizio, francesi e tedeschi siedono alla stessa mensa. Inconciliabili come la pioggia e il fuoco, coinquilini per forza, tra un silenzio che riempie e la musica del pianoforte, scoppia con discrezione la passione tra Lucile Angellier e il tenente Bruno von Falk. Lei misura le parole, sorvegliata da una suocera gelida, ma bastano ottantotto tasti e lui riesce a mettere in musica la guerra che ha visto. Sono significativi e si lasciano leggere in un soffio, loro, ma non perché al centro della più grande storia d'amore mai raccontata che le fascette promozionali annunciano - si danno per sempre del lei, si scambiano appena un bacio, ma diventano esempio di una concordia che ancora non esiste, svariate generazioni dopo, ma per chi la desidera forte appare comunque a portata di mano. La Nèmirovsky riconosce con pietà e compassione l'umanità degli stessi uomini che un giorno l'avrebbero uccisa e, se anche avesse potuto, sfuggita agli orrori di Auschwitz, non sarebbe ritornata sui suoi passi. Avrebbe ugualmente ignorato l'accento straniero; riportato la galanteria e la delicatezza di chi obbediva all'ordine di essere cattivo; descritto quei giovani abbronzati e biondi che avevano fatto innamorare anche mia nonna, che al tempo era appena bambina; perdonato. Questione di prospettive e punti di vista, e lei sa mostrarceli tutti. Una vinta tra tanti racconta i vincitori, con la leggerezza di chi guarda le cose dalla giusta distanza e non mette chincaglierie a nascondere le crepe delle nostre contraddizioni e i fiori della loro indulgenza. 
“Lo sappiamo che l'essere umano è complesso, molteplice, diviso, sorprendente, ma ci vuole un tempo di guerra o di grandi rivolgimenti per scoprirlo. E' lo spettacolo più appassionante e terribile. Non possiamo illuderci di conoscere il mare senza averlo visto nella tempesta come nella calma. Solo chi ha osservato gli uomini e le donne in un tempo come questo, li conosce. Solo lui conosce sé stesso.”
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Patrick Doyle – Kissing in the Rain